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Giorgio Orelli e il "lavoro" sulla parola. Atti del Convegno internazionale, Bellinzona 13-15 novembre 2014 a cura di Massimo Danzi e Liliana Orlando

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Giorgio Orelli e il "lavoro" sulla parola. Atti del Convegno

internazionale, Bellinzona 13-15 novembre 2014 a cura di Massimo Danzi e Liliana Orlando

DANZI, Massimo (Ed.), ORLANDO, Liliana (Ed.)

Abstract

Actes du colloque international de Belinzone sur Giorgio Orelli (Airolo 1921-Belinzone 2013), le plus important poète, traducteur, narrateur et critique littéraire de la Suisse italienne du XXe siècle et certainement aussi un des plus remarquables poètes en langue italienne de la deuxième moitié du XXe siècle.

DANZI, Massimo (Ed.), ORLANDO, Liliana (Ed.). Giorgio Orelli e il "lavoro" sulla parola.

Atti del Convegno internazionale, Bellinzona 13-15 novembre 2014 a cura di Massimo Danzi e Liliana Orlando . Novara (Italie) : Interlinea, 2015

Available at:

http://archive-ouverte.unige.ch/unige:84153

Disclaimer: layout of this document may differ from the published version.

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Giorgio Orelli e il “lavoro” sulla parola Convegno internazionale di studi

COMITATO SCIENTIFICO Simone Albonico (Università di Losanna) Ottavio Besomi (Politecnico Federale di Zurigo)

Massimo Danzi (Università di Ginevra) Pietro De Marchi (Università di Zurigo)

Uberto Motta (Università di Friburgo) Liliana Orlando (Liceo Cantonale di Bellinzona) Fabio Pusterla (Università della Svizzera italiana)

Niccolò Scaffai (Università di Losanna)

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GIORGIO ORELLI E IL “LAVORO”

SULLA PAROLA

Atti del convegno internazionale di studi Bellinzona 13-15 novembre 2014 a cura di Massimo Danzi e Liliana Orlando

INTERLINEA

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Volume pubblicato con il sostegno della Fondazione Ulrico Hoepli di Zurigo, del Fondo generale dell’Università di Ginevra e del Contributo del Cantone Ticino derivante dall’Aiuto federale per la salvaguardia e promozione della lingua e cultura italiana

© Novara 2015, Interlinea srl edizioni

via Mattei 21, 28100 Novara, tel. 0321 1992282 - 612571 www.interlinea.com edizioni@interlinea.com

Stampato da Italigrafica, Novara ISBN 978-88-6857-058-3

In copertina: fotografia di Yvonne Böhler

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Sommario

MassiMo Danzi, Introduzione p. 7

stefano agosti, Giorgio Orelli e l’istanza della lettera » 15 Maria antonietta grignani, Pedagogia dello sguardo e declinazione

dei colori » 23

silvia longhi, Le sillabe di Orelli » 37

Clelia Martignoni, Per Giorgio Orelli narratore » 51 Pietro gibellini, Pane e coltello: un poeta fra quattro narratori » 63 gilberto lonarDi, Su Orelli che traduce otto versi di Lucrezio » 77 aliCe sPinelli, “Attraversando” Valeri. Aemulatio e (co-)intertestualità

nel Goethe di Orelli » 87

MassiMo Danzi, Orelli lettore: genealogia e figure di un “metodo” » 111 Christian genetelli, Per il critico e per il poeta. Giorgio Orelli

lettore di Leopardi » 133

niCColò sCaffai, Un’altra fedeltà: Orelli e Montale » 151 giovanni fontana, «Gli occhi attenti, contro stipiti saldi, duraturi».

Orelli e Luzi » 169

georgia fioroni, Orelli e Sereni: un possibile dialogo » 187 Yari bernasConi, Quello che resta nella memoria: L’ora del tempo

di Giorgio Orelli » 209

ottavio besoMi, Il lavoro sulla parola d’altri: gli inediti del Fiore » 223 PietroDe MarChi, L’orlo della vita di Giorgio Orelli. Notizie sull’inedito

e proposta editoriale » 243

Pietro Montorfani, «Wer redet, ist nicht tot». Prime ricognizioni

nella bibliografia di Giorgio Orelli » 255

giovanni orelli, Una testimonianza » 295

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Autografo di Primavera a Ravecchia (aprile 2013) poi divenuta L’uomo da marciapiede.

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Introduzione

In occasione della festa per i novant’anni di Giorgio Orelli, svoltasi in questa stessa sala nel maggio del 2011, in diversi c’eravamo detti che occorreva affron- tarne il lungo “lavoro” letterario in una sede scientifica. Ora che Orelli ci ha la- sciato, questo compito è parso anche più urgente. Sappiamo tutti la velocità con cui il presente diventa passato; e questo si perde inesorabilmente. Quando, nel 2008, Orelli ricevette l’importante premio della Banca della Svizzera italiana, toccato in precedenza a Contini, Isella, Amerio, Pozzi e altri studiosi, a tenere la laudatio fu chiamato il romanista Cesare Segre, da molti anni amico del poeta.

Segre ha lasciato una sua autobiografia, nella quale a un certo punto si chiede che cosa dei nostri studi sarebbe rimasto dopo la morte. E la conclusione era una: occorre sempre ricominciare, perché nella memoria collettiva come nel diritto dei popoli nulla è iscritto per sempre. Questo è il compito di chi rimane, di operare cioè perché il rapporto tra presente e passato non venga cancellato dalle sirene dell’attualità e chiara, o più chiara possibile, resista la coscienza della nostra storia, delle nostre radici. Giorgio Orelli credeva nella forza delle radici, non solo di quelle leventinesi o bellinzonesi (pur così importanti per lui);

ma di quelle che, in un artista, emergono con il lavoro “onesto” degli anni che non è altro che lo sforzo per essere se stesso tirando l’acqua al proprio mulino:

lavoro “onesto” perché fedele alla natura e alla propria profonda aspirazione.

Concepiva, Orelli, e lo ha scritto parlando di artisti che ha amato, un lavoro in- tellettuale come chiarimento di sé, dei propri motivi esistenziali e della propria ansia conoscitiva: «A un artista», scrisse a proposito del bleniese Ubaldo Moni- co, «preme di consegnare nient’altro che l’immagine che porta nell’anima». E, a proposito dello scultore Giovanni Genucchi, altro bleniese ma questa volta nato a Bruxelles, osservò: «La forza di Genucchi è nella ricchezza (devo proprio dir così) della sua povertà, della sua umiltà, nella profonda onestà che gli permise di non recitare farse con se stesso, prima che con gli altri, tradendo le proprie radici. Veramente la sua anima si prolunga nelle opere». Viene in mente un autore molto caro a Orelli, che si interrogava sul nuovo “ordine” che l’artista impone alle cose: «Comment une œuvre remarcable sortirait-t-elle de ce chaos», scriveva Paul Valéry, «si ce chaos qui contient tout ne contenait aussi quelques chances sérieuses de ce connaître soi-même?» (ed. Pléiade, vol. I, p. 1335). In Italia, queste parole ci riportano a un poeta come Saba, che Orelli incontrò a Milano, in un’osteria di via XX Settembre per la mediazione di Vittorio Sereni, un’«unica indimenticabile volta» (così ricorda in Quasi un abbecedario, p. 53)

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e alla sua «poesia onesta», che per il poeta triestino significava «non travisare il proprio io e non ingannare con false apparenze quello del lettore». «Benché esser originali e ritrovar se stessi siano termini equivalenti, chi non riconosce», scriveva Saba in Quello che resta da fare ai poeti (del 1911 ma pubblicato solo nel 1959), «che il primo è l’effetto e il secondo la causa?» C’è molto di Saba in questa posizione di «poesia onesta» brandita da Orelli, in quel suo (è ancora Saba) «mantenersi puri ed onesti di fronte a se stessi» senza paura di «ripeter se stessi». Lo si rilegga e si capirà perché, e quanto, quell’unico incontro milanese restò fissato nella memoria del poeta.

Un tale modo di vedere le cose attesta naturalmente (e così era anche in Saba) una posizione morale, in cui “barare” è, prima di tutto, “barare con se stessi”. Ciò vale anche per i poeti, la cui personalità risulta negli anni da un

“lavoro” che rende lo stile vieppiù personale e riconoscible. Di questo “lavoro”, teso a far emergere la propria profonda natura e ispirazione, ha scritto sempre Valéry sottolineandone la complessità e la completezza. E, dalla sua Firenze, il poeta e francesista Mario Luzi, amico da sempre di Orelli, gli ha fatto eco, ri- cordando il «lavoro enorme che attende [il poeta] per ritrovare il suo suo gesto, la sua voce essenziali» (L’inferno e il limbo, Il Saggiatore, Milano 1964, p. 14).

Solo a questo prezzo, di un “lavoro” condotto senza fretta (come voleva Orelli), l’opera che risulta è poi il «prolungamento dell’anima del poeta».

Il convegno che si apre oggi fa centro su un poeta che in molti abbiamo cono- sciuto. Per una ragione o per un’altra (il destino è sempre per metà frutto del caso e per metà altra cosa) a vari di noi è toccato in sorte di frequentarlo. Ad altri, tra Bellinzona e Prato, di incontrarlo e scambiare parole, che poi – con lui – due non erano mai perché Giorgio Orelli è stato un interlocutore straordi- nario, posseduto da un «bisogno di esprimersi» nel quale Segre ha riconosciuto senz’altro «la prima spinta all’invenzione critica e alla poesia». Questo non è dunque solo un convegno “accademico” (quale anche sarà), ma un’assemblea di amici che alle ragioni della letteratura uniscono quelle di una lunga e amisto- sa fedeltà all’autore, per la prima volta espondenole al pubblico. Un pubblico – sappiamo – non fatto solo di specialisti e che ha, negli anni, sentito la figura di Orelli, e ora forse con maggior forza la sente, come parte del suo mondo. Il mondo di Orelli è stato un mondo di uomini e di rapporti umani, prima che di libri e di letteratura: di scavo e di ricerca interiore perché, come ha scritto con grande semplicità, «uno scrittore consapevole che la vita è una sola, sa che fuori dalla conoscenza di sé non c’è scampo» (Quasi un abbecedario, p. 32).

Anche fuori del suo borgo e della scuola, dove ha insegnato per quarant’an- ni, Orelli era amato: ricordo l’amicizia con poeti come Montale, Sereni, Luzi o Fernando Bandini. O con studiosi come Gianfranco Contini, suo maestro friburghese, Cesare Segre, Maria Corti, Stefano Agosti o lo storico dell’arte Ro- berto Longhi; e da noi, fra tutti, Virgilio Gilardoni, creatore, qui a Bellinzona, dell’“Archivio Storico Ticinese” e storico tra i più esposti e vigili del nostro Paese. Ma potrei ricordare anche un buon numero di artisti: Cavalli, Moni-

MassiMo Danzi

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co, Genucchi, Selmoni, Bolzani; ma anche Boldini, Carrà, Rosai o Italo Valen- ti, che disegnano una “storia” parallela e altrettanto ricca del poeta. Accanto però a questi amici, Orelli faceva posto anche a persone che non immaginiamo.

Nell’ultimo libretto Quasi un abbecedario, parlando molto seriamente della scar- sa considerazione in cui i commenti ai poeti tengono il fatto acustico, strizza con ironia l’occhio al portinaio della Scuola di Commercio (che molti di noi ricorda- no) e con il quale, dopo le lezioni, si intratteneva spesso. Sentite il tono delle sue parole: «È curioso (tristemente significativo, diceva il portinaio della mia scuola) che nei commenti si ignori questo fatto» ecc. Questo era l’uomo.

A lato di questo convegno, abbiamo voluto una mostra che raccogliesse i fili e gli intrecci anche di quest’altra storia “culturale” che, come accade nei migliori momenti, travalica i confini del Cantone per incunearsi negli spazi di una cultura senza muri. Qui i fili s’intrecciano, perché ciò che la mostra documenta è posto sotto la lente del convegno: penso all’attività del traduttore, del critico, del poeta o del narratore. Uomo sostanzialmente legato a due soli luoghi, Bellinzona e Prato Leventina, Orelli ci invita, in realtà, a un dialogo costante con l’Italia di Gadda, Sereni, Montale, la Germania di Goethe o dell’amato Hölderlin o la Francia di Baudelaire, Mallarmé, Valéry o René Char. Da critico, poeta o traduttore Orelli ha trovato editori illuminati, che hanno saputo rispettare i tempi e lo spirito che erano i suoi: Scheiwiller, Casagrande, Mondadori, Garzanti o Einaudi. Con tutti ha dialogato nei suoi scritti intensamente durante decenni. Vi invito dunque a percorrere la mostra, che si aprirà dopo le relazioni di questo pomeriggio.

Ma torno alla poesia e alla letteratura, il campo che Orelli ha arato, seminato e nel quale ha raccolto il frutto di settant’anni di “lavoro”. Con la doppia ap- partenenza dello svizzero italiano, Orelli è entrato, dopo gli anni universitari di Friborgo, nel Novecento italiano con il passo sicuro di un “lavoro” nutrito dalla fede nella poesia. Da anni, è riconosciuto come une dei «poètes véritables» del secondo Novecento, nonché riferimento certo per chi scrive, fino alle generazio- ni attuali. Per questo, la parola “lavoro” compare nel titolo di questo convegno e della mostra. Travail è stata parola molto cara a Valéry che con essa esprimeva la sua decisa opposizione alla nozione, troppo vaga e fumosa, di “ispirazione”. E la parola trattiene, anche per Orelli, tutto il segreto, l’industrioso segreto dell’ar- tigianato verbale del poeta.

L’accostamento di “poesia” e “lavoro” risulta forse ancora ostico a qualcuno.

L’idea un poco metafisica dell’“ispirazione” che di colpo invade il poeta è dura a morire. Non contentava critici come Valéry, che le aveva preferito la nozione (decisiva anche in Orelli) di faire: «faire des vers». Così come non accontentava molti poeti e scrittori. Sentite cosa scrive al proposito Gottfried Benn, ricordan- do come i giornali del suo tempo ospitassero spesso le poesie dei lettori:

nel nostro paese vi è una vasta schiera d’individui che se ne stanno a scriver versi da inviare ai giornali; e i giornali, a loro volta, sembrano convintissimi che il pubblico dei lettori desideri poesie, se no impiegherebbero altrimenti il loro spazio. Non mi occu- però, oggi, di tali poesie occasionali […] ma sono partito da questo spunto perché alla

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base di tale fatto sta una ragione d’essere collettiva: […] la maggioranza del pubblico vive ancora con la convinzione che una poesia nasca semplicemente così: ecco un paese selvaggio o un tramonto del sole, ed ecco un giovane o una ragazza d’umore un po’ me- lancolico. Ebbene, no! così non nasce nessuna poesia; una poesia sorge, in genere, molto di rado, una poesia viene “fabbricata”: «ein Gechicht wird gemacht» nell’originale (in

“Aut-Aut”, 9, 1952, p. 199).

Lo scritto di Benn ci parla del “lavoro” del poeta, della consapevolezza e del con- trollo che richiede la composizione di un testo e che il poeta tedesco sentiva come un «tratto decisamente moderno», estendendolo, del resto, alla musica, alla pittu- ra, all’arte. Anche per Benn, la sperimentazione dell’artista è sperimentazione es- senzialmente “formale”. Nei grandi autori, in poesia come nella musica e nell’arte, è la “forma” a individuare uno stile, a profilare e rendere riconoscibile un artista.

Si pensa ancora a Valéry, così decisivo nel secolo che è stato di Orelli: «Une allian- ce intime du son et du sens, qui est la caractéristique essentielle de l’expression en poésie, ne peut s’obtenir qu’aux dépenses de quelque chose, – qui n’est autre que la pensé. Inversement, toute pensée qui doit se préciser et se justifier à l’extrême se désintéresse et se délivre du rythme, du nombre, des timbres» (I 455). In questo sta, per Valéry, il singolare lavoro di traducteur del poeta, che «traduit le discours ordinaire, modifié par une émotion, en “langage des dieux”»; un “lavoro”, che

«consiste moins à chercher des mots pour ses idées qu’à chercher des idées pour ses mots et ses rythmes prédominants» (ed. Pléiade, vol. I, p. 212). “Poesia”, “pro- sa”, “suono”, “senso”, “ritmo”: siamo davanti ai concetti cardine del “lavoro” e della riflessione di Giorgio Orelli.

Ho ricordato Benn, perché (con Hölderlin e Goethe) è fra i poeti frequentati da Orelli. Ma l’idea che una poesia non nasca ma sia “fabbricata” si trova prima che in lui nell’amato Dante che parla di fabricatio trattando della canzone antica nel De vulgari eloquentia. E ritorna poi, di nuovo, in Valéry, che parla di «fabri- cation de l’oeuvre». Un’idea, insomma, che era di alcuni e che, sentendo l’opera come il risultato di un artigianato (di «artefatto» parla Orelli) segna un equili- brio maggiore tra momento compositivo e risultato raggiunto, interpretando il

“fare” come viatico al perfezionamento del testo: «ce travail d’approximations»

come diceva ancora Valéry.

Giorgio Orelli è stato, in questo senso, un grande artigiano della parola. Ha lavorato a perfezionare poesie, racconti, traduzioni per anni, senza pubblicarli o pubblicandone pochi e scartandone molti. La radice di questa lentezza, che il poeta rivendicava nella scrittura come nella lettura che doveva essere (con aggettivo continiano) “minuziosa”, spiega certo le numerate raccolte poetiche da lui licenziate. Ma forse più spiega che egli si annoveri senz’altro tra i poeti del secondo Novecento che più hanno accompagnato il “fare” con un’alta “coscien- za del fare”: il mestiere con uno sguardo attento sul mestiere. Non era questo un fatto scontato nell’Italia degli anni cinquanta, quando ancora pesava il giu- dizio di Croce sui capostipiti di quella riflessione, i vari Mallarmé, Valéry ecc.,

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bollati come «cerretani dalle idee pseudofilosifiche». Anni fa, Alfredo Giuliani, poeta del Gruppo ’63 e curatore dei Novissimi, testo fondamentale della neo- avanguardia italiana, affidava a una provocatoria stroncatura del grande poeta Thomas Stearns Eliot questa considerazione, malgrado tutto, ancora attuale:

«Faccio notare», scriveva Giuliani liquidando come snobistica l’attenzione di Eliot alla tecnica e alla retorica della poesia, «che in quell’epoca prestrutturali- sta, presemiologica, ottusamente “realistica”, del mestiere, da noi non parlava pressoché nessuno. A sentire i critici e gli stessi poeti, sembrava che la poe- sia discendesse direttamente dalla Grazia» (Eliot nella terra desolata. Quasi una stroncatura, in “la Republica”, 18 settembre 1988).

Orelli è dunque stato tra i non molti poeti del Novecento che del proprio mestiere hanno scritto a fondo e con passione, accompagnando il suo lavoro di poeta e narratore con la lettura attenta di altri scrittori e poeti. E gli siamo grati.

Appena possiamo immaginare cosa sarebbe la conoscenza di Dante senza la sua riflessione linguistico-retorica o l’esegesi leopardiana senza le aperture dello Zi- baldone o la poesia del Novecento (e non solo) senza le riflessioni di Mallarmé, Eliot, Valéry o Pound. In Italia, una tale “coscienza del fare” inizia con Dante e passa poi per Petrarca, Tasso, Leopardi o Montale. Sono autori che Orelli, forse non per caso, ha privilegiato nelle sue raffinate “auscultazioni” critiche. Ma lo stesso, mi pare, vale per il traduttore: non è un caso che Goethe, abbia costituito per lui un vero “laboratorio” o che si sia provato, lasciando poi in gran parte inediti quei testi, a tradurre il difficile Mallarmé.

La modernità letteraria, che Baudelaire inaugura, è stata anche il tempo della riflessione sul “lavoro” letterario. Da Mallarmé, Proust o Valéry è derivata a noi – nani sulle spalle di giganti – quella moderna “coscienza del fare”, che in vari campi della creazione artistica è tra gli acquisti più vivi della cultura euro- pea. Allievo di Gianfranco Contini, che aveva scritto di Proust e Mallarmé fin dal 1947, Orelli si era familiarizzato per tempo con questa riflessione, che nel maestro si accompagnava a una dimensione militante della letteratura. Altri fatti aveva annusato col fiuto del poeta. Nel 1943, l’esordio del saggio di Contini sulle “correzioni” del Petrarca volgare lo aveva certo segnato: «La scuola uscita da Mallarmé e che ha in Valéry il suo teorico considera la poesia nel suo farsi e l’interpreta come un “lavoro” perennemente mobile, di cui il poema “storico”

rappresenta una sezione possibile, non necessariamente, l’ultima». Contini pen- sava certo al caso del Cimetière marin, che Jacques Rivière sottrae un bel giorno a Valéry, mentre l’autore vi sta lavorando, e pubblica in rivista fissandone così il testo. Ma anche su altri fronti, la formazione friborghese era stata ricca. Se pensiamo al rilievo della linguistica di Ferdinand de Saussure, alla conoscenza che Contini ebbe presto di Roman Jakobson e all’amicizia con l’esule Emile Benveniste o, per altro verso, al rapporto diretto con quelli che chiamava i «big four» – Saba, Cardarelli, Ungaretti, Montale – intuiamo l’apporto e la sensibilità che agli allievi veniva in dono dal maestro friborghese.

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MassiMo Danzi

Gli ambiti che convegno e mostra toccano sono stati da Orelli sentiti come pro- fondamente connessi e complementari. Prosa e poesia ai suoi occhi non corre- vano su binari troppo diversi e un poeta era per lui, come ancora Valéry voleva, prima di tutto anche un critico. Così, la sua poesia è andata negli anni verso il racconto e la prosa si è liricizzata, mentre il traduttore toccava nel vivo la lingua sulle pagine dei grandi autori. Di ciò un convegno doveva tenere conto. Lo abbiamo fatto con gli interventi che il programma evidenzia: nel pomeriggio di giovedì la poesia, venerdi mattina prosa, traduzioni e critica letteraria, nel pomeriggio il dialogo con i poeti moderni; sabato una serie di “lavori in corso”, che apriranno su quella parte dell’opera che l’autore non ha potuto licenziare in vita e alla quale lavorava alacremente ancora nei giorni della sua scomparsa.

A render conto di questa lunga attività intellettuale e di questo intreccio di piani saranno colleghi a lui legati, negli anni, da sicura amicizia. Con una parti- colare affettuosa menzione per il cugino Giovanni Orelli, vicino a Giorgio per molti motivi e che qui ha accettato di essere presente con una testimonianza.

Che mi sia concesso, ora, mentre andiamo verso la prima relazione dovuta al più caro amico di Giorgio, di ringraziarli per l’entusiasmo con cui hanno aderito a questa iniziativa. Ringrazio, insieme ai relatori, anche il comitato scientifico, formato dai colleghi delle Università della Svizzera italiana, di Losanna, di Fri- borgo, dell’Università e del Politecnico di Zurigo, che con me hanno disegnato la mappa del convegno; e in particolare Enrico Lombardi e Fabio Pusterla, che hanno pensato alla “serata” di lettura di venerdì 14 novembre; e quanti hanno collaborato all’organizzazione, con una concordia e accelerazione che ha avuto, nelle ultime settimane, del meraviglioso: particolarmente Liliana Orlando, Pie- tro Montorfani e Sveva Frigerio. A Lucas Häfliger e Fabrizia Gendotti, autori del manifesto che reca la bella fotografia di Yvonne Böhler, va la nostra grati- tudine per un lavoro svolto, spesso, in tempi brevissimi. Ma un convegno non poteva farsi senza il contributo generoso degli sponsor: ringrazio in particolare il Dipartimento Cultura del Canton Ticino e i membri della “Commissione cul- turale” per il contributo finanziario derivante dal “Supplemento federale per la promozione della Cultura e della lingua italiane”; la città di Bellinzona, nelle persone del responsabile del Dipartimento cultura Roberto Malacrida e di Bar- bara Perini-Venzi; il Comune di Prato Leventina, sensibile e fiero nell’omaggio al suo poeta. Finanziamenti ci sono venuti anche dalle Universtà di Ginevra, della Svizzera italiana e di Friborgo, che nel 1991 ha conferito a Orelli il dotto- rato h.c. E un apporto decisivo da quelle di Losanna e Zurigo, che con il Politec- nico Federale sono presenti nel Comitato scientifico. Ricordo infine e ringrazio per il generoso sostegno e la sensibilità dimostrataci il “Gruppo Coop”, pre- sente con la direttrice della Sezione cultura Monica Piffaretti e con Samantha Dresti; e con esso due Fondazioni benemerite: la “Fondazione Carlo Danzi per lo sviluppo dell’alta Leventina” e la “Fondazione per la cultura del Locarnese”.

Infine, ultimi solo per le leggi dell’ospitalità, la Scuola cantonale di Commercio e il Liceo cantonale di Bellinzona, istituti dove Giorgio Orelli ha insegnato tutta la vita e che ci premeva vedere coinvolti in questo omaggio. A tutti, istituzioni,

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enti pubblici e privati, nonché al pubblico presente va la nostra gratitudine, nella speranza che la manifestazione si riveli all’altezza dell’uomo che abbiamo inteso onorare e della passione che, per tutta la vita, lo ha animato.

MassiMo Danzi

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STEFANO AGOSTI

Giorgio Orelli e l’istanza della lettera

In questa comunicazione commemorativa mi occuperò solo della poesia di Giorgio Orelli, anche se la titolazione che esibisce la «lettera» come perno del discorso potrebbe convenire, con pari legittimità, a quello che è stato il suo lungo percorso critico.

E per déblayer le terrain circa il senso, il valore, la funzione della lettera nel testo, e in particolare nel testo poetico, mi affiderò subito ad alcune citazioni, atte ad eliminare ogni sovrabbondanza esplicativa.

E, per esempio, a questa, da Mallarmé (tratta dalla grande prosa che porta il titolo significativo di Le Mystère dans les lettres, ove «les lettres» sono, sì, sinonimo di letteratura, ma in quanto si riferiscono proprio alle “lettere dell’al- fabeto” di cui è fatta quest’ultima, e al loro “mistero”): la profondità del testo, il segreto della sua profondità, che Mallarmé designa attraverso l’espressione squisita di «miroitement, en dessous», tal segreto è (cito) «peu séparable de la surface concédée à la rétine»: tradotto in termini volgarmente comunicativi questo significa: la superficie del testo incorpora la sua stessa profondità (il che può ricordare altresì quanto Valéry, nel suo provocatorio gusto del paradosso, affermava circa il corpo umano, e, in definitiva, circa l’organismo: «la profon- deur de l’homme, c’est sa peau»).

Su questa profondità di cui la lettera si fa depositaria, allineo ora tre straor- dinarie dichiarazioni di Lacan, dal volume postumo Autres Écrits.

La prima: «la pratique de la lettre converge avec l’usage de l’inconscient»:

affermazione che possiamo considerare del tutto corrispondente, sia pure in termini psicoanalitici, alla citazione mallarméana;

la seconda riferisce, in formulazione stupenda, come il dire più proprio del Soggetto sia quello sottratto al suo stesso sapere: e corrisponde sia alla parola as- sociativa dell’analisi sia alla stessa parola poetica, in quanto di questa permanga un resto (sottolineo questo vocabolo) situato fuori dalla competenza riflessa del Soggetto: «tout ce qui est de l’inconscient, ne joue que sur des effets de langage.

C’est quelque chose qui se dit, sans que le sujet s’y représente [traduco: è qual- cosa che viene detto senza che il soggetto vi sia rappresentato], n’y qu’il s’y dise [né che vi si esprima] ni qu’il sache ce qu’il dit [né che sappia quello che dice]».

Qui rinvio a quanto, dianzi, ho affermato circa il «resto», il «residuo» del dire sottratto al Soggetto;

ed ecco la terza citazione, ove si sottolinea, del tutto sintomaticamente per noi, proprio l’ambiguità di una parola – associativa e/o poetica – di cui una parte non è altro che la materia stessa del dire, nella quale si pronuncia quella

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stefano agosti

profondità di cui il Soggetto è proprietario senza esserne il “maître”: «le dire, le dire ambigu de n’être que matériel du dire [traduco: quel dire ambiguo che è solo il materiale, la materia del dire], donne le suprême de l’inconscient dans son essence la plus pure».

Del resto, di una «pratica della lettera» come connaturata al proprio dettato poetico, Orelli espone lui stesso l’istanza nella bandella editoriale, firmata con sigla, di Il collo dell’anitra: in particolare sul valore e il senso della lettera /i/.

Entrando ora, dopo queste premesse, nel cuore del discorso, devo avvertire che, inizialmente, parlerò, anzi ri-parlerò (avendone già trattato in precedenti interventi) soprattutto di due modalità secondo le quali si svolge questa «pratica della lettera».

La prima modalità è quella che, ancora Mallarmé, designa come «allittera- zione dissimulata», e il cui esempio per noi è fornito da una lettura effettuata da Ungaretti su Leopardi, e precisamente su un punto di A Silvia, nel quale egli individua il segreto della «musica» leopardiana. Il punto è il seguente:

Mirava il ciel sereno le vie dorate e gli orti:

ove il gruppo timbrico /or/ figura distribuito diversamente nei due vocaboli che lo ospitano: in «orti», è in posizione di sillaba compiuta, provvista di ac- cento tonico-ritmico; mentre, in «dorate» risulta spezzato e distribuito su due sillabe, atona e accentata.

Ed ecco a raffronto l’incipit del famoso Frammento della martora (da L’ora del tempo), in cui l’allitterazione dissimulata si esercita (non certo casualmente) su affine gruppo timbrico, incorporando, per di più, il lessema della titolazione del volume:

A quest’ora la martora chissà dove fugge:

ove il gruppo /ora/, costitutivo del sostantivo in forte posizione ritmico-accen- tuativa, si ripresenta in «martora», ma in posizione totalmente atona.

La seconda modalità della «pratica della lettera» in Orelli, è quella che, al- trove, abbiamo definito della «lettera come nodo di senso»: è il lacaniano “si- gnificante” in quanto «noeud de signification». Di fatto, si tratta di una catena simbolica che incalza il Soggetto (ecco il “dire” citato prima, del quale il Sog- getto non è direttamente consapevole), catena in cui il Soggetto – proprio come Edipo – si trova irretito.

Qui Lacan, pur non frequentato da Giorgio, sembra inserirsi nel cuore del suo operare poetico, della sua, chiamiamola pure, “ossessione” della verbalità.

Ora, la catena simbolica precitata risulta spesso, anzi quasi sempre, mime- tizzata nelle pieghe dell’ironia, e magari del sarcasmo o dell’amarezza. E tutta- via a volte si pronuncia – sicuramente grazie alla complicità o al consenso del

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giorgio orellielistanzaDellalettera

Soggetto – come manifestazione, o sintomo, della sua costituzione morale più propria: quella che ha la radice nel tragico – spesso dissimulato e magari quoti- diano – dell’esistere.

Tale, ad esempio, è la catena simbolica che emerge, sia pure per segmenti, in una delle bellissime poesie della sezione Con Mimma, nel Collo dell’anitra.

Si tratta della poesia che inizia: «Non conosco l’azzurro / tuo preferito», ove la serie cromatico-simbolica circoscrive successivamente, come «nodo della lette- ra», o anello della catena, non più l’azzurro ma il colore giallo: quello, però, non di forsizia o mimosa – dice il testo –, ma di ginestra o corniolo, finendo poi per incarnarsi nella (cito)

nuova farfalla che a un tratto ritorna gialleggiando con altra dove lucertole vagano liete fra i nostri resti mortali.

Si tratta, in definitiva, dello stesso nodo (e qui torno a ripetermi) rappresen- tato dall’immagine «fitti argenti» che figura nella poesia Dopo Lucca (da Sinopie), e che, successivamente a varie migrazioni sulle cose e sugli aspetti del mondo, si conclude e si fissa (ancora in riferimento a uno dei più sublimi emblemi del tra- gico, il sarcofago di Ilaria del Carretto, a Lucca, di Jacopo della Quercia), si fissa dunque (cito) sulle «punte dei piedi d’Ilaria / toccate da una luce di bufera».

E vengo, finalmente, alla parte nuova di questo intervento.

Essa riguarda una poesia, Ragni, pubblicata in una preziosa plaquette d’arte, con serigrafie di Nathalie du Pasquier, inviatami da Mimma insieme a un bigliet- to per me, scritto da Giorgio, il «giorno prima» (dice Mimma) di «passare di là».

Naturalmente quanto sto dicendo è autorizzato da Mimma, cui esprimo di nuovo, qui, tutta la mia riconoscenza, soprattutto per il dono che mi ha fatto del citato biglietto di Giorgio.

Eccone il contenuto, che trascrivo con emozione:

Bellinzona, 8 nov. 2013 Caro Stefano,

questi Ragni (:) aspettano te quelque part.

Con affetto

Giorgio

Ebbene, ho assunto le parole di Giorgio come una sorta di legato testamen- tario, cui ottempero ora, proprio in rapporto ai citati Ragni, con la presente relazione o, meglio, lettura.

Dico lettura in quanto la poesia Ragni presenta una tale rete di rapporti della lettera (allitterazioni, orizzontali e verticali, iterazioni di timbri, rime interne

(18)

ecc.) che immediatamente mi rimanda alla lettura eseguita da Giorgio sul Sabato del villaggio (Per leggere «Il sabato del villaggio», in Accertamenti verbali). Nel Sabato, la lettura di Giorgio rileva infatti una (cito) «così fitta […] rete di rime, assonanze, chiasmi ecc. che quasi tutte le parole del Sabato [vi] sono intricate».

Ebbene, lo stesso si verifica qui, ove quasi tutte le parole del testo sono im- plicate – come si è detto – in un reticolo fittissimo di relazioni, delle quali sarà proprio la «lettera» – nei valori che le abbiamo assegnato – a determinare la profondità.

Si riconfermerebbe così la citazione da Tolstoj avanzata da Giorgio al prin- cipio della sua lettura, citazione ricavata da Lotman, e che qui riproponiamo per la sua stupefacente pertinenza al caso: «quell’infinito labirinto di concate- nazioni, nel quale consiste l’essenza dell’arte» (in Lotman, La struttura del testo poetico, Mursia, Milano 1972, p. 18).

Di questo reticolo, di queste «concatenazioni», che provvediamo a eviden- ziare con la maiuscola nei loro svariati occorrimenti – cui fa séguito, in espo- nente, il numero del verso –, do ora un regesto, solo essenziale, unitamente alla riproduzione del testo.

Ragni Da quando? se da giorni

e giorni, mesi ormai, mentre riposo li osservo e scordo e non senza stupore

riscopro: ombre d’acheni, 5

più piccoli di mezza formichetta smarrita nell’acquaio: sempre lì, lontano quanto basta dalla lampada che ha bruciato l’incauto calabrone,

diàfani a furia di guardarli, quasi 10

trascoloranti in rosa:

chi sa mai se lo sanno

d’essere l’uno a una spanna dall’altro come due nèi su una schiena,

inquilini abusivi del soffitto, 15

strani compagni della mia vecchiaia:

sempre lì, sempre soli, senza preda, una volta soltanto

è arrivato dal Nord

un ragno d’altro rango, 20

quasi robusto, nerastro, è passato col fare inquisitorio d’un commissario

tra i due come se fossero

sorvegliati speciali, 25

senza distrarli, è sparito in fretta nel gran bianco, stefano agosti

(19)

e dunque non li ha visti sincronici calarsi,

sostare penzolando 30

nel vuoto dove nemmeno si sognano di cercare un appiglio

per una tela: intenti alle filiere troppo presto esaurite e come

saggiando il peso d’essere, il mistero, 35 già pronti a risalire divorando

filo e distanza:

per fingersi di nuovo due punti nei dintorni

di me. 40

Da1 – quanDo1 – Da1

giORni1 – giORni2 – ORmai2 – scORdo4 – stupORe4 ripOSo3 – OSServo3

sCOrdo4 – risCOpro5 – aCHEni5 – piCCOli6 – formiCHEtte6 – aCQUAio7 – QUAnto8 – inCAUto9 – CAlabrone9 – QUAsi10

lontAno quAnto bAsta dAlla lAmpAdA i tre endecasillabi, vv. 8,9,10 che hA bruciAto l’incAuto cAlAbrone scanditi ritmicamente dalla diAfano a furia di guardArli, quAsi lettera /a/

quasi : rosa (rima impf.) : vv. 10-11

quaSi10 – roSa11 – Sa12 – Sanno12 – d’eSSere13 sANNo12 – spANNa13

Uno13 – Una13 – dUe14 – sU14 – Una14 NÈI14 – schIENa14 (palindromo) InquIlInI abusIvI del soffItto stRANI16 – compAGNI16 (-- RAGNI) SEMPRE lì SEMPRE lì SENza PREda17 una vOLTA sOLTAnto18

un RAGNO d’altro RANGO20 (anagramma) AlTRO20 – nerAsTRO21 (sostituzione di lettera) robuSTo – neraSTro21

arrivATO19 – passATO22 (rima interna) inquisitORIO22: commissARIO23 (rima impf.) SPeciali25 – SParito26

speciALI25 – distrArLI26 viSTi28 – soSTare30

nel vuoto dove nemmeno si sognano31 unico endecasillabo di 7ma, e immune da relazioni timbriche calARsi29 – sostARe30

sostARE30 – cercARE32 (rima interna)

per una TEla inTEnTi alle filiEre33 allitterazione e accentazione ritmica sulla /e/

giorgio orellielistanzaDellalettera

(20)

Troppo presTo esauriTe34 riprende l’allitterazione sulla dentale sorda del verso prece- dente, ma su posizioni atone troPPo34 – Presto34 – Peso35

Saggiando il peSo d’eSSere il miStero35 saggiANDO35 : divorANDO36 (rima interna) FIlo37 – FIngersi38

DIstanza37 – DI nuovo38 – Due39 – DIntorni39 – DI me40 allitterazione continua sulla dentale sonora /d/, la stessa dell’incipit

Del reticolo evidenziato, sottolineerò ora alcuni fatti ove l’eminenza della let- tera, pur nelle funzioni che le abbiamo assegnato, si associa ad effetti particolari.

Così, ad esempio, l’allitterazione dell’incipit sulla dentale sonora, la /d/, «da quando? se da giorni», viene ripresa – come abbiamo segnalato – nei versi finali con effetto, appunto, di strutturazione timbrica circolare del testo: «per fingersi di nuovo / due punti nei dintorni / di me». Circolarità ribadita per di più dal- la rima «giorni» : «dintorni», che risulta inoltre l’unica rima in senso proprio dell’intero componimento.

Oppure si pensi ai tre splendidi endecasillabi in successione (vv. 8-10), già sottolineati nel regesto, tutti ineccepibilmente scanditi, dal punto di vista ritmi- co-timbrico, sulla lettera /a/ (probabilmente sulla traccia, o dietro il ricordo, di alcune memorabili sillabazioni, proprio sulla lettera /a/, di Petrarca, quale ad esempio, «piága per allentár d’árco non sána», sillabazione corroborata dall’oc- corrimento centrale, sulle sillabe sesta e settima, dell’allitterazione /TAR/ - / D’AR/,associata alla variante della dentale, sorda-sonora). Ecco i tre versi, con coda di settenario con accento portante ancora sulla /a/, il primo scandito se- condo uno stupendo ritmo giambico:

lontano quanto basta dalla lampada che ha bruciato l’incauto calabrone, diàfani a furia di guardarli, quasi trascoloranti in rosa.

Ma si può segnalare anche, per una sorta di prova a contrario, l’unico verso del componimento che risulta immune da quello che possiamo anche chiamare il “lavoro della lettera”. Si tratta del verso 31, notificato nel regesto:

nel vuoto dove nemmeno si sognano.

Ebbene, si tratta – ripetiamo – del solo endecasillabo presente nel testo con accento di 7ma. Che è, se vogliamo, il tipo più raro di endecasillabo, cui si affi- dano, da Dante a Foscolo a D’Annunzio, funzioni ritmico-espressive svariatissi- me. Nel caso di Giorgio, possiamo notare che, in questa stessa comunicazione, ci siamo già imbattuti in un endecasillabo di 7ma. E precisamente in quella poe-

stefano agosti

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sia dedicata a Mimma che abbiamo citato, e di cui abbiamo evidenziato i nodi della struttura simbolica:

dove lucertole vagano liete fra i nostri resti mortali.

E tuttavia, il «nodo della lettera», in Ragni, detiene una valenza tutta particolare.

Nell’ultimo libro scritto, La chambre claire. Note sur la photographie, dedica- to alla memoria della madre ed esattamente all’immagine di lei, che tuttavia non viene mai mostrata, Roland Barthes distingue due elementi nella rappresenta- zione fotografica: lo studium e il punctum.

Lo studium è il quadro formale entro il quale si dispone l’immagine stessa:

la luce, la composizione, l’inquadratura ecc.: è, insomma, quanto definisce la foto come produzione riflessa e, per lo meno nelle intenzioni, d’ordine artistico.

Il punctum è, invece, quanto esorbita dallo studium: più precisamente, è quel dettaglio magari non previsto dall’operatore, che fuoriesce dallo studium, e toc- ca, anzi “punge” (punctum, precisa Barthes, viene dal verbo pungere) l’osserva- tore: il dito fasciato della bambina, le scarpe con il cinturino del personaggio femminile nella foto di una famiglia negra americana ecc.

(Rinvio per una disamina più approfondita dei due elementi, al libro di Barthes).

Ebbene, per ritornare al testo, in Ragni, se lo studium può essere assimilato al reticolo calcolatissimo della lettera che abbiamo notificato, il punctum, che toc- ca e punge il lettore, e cioè, per riprendere la nostra terminologia, il nodo della lettera che apre il testo alle più riposte profondità del Soggetto, è rappresentato dalla raffigurazione dei “ragni”.

E cioè, in un primo occorrimento, dai «due nèi su una schiena» (v. 14); i quali nèi, nei due ultimi versi del testo, si trasformano nei «due punti», cui viene associato, in stretta contiguità, l’omografo del sostantivo, vale a dire la preposi- zione articolata «nei». Così, i ragni finiscono (cito)

per fingersi di nuovo due punti nei dintorni di me.

(Sono i due punti tra parentesi (:) che Giorgio inseriva nel suo biglietto).

E qui credo proprio di poter chiudere il mio intervento.

Il grafema interpuntivo (i due punti) è di solito adibito ad aprire un elenco, una serie. Tuttavia, la sua adibizione, per così dire, canonica, è quella dell’aper- tura del discorso diretto: due punti, virgolette ecc.

Ebbene, nel nostro caso, l’enunciazione finale del Soggetto ove i ragni fini- scono (cito)

per fingersi di nuovo due punti nei dintorni

giorgio orellielistanzaDellalettera

(22)

ebbene, qui, l’enunciazione del Soggetto del grafema interpuntivo, i due punti, non costituisce altro che l’enunciazione stessa di un discorso che si apre sulla propria interruzione.

Tale è il messaggio che, in Ragni, il Soggetto ha affidato – sotto la soglia della coscienza – all’istanza della lettera.

Ma sarà proprio questa parola non detta, questa lettera che manca, che prov- vede a irradiare a ritroso l’intera opera di Giorgio Orelli di quella luce straor- dinaria che è la luce del postumo: «Tel qu’en lui-même enfin»…: dando inizio a quella che sarà non diciamo la gloria del Poeta ma piuttosto la sua vita futura.

stefano agosti

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MARIA ANTONIETTA GRIGNANI

Pedagogia dello sguardo e declinazione dei colori

Io sento la vita che scappa, sento il furto del tempo, a cui è difficile sottrarsi, ma ho ancora molte cose da fare. Sono arrivato ai 90, an- che se mi sono sentito sempre provvisorio e credevo di scollinare giovanissimo.

(Intervista rilasciata a Paolo Di Stefano, in “Corriere della Sera”, 19 giugno 2011) Io sono walseriano per la pelle. […] Il pregio fondamentale di Walser è la creazione con niente di un mondo profondo e intimo

(G. orelli, Quasi un abbecedario, a cura di Y. Bernasconi, Casagrande, Bellinzona 2014, p. 61)

Come forse in nessun altro poeta del secondo Novecento, in Orelli le parole della civiltà letteraria si fondono con quelle dell’attualità, senza finta innocenza e senza virtuosismi esposti, in una miscela polifonica che va dalle sfumature re- gionali (e da prove in dialetto) a intarsi con lingue altre d’Europa. Orelli è poeta coltissimo, ma non schiavo della cultura: nelle sue poesie le suggestioni, le cita- zioni e gli omaggi all’alta letteratura si innestano su occasioni spesso apparente- mente feriali.1 Il suo linguaggio ha sul lettore un effetto fresco, diretto, e spesso quasi materico, pur essendo lavorato nei riferimenti ai modelli – ora espliciti ora ammiccanti – e nelle derive ritmico-timbriche intertestuali; fa vedere il mondo come se si offrisse per la prima volta allo sguardo o addirittura balzasse dallo sfondo al primo piano. Italo Calvino, nella conferenza Mondo scritto e mondo non scritto (1983), aveva notato come l’approccio dei poeti del nostro tempo all’esperienza sia dominato – più di quanto non accada alla prosa – dall’osser- vazione del dettaglio trasparente, dall’investire oggetti minimi, piante o animali che fossero, come identificatori di realtà e di significato, dal William Carlos Wil- liams del ciclamino a Marianne Moore del nautilus a Eugenio Montale dell’an- guilla. Ne deduceva questa lezione utile anche alla narrativa:

La vera sfida per uno scrittore è parlare dell’intricato groviglio della nostra situazione usando un linguaggio che sembri tanto trasparente da creare un senso d’allucinazione, come è riuscito a fare Kafka.

Che la poesia di Giorgio colpisca l’emotività, per dire così primaria, di pro- fessionisti di norma addetti a notomie raffinate su fenomeni complessi della te-

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Maria antonietta grignani

stura verbale e metrica lo mostra la poesia di uno dei critici più solidali con le idee estetiche di Giorgio, Stefano Agosti; il quale ingloba in una delle sue rare poesie date alla stampa, Il prato di margherite nel volumetto La riconoscenza, un omaggio all’immagine del bimbo Matteo che bruca le margherita nella splendida poesia Che fa Matteo Delbrück (in Spiracoli), tutta piena di colori e di rinvii, già in esergo e poi nel finale, alle meraviglie lucreziane del visibile: «perché tutto / è nuovo per il figlio di mia figlia, / tutto è meraviglia». Agosti inscrive addirittu- ra il nome nel testo: «Tu intanto / stai preparando l’insalata / che brucheremo come Matteo Delbrück, / carponi sul prato, le margherite».2

Uno dei motivi che rendono memorabile la poesia di Orelli è quello dello stupore di fronte all’esistenza, una meraviglia che si offre all’adulto e riattiva in lui l’incanto tipico dell’infanzia nella scoperta e nel presentarsi alla percezione di quel che si vede.3 Pier Vincenzo Mengaldo ha parlato di «sorridente capacità di suggerire la natura sfuggente di quanto ci circonda»,4 aggiungerei non tanto attraverso lo sfumato quanto tramite una nitida “pedagogia” dello sguardo, che ci invita a riconoscere due direzioni e due percorsi di va-e-vieni: innanzi tutto la direzione dal soggetto verso l’oggetto e, al contrario, quella dall’oggetto in di- rezione del soggetto ricevente; e poi la dimensione che va dal dettaglio minimo alla presa grandangolare e viceversa.

Si direbbe che in rapporto a questi doppi movimenti delle apparizioni del

“reale” stia un altro tema, anch’esso originario e perdurante: la mutua perme- abilità e permutabilità tra vita e morte. Basta pensare ai titoli delle raccolte Si- nopie e Spiracoli molto indicativi, l’uno della sovrimpressione tra vivi e defunti e l’altro dell’apparire di ciò che non è più, o non è palese, per fessure e spifferi;

oppure a qualche passo anche antico come «I morti sono più vivi dei vivi» (Nel cerchio familiare); «la vita che noi morti qui viviamo»; e ancora: «pensare che la vita / dev’essere viva, cioè vera vita, o la morte la supera / incomparabilmente di pregio» (SI);5 infine al titolo e al testo de La trota argentea di montaliana memo- ria, la quale – simbolo di vita – sfugge alla mano di chi l’ha catturata e in questo modo, non tanto “si salva”, quanto letteralmente «torna al suo fiume, ci salva».

La fluidità tra i vari dominî del mondo, cose, animali, umani vivi o trapassati, si appoggia sovente a elementi coloristici, con maggior frequenza rispetto alla media della poesia contemporanea.

I colori in Orelli sono un supporto essenziale di quell’atteggiamento che ho appena chiamato, in mancanza di una definizione migliore, pedagogia dello sguardo. Ci viene incontro, nel risvolto di copertina dell’ultima raccolta edita Il collo dell’anitra, la nota d’autore:

Dal collo dei colombi di Lucrezio a quello dell’anitra, è continua meraviglia il trasmutare dei colori a seconda della luce: così è della vita, degli spettacoli anche minimi del mondo.

A tale nota, che ne è quasi sintesi, corrisponde il testo posto ad aprire il volume, traduzione da De rerum natura II, 798-805, con il solfeggio di rosso- azzurro-smeraldo tra tenebre e luce:

(25)

PeDagogiaDellosguarDoeDeClinazioneDeiColori

Quale colore permettono le cieche tenebre?

Già nella luce stessa trasmuta un colore se rifulge perché lo percuote obliqua o diritta;

così cambiano al sole le piume dei colombi che di torno alla nuca coronano il collo, e infatti talvolta sono rosse di fulgido piropo e paiono talaltra mischiare all’azzurro il colore dei verdi smeraldi.

Gilberto Isella, in un recente suo saggio molto acuto, ha osservato che «le gamme cromatiche ricoprono un ruolo attivo e in larga misura euforizzante, nella produzione del senso». Il che è vero non solo per il ruolo attivo che que- ste gamme ricoprono, ma anche per come lo ricoprono, con quali declinazioni linguistiche.6

La percezione della forma e del volume nell’Orelli poeta è molto spesso subor- dinata alla evidenza cromatica, esattamente il contrario di quanto – poniamo – fa il Manzoni correggendo il Fermo e Lucia e dandoci un romanzo di volumi, ma prevalentemente in bianco e nero e relative sfumature intermedie.7

Ricorro a un esempio tra i molti. In A Giovanna sulle capre (SI) le capre, elemento naturale, per effetto della luce perdono volume e diventano macchie nere, assumendo la pura forma bidimensionale della chiazza in quanto tale, che padre e bambina potrebbero attraversare stagliata contro il cielo. La «fissità un po’ smaterializzata che potremo chiamare araldica», secondo l’efficace formula- zione di Mengaldo (p. 193), è data dalla figuratività cromatica:

e in giorni come questo luminosi,

vedi, non hanno corpo, non sono che macchie nere sul greppo; e quella, immota contro il cielo, potremo attraversarla tenendoci per mano.8

Sicura e costante la dominanza dei colori basici che, a quanto dicono gli esperti, equivalgono ai fenomeni emotivi primari (sono dunque pan-human per- ceptual universals?), anche se la loro semiologizzazione varia nelle varie culture:

bianco, nero, rosso, verde, giallo, azzurro/blu, marrone, viola/porpora, rosa, arancione, grigio. Sono i basici a prestarsi ancora oggi a varie estensioni e neo- formazioni.9

Il campo lessicale del giallo e quello dell’azzurro producono nelle raccol- te mature l’estensione dell’aggettivo/sostantivo alle forme derivative verbali e quindi danno alla resa del colore una sfumatura di processo o di evento in du- rata. Per azzurreggiare: «vedi un azzurreggiare / limpido» (Per Agostino, SP);

«da tanto biondeggiare azzurreggiare» (Come quando di là dal Gottardo, CA).

Per gialleggiare: «il muro dove gialleggia la buca / delle lettere» (Cardi, II, SP);

«più non gialleggia la buca / delle lettere» (La buca delle lettere, in forma di implicito rinvio interno al precedente, in un testo reso noto dell’imminente ul- tima raccolta L’orlo della vita). Secondo una ricerca di Rita Fresu condotta sulle

(26)

cinque edizioni della Crusca, per gialleggiare esistono esempi antichi, tra i quali nel 1384 il Libro di viaggi di Pier Del Nero («La gente, che dimora appreso questa fiumana, verdeggiano e gialleggiano»). Il verbo nel Grande Dizionario della Lingua Italiana è attestato in Leonardo, Frugoni, Pindemonte, Carducci, D’Annunzio, Soffici, Gadda.10

Vasta in italiano la duttilità dei cromonimi, di norma lemmi con funzione nominale o aggettivale. La tipologia delle flessioni riguarda i procedimenti di lessicalizzazione analitica, ossia associazione dei colori con pietre, metalli, flora, fauna, realtà gastronomiche e sostanze che li hanno suggeriti, dato che il rosa, il viola, l’arancio dimenticano – oppure possono riallacciare – il legame origi- nario con il fiore o frutto cui sono associati. Perfino fatti storici e guerreschi sono generatori di colori. Ricordo il montaliano Nubi color magenta, che non colleghiamo d’acchito con il rosso particolare, attestato fin dal 1862 e ispirato purtroppo al luogo del bagno di sangue che nel 1859, con la vittoria dell’esercito franco-sardo su quello austriaco, concluse la seconda guerra di indipendenza:

un rosso cruento, detto appunto color Magenta.

Non stupisce in Cardi II (SP) il «rosso Gaudenzio» delle magnolie, dentro un tripudio di viola, bianco, arancio, azzurro e giallo; associazione caritatevolmente postillata da Orelli come suggestione dei colori del ciclo di Gaudenzio Ferrari a San Cristoforo di Vercelli:

Da bianche magnolie o d’un rosso Gaudenzio, sul viola, due tortore vanno non senza gioconde esitazioni (il bianco ripete il breve

ventaglio della coda) nell’araucaria che uncina con troppi rami morti un balcone.

Le solite onoranze del sambuco.

Un pensionato dà la prima mano

di minio al suo cancello. Un cane vestito di stracci e di vuoto rincorre l’autocarro

della Nettezza Urbana. Mi saluta in arancio un addetto sempre in piedi di dietro con occhi

d’intensissimo azzurro.

[…]il muro dove gialleggia la buca delle lettere.

[…]

Veniamo ora a un’analisi blandamente diacronica, partendo da L’ora del tem- po, perché anche da una specola apparentemente secondaria si coglie l’evoluzio- ne dello stile di Orelli.

In questa prima fase della poesia l’aggettivo di colore è spesso preposto al sostantivo, secondo la disposizione agg + sost tipica della tradizione: «candido braccio» (Paese); «argenteo pulviscolo» (Colgo questo paese); «verde primavera»

Maria antonietta grignani

(27)

(Gli occhi che un poco muoiono se guardano); «verde traiettoria» (Lettera da Bel- linzona). Ma è già più frequente la posizione posposta, meno tradizionale: «Ai boschi bruni, alle pietre più grige / ci riconosceremo» (Per Agostino); «splen- dono bacche rosse» (Perché il cielo è più ingenuo); «barbagli azzurri» (Il lago);

«fronde sempreverdi» (Natale 1944); «aria rosata» (Lettera da Bellinzona).

Nella forma sostantiva si trova: «il primo verde / di robinia» (Assenza); «il più giovane verde» (A una bambina tornata al suo mare); «dove incupisce nel suo verde il pino» (Lo stagno); «lungo il verde proteso d’infanzia» (Nel dopo- pioggia); «l’azzurro che viene / dal Nord» (Il lago).

Già compaiono i verbi derivati in -eggiare: «tra i calcestri / biancheggianti del passo» (Campolungo), dove calcestro, frequente nel Ticino, vale “roccia cal- carea”.

Anche l’apposizione sostantivale compare e indirizza verso quell’astrazione dal volume a vantaggio del puro colore, che ho ricordato sopra per le macchie nere delle capre: «ritrovo, grigio appeso, lo spauracchio / che somiglia un fan- ciullo» (Novembre 1944).

Riporto alla fonte del colore, cioè alle entità botaniche che diedero nome a due colori, in questo passo: «le gazze curiose, lasciando a piè degli alberi / il loro sterco come un reciticcio / d’arance e di viole?» (Dicembre a Prato).

Fin dalle prime poesie che vanno a comporre OT, i cromonimi, colori della natura e di certi animali, sono serie definite una sullo sfondo dell’altra per stac- chi netti. La scolopendra «dal roseo ventre / ch’agita folle i piedi nell’azzurro»

introduce un frammento di meraviglia-colore, campito sull’azzurro del cielo;

mentre il Frammento della martora, come ha messo in evidenza De Marchi e ha confessato Orelli stesso, è stato scritto per ridare vita e dinamismo – in virtù della parola poetica che riprende nel colore il legame originario con il frutto – all’unica martora da lui vista, e purtroppo uccisa, in un episodio di cui parla una antica prosa di Un giorno della vita: «A quest’ora la martora chi sa / dove fugge con la sua gola d’arancia».11 Procedimento portato al massimo in «Grida un tacchino i suoi coralli» (Lettera da Bellinzona).

Altro primo piano dei colori in versione sostantivata e in sintassi nominale è nella Lettera da Bellinzona, che inizia con l’immagine del castello più alto della città, dato attraverso il primo piano di due colori, il grigio e il verde, fuori da qualsiasi allettamento di naturalismo:

Una fascina d’anni, una collina.

E il castello più alto.

Tutto il grigio all’altezza dei colombi, tutto il verde che scorre fino al grigio…

[…]

Ma secondo la poetica di allora, che amava gli infiniti e le analogie esplicite, il colore è talora indicato solo in negativo (Né bianco né viola):

PeDagogiaDellosguarDoeDeClinazioneDeiColori

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Nulla più chiedo. Contemplare il cielo che trasfigura la mia terra.

Lontano

dagli incantevoli luoghi di nausea dove l’anima è fredda,

simile a un crisantemo né bianco né viola.

Gli «incantevoli luoghi di nausea», simbolo della vita metropolitana e proba- bilmente di un lutto storico – la guerra in Europa – hanno un’anima mortuaria e indistinta, di contro al cielo che trasfigura la terra d’origine.

Inseguiamo per un attimo la nuance bianco-viola. Sempre in OT in Epigram- ma pisano troviamo il «falciatore in Piazza dei miracoli» e il pescatore fissato da sempre nella sinopia di Pisa, ma il primo è simbolo di morte con la sua falce e il colore del lutto: «viola stinto con falce lungo il muro del Campo». Negli anni ottanta – significativamente – gli stessi due colori (bianco e viola), indicatori del lutto, vengono ripresi e trasferiti in essenze sostitutive: «Oh nigritelle oh lividi nel gelo» si legge in A un ragazzo perito in montagna (SP), dove il viola e il bianco assumono la materialità di sostanze, la nigritella alpestre e il gelo mi- cidiale della montagna. La preferenza per il primo piano della forma nominale della qualità cromatica si legge, nella stessa raccolta, per un’amica di gioventù scomparsa (Ah dopo tanti bianchi il lillà):

Ah dopo tanti bianchi il lillà così viola intravisto contro il muro della tua casa in montagna, Carlotta che m’hai guidato leggera nei primi tanghi su piste ai margini del bosco, leggera

sei passata di là!

SI non offre gran quantità di cromonimi, dato il taglio polemico o “narrati- vo” di molti pezzi. Participio presente nei ginocchi lucenti della ragazza che va in altalena e nella gomma biancicante che a richiesta porge (Ginocchi). Il verbo biancicare e il participio presente relativo, oggi rari, si trovano dal Tesoretto di Brunetto Latini fino al Foscolo e al Pascoli.

Nella scarsità di aggettivi di colore preposti o posposti al nome, spiccano le forme sostantive, tipo «nebbia tinta d’azzurro»; «l’arancio della calendula».

Spesso emerge la “motivazione”, come qui, con la giunta del luogo di riferi- mento: «Il cielo in qualche zona / ha l’azzurro nutrito dal ferro / delle ortensie sul Ceneri» (Quadernetto del bagno Sirena, I). Notevoli le definizioni indirette tramite analogia: «setter color sasso» (La trota). Attribuzione coloristica in me- tonimia ardita in questo esempio, ancora col viola del lutto: «i vecchi padroni senza figli / dormivano violetti, foderati d’abete» (Frammento dell’ideale).

Maria antonietta grignani

(29)

Interessante il seguente fenomeno, che possiamo chiamare un non detto cro- matico, l’omissione del colore per ricorso all’enciclopedia dantesca del lettore:

«nell’ombra dove vanno, più che burro, due oche» (In riva al Ticino), con rinvio a Dante, Inf. XVII, 63: «mostrando un’oca bianca più che burro», lì descrizione di una impresa araldica.

Il ventaglio di soluzioni appena ricordato preannuncia l’esito in totale astra- zione della poesia intitolata STOP (SP), dove la rupe e i colombi si imbucano in

«un buio verde immaginario» (quale dei due – buio / verde – il sostantivo? quale l’attributo?), simile a una cruna d’ago per chi osserva; i piccioni si alzano dal basso dell’asfalto, sul cui colore (in perifrasi: «colore d’asfalto») erano schiac- ciati o sovrapposti in riposo, e si appropriano, aprendo le ali, del bianco di uno stop stradale («macchiati di STOP»), in totale straniamento dal “realismo” figu- rativo. È questo un procedimento di attribuzione metonimica, tra l’altro molto produttivo nelle attuali coniazioni della langue:12

D’improvviso una frotta di colombi volò sopra di noi verso la rupe

spogliata del castello e allungandosi in fila sparì nel buio verde immaginario

d’una cruna.

Ma non diceva nulla alla signora che avevo salutato e ormai piccioni ce n’era a bizzeffe, colore d’asfalto e nell’alzarsi macchiati di STOP.

Per indugiare ancora su SI, i colori resi materia sono passaggi primari attra- verso la percezione di oggetti che mutano o si muovono in una loro specificità difficile da individuare. In Dopo Lucca appare innanzi tutto un cromonimo- sostanza, l’argento, che poi si rivela qualità coloristica di un branco d’acciughe:

Tu credevi che fosse uno scherzo del vento controcorrente: fitti argenti, scompigli d’un attimo, là, presso gli scogli del molo.

Ma erano le acciughe: […]

La distanza del tempo può riallacciarsi al presente attraverso un colore dota- to di una apposizione metaforica; ed è il rosa vecchio regalato al centro di Urbi- no, col palazzo individuato in cima a una valle, chiazzata come le mucche di Pied Beauty di Hopkins, una valle «stupendamente pezzata, sparsa di / lingotti d’oro bianco»: «scorgemmo, rosa vecchio, Urbino» (Quadernetto del bagno Sirena:

inc. «C’era davvero il duca?»).13

Nel mondo dei bambini, così congeniale a Orelli, si accampano colori smalta- ti, che precedono o vicariano i soggetti cui sono attribuiti, quasi ne portassero la quiddità in quanto soterici. Sono il palloncino rosso e le gialle forsizie, portati in

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dono da una nonna, a ridare vita e salute a un interno di penombra, tono su tono per metonimia rispetto alla bambina malata di morbillo («tutto quel giallo […]

l’altro giallo») in Sera di San Giuseppe, con una suggestione botanico-coloristica derivata da un passo di Benn che tornerà poi in CA ne Le forsizie di Bruderholz:

[…]

Col palloncino rosso e un fascio di fiori gialli che altro non erano che le forsizie di cui lessi in Benn, per fortuna è venuta tua madre:

sùbito così nonna, così sagra

nella nostra penombra al primo piano

che non potevo darle un bacio. Del resto, qualcuno doveva pur liberarla da tutto quel giallo

perché potesse abbracciare

l’altro giallo: balzata al trambusto dal letto col pigiamino giallo, veramente Giovanna.14

Colori di cose e animali si scambiano le parti in SPI, dove prevale l’aggettivo posposto al sostantivo, secondo l’uscita definitiva della poesia italiana dai modi del lirismo di tradizione. In Alter Klang, intitolato come un quadro di Klee, tro- viamo corvi turchini, mirtilli rossi, formiche ora rosse ora nere, farfalle brunicce, oltre alla sostantivazione in «cavallette d’un grigio deprimente»; oppure in «roc- ce / chiazzate di giallo lichene e nerastro». La sostantivazione cromatica crea un animale-colore, la ghiandaia, definita citazionalmente, da Il riverbero di Govoni:

«quel celeste impossibile di fianco, striato di nero».15

Stefano Agosti a suo tempo ha notato che talvolta il colore guarda e parla al soggetto, come appunto in Alter Klang dove una delle ghiandaie, dal suo

«celeste impossibile», a un certo punto – si legge – «mandò breve un saluto».16 Questa bestiola a sua volta sollecita uno sguardo di rimando in chi la ricono- sce felicemente. Subito dopo un altro animale guarda sorpreso e domanda al soggetto «chi sei?»; è la faina, con sua livrea coloristica in accusativo alla greca:

«balzò sul mio sguardo / inclinato agli steli paglierini tremanti sull’orlo / del precipizio, bianca la gola, la faìna».

Metafora con la sola provenienza del valore cromatico per un ragazzo defini- to dantescamente «fresco smeraldo in l’ora che si fiacca» (Ascoltando una rela- zione in tedesco).17 Si deve far ricorso all’induzione del lettore pure in quest’altro caso: «Col silenzio di cento ramarri» (Cardi, VI), sinestesia virtuale per un colore implicito nel suo portatore eponimo (è espressione comune “verde ramarro”).

Tra un enunciato come «senza giallo di mimosa» (Blu di metilene) e un altro che suona «in un giallo di forsizie» (Le bottiglie vuote), la bellissima poesia Che fa Matteo Delbrück, con l’esergo dal De rerum natura V,18 innesca una catena di colori netti, binati o in sintesi pittorica, mentre il neologistico denominale volpeggiare suggerisce una zona permeabile tra mondo meccanico e mondo ani- male, secondo la percezione “animistica” tipica dell’infanzia:

Maria antonietta grignani

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Come sorride alla rissa dei merli tra le ruote del passeggino, ai treni giallorossi che volpeggiano filando verso Flüh,

al becco rosa che tanto si svia dal fuso bianco e nero della cicogna […].

Colori fondamentali giallo, rosso, blu a sconfiggere una giornata nebbiosa in Nebelzone, mentre, in sinestesia cromatica sostantivale (giallo) rispetto a una sensazione tattile (viscido), si presenta D’autunno:19

Al ritorno la patria non odorava più

di letame, la strada luccicava di mica e nella nebbia eri tu che ci passasti accanto con un lepido camion di giocattoli gialli, rossi, blu.

Felinamente in giallo viscido di salamandra

tra siepe e asfalto: neanche la faccia gli ho visto al ragazzo che in bici quasi m’investe a uno svolto.

[…]

Il culmine del primo piano dei colori a danno dei volumi lo presenta la stu- penda poesia Certo d’un merlo il nero. All’interno della sintassi nominale, per di più senza punteggiatura, i colori balzano su, come sostantivi (tranne all’inizio il «nero / mazzo di fiori»: tuttavia nero è in punta di verso separato dal nome per via di enjambement e sta quasi come sostantivo a sé). La forma del merlo spiaccicato sull’asfalto muta rapidamente in riprese metaforiche, dal nero-rosso del mazzo di fiori alla «farfalla / enorme d’un nero / punteggiato di rosso»); il

«giallo aranciato» del becco è irreperibile; i successivi metaforizzanti suggeri- scono colori in obliquo o per implicito: crosta… squame… eczema dell’asfalto (grigio), girasole (giallo), raschietti di spazzacamino (nero). Se si ripensa al più naturalistico «ricci furono, ora misera pelle / e sangue sull’asfalto» (dantesco, Inf. XIII, «Uomini fummo ed or siam fatti sterpi») di Mezzogiorno a C. di SI, si coglie la natura molto più ardita delle figurazioni coloristiche di SP:

Certo d’un merlo il nero mazzo di fiori d’un rosso sorpreso dalla morte

nel breve buio d’un sottopassaggio l’indomani farfalla

enorme d’un nero

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