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1. Con Giacomo Leopardi, per un poeta del Novecento, siamo nell’ordine degli incontri inevitabili; meno necessario che questo incontro stimoli insieme sul fronte della scrittura creativa e su quello della scrittura critica. In Giorgio Orelli le cose vanno così, e precocemente. Partirò, per motivi innanzitutto di chiarezza espositiva, dal critico per approdare al poeta, ma ben consapevole che i due tavoli sono in realtà uno solo, e che (soprattutto) sarà opportuno vigilare costantemente sui tempi del lavoro orelliano, sincronizzando le due esperienze, e considerando le diverse stagioni, lo svolgimento, del critico come del poeta.

2. Sul principio degli anni cinquanta (1950-1955), si palesa una prima serie coe-principio degli anni cinquanta (1950-1955), si palesa una prima serie coe-rente di letture critiche orelliane: sono consegnate in larga misura, ma non esclu-sivamente, all’“Educatore della Svizzera italiana”, un bimestrale stampato a Bel-linzona dalla «Società “Amici dell’Educazione del Popolo” fondata da Stefano Franscini». Altre trovano invece accoglienza in sedi diverse, per lo più quotidia-ni locali, ma con aperture verso periodici italiaquotidia-ni come “Paragone. Letteratura”

o “La Fiera Letteraria”, già ospitali anche con l’Orelli poeta e prosatore. Gli autori fatti oggetto di indagine o di «lettura», per usare la designazione principe nei titoli orelliani, rispecchiano anche l’esperienza che il giovane professore ve-niva maturando nella scuola. Si va da Foscolo (il più presente) a Dante, Ariosto, Parini, Alfieri, Manzoni, Leopardi. I testi o «bocconi» eletti si possono dire sem-pre conformi ai menu scolastici. Non manca la contemporaneità, quella con-temporaneità su cui il poeta esordiente di Né bianco né viola si era d’altronde prioritariamente e con ogni evidenza sintonizzato: per fare qualche nome non neutro, Montale, già dominante, Vincenzo Cardarelli, Sandro Penna.1

In un intervento del 1951, Prime osservazioni sull’insegnamento dell’italiano nella scuola superiore, Orelli afferma di privilegiare, nella sua pratica, ai con-sueti panorami storico-letterari l’esecuzione «attenta» e diretta «dei testi più rappresentativi», tesa sempre a cogliervi lo specifico letterario: il suo occhio è sin d’ora indirizzato edonisticamente sul dettaglio, se è vero (come confessa lui stesso, saldando subito il poeta e il critico) «che imbroccare un bel verso e ca-pire veramente il verso di un poeta è fra le più grandi consolazioni della nostra vita». Anche lo studio delle varianti, dentro questo quadro, finisce per ottenere un sorprendente (almeno per i tempi) diritto di cittadinanza: si dà insomma un aggiornamento nella critica per certi versi analogo, o parallelo, a quello operato dal poeta per i suoi primi modelli di riferimento. «A scuola», continua dunque

Christian genetelli

Orelli ragionando sullo studio delle varianti, «ci limitiamo a farlo su alcuni com-ponimenti, del Petrarca e del Leopardi, che sono stati oggetto di un’indagine così approfondita in questi ultimi anni».2 Il richiamo orienta, va da sé, in dire-zione continiana: Saggio d’un commento alle correzioni del Petrarca volgare, 1943 (Sansoni, Firenze), e Implicazioni leopardiane, 1947 (in “Letteratura”, 33): testi fondativi della «critica delle varianti». Ma non bisogna dimenticare (e non solo per l’aspetto variantistico) il nome di Giuseppe De Robertis, com’è ben noto au-tore dello studio-innesco per le Implicazioni di Contini, intitolato Sull’autografo del canto «A Silvia», 1946 (in “Letteratura”, 31), e del successivo Biglietto per Gianfranco Contini, 1947 (in “Letteratura”, 34), steso in amichevole risposta alle stesse Implicazioni. De Robertis, per l’Orelli di questi anni, è (direi) la presenza critica più costante, certamente il nome più citato, quasi sempre consentendo:

per la sua antologia Poeti lirici moderni e contemporanei, per i suoi lavori su Foscolo, Ariosto, Parini, Alfieri, Leopardi (incluso, ovviamente, il commento ai Canti). Nel «saper leggere» derobertisiano, Orelli trova un modello conveniente alla delibazione della parola, una critica lenta, e sensibile, quanto sensibile ai va-lori di lingua e di stile, al fattore tecnico, benché non incline al tecnicismo; una critica che conduce nei paraggi del «segreto dell’arte di uno scrittore, a respirare nella sua aria»;3 una critica, ancora, non aliena dal giudizio di gusto e di valore, sempre vivo anche in Orelli, il cui applauso entusiasta per questo o per quel verso non verrà mai meno, neppure nei tempi (futuri) della più prosciugata, ta-gliente e armata «critica verbale». «Certo è che noi», scrive Orelli nel 1949, «pur nutrendoci dell’opera del Croce, chiediamo più spesso aiuto, quando si tratta di affrontare (leggere) una poesia (oggetto), al Contini, al De Robertis – per nomi-nare due critici che a noi pare ci conducano più veracemente per mano».4 Con Contini e De Robertis siamo, saremmo, già entrati anche in orbita leopardiana, ma prima di lasciarcene doverosamente attrarre (da programma) concediamoci ancora qualche celere, e si spera funzionale, considerazione più generale.

In questa prima maniera della critica orelliana, il discorso sul testo (già uni-co interlocutore) ha una sicura varietà e mobilità, toccando aspetti di volta in volta lessicali, semantici, sintattici, tematici, metrici, al servizio di una esecu-zione per quanto possibile complessiva della partitura, e dove trovano regolar-mente spazio osservazioni che vanno verso l’uomo, verso cioè la disposizione sentimentale del poeta, verso gli «“alti” e “bassi”» del suo sentimento.5 Quante volte, poniamo, la parola «ansia» dentro queste pagine critiche di inizio anni cinquanta: «ansia», «ansietà» o «angoscia», spesso con gli attributi di «metafi-sica» o «esistenziale» (così, in luoghi diversi, a proposito di Manzoni, Montale, Foscolo, Luzi); né manca, nuovo esempio, la registrazione della «malinconia», come in questo passo (del 1952) sul ventiseiesimo dell’Inferno (si sente tra l’altro nell’Orelli critico che parla di Dante – la constatazione è qui un po’ laterale, ma rimane valida in ogni momento – una sorta di accensione linguistica e metafori-ca, come se Dante lo mettesse in ogni occasione nelle migliori condizioni espres-sive: Dante è sempre stato il suo iodio, con potere euforizzante). Ecco dunque la citazione: «Ma tutta l’“orazion picciola” è mirabile: poche parole, striate da

giorgio orellilettoreDi leoParDi

una “malinconia” che è bene di tutti gli uomini, quando, anche prima del tempo di “calar le vele e raccoglier le sartie”, poco o molto contemplino la vita, la vita che passa, la vita che – per tornare al Leopardi – “debb’esser viva, cioè vera vita, o la morte la supera incomparabilmente di pregio”».6 È passo, come ognuno vede, per noi non neutro. Una prima annotazione, intanto, si potrebbe spende-re intorno al verbo “striaspende-re” («striate da una “malinconia”»), molto fspende-requente, ora e poi, nella prosa critica orelliana, e non privo di riscontri nei suoi versi coevi: «Oh giorno, freddo volto che rapido ti sfai, / striato appena della nostra nostalgia!» È un distico, questo, tolto dalla Poesia del gennaio, componimento che va in tipografia proprio nel 1953, dentro la raccolta (su cui tornerò) Poesie, la sola nella carriera orelliana a essere portatrice di un titolo di grado zero. Non va invece oltre lo stadio della pubblicazione in rivista (ma rimaniamo al 1953) Di camelia in camelia, dove si legge dell’«organino di un bimbo solingo / stria-to al petstria-to dalla meraviglia / del sole».7 La seconda annotazione concerne, si capisce, Leopardi. «La vita debb’esser viva, cioè vera vita, o la morte la supera incomparabilmente di pregio»: si tratta della chiusa, sentenziosa, di una prosa leopardiana, il Dialogo di un Fisico e di un Metafisico. Orelli la riprenderà, alla lettera, per incastonarla (distribuita su tre versi) nella Trota, lirica con cui de-ciderà di aprire Sinopie, anche mostrando così fin dalla soglia del nuovo libro (come ha ben visto Pietro De Marchi) l’accorciamento in atto delle «distanze», appunto, «tra poesia e prosa».8 Prudente peraltro l’Orelli poeta si rivelerà con simili incastonamenti o richiami leopardiani dichiarati, espliciti (ben più gene-roso invece con Dante e con altri), indizio invero già piuttosto nitido della non facile maneggevolezza di una voce al tempo stesso delicata e profonda (dico de-licata per l’altezza e profonda per le implicazioni di senso).9 Tra i pochi, dunque, che accompagnano questo della Trota, segnalo qui la chiusa di Don Giovanni (sempre in Sinopie): «“Oh Elvira, Elvira”» (è il patetico di Consalvo, v. 119, canto crivellato dalla reiterazione onomastica); o le parole depositate all’interno di una delle poesie che, in Spiracoli, formerà il Quadernetto del mare (V, I ciottoli ben levigati rilevano il gaietto): «Penso il ragazzo che ha scritto lucido insetto / sorpreso in aria a due passi da qui». Il «ragazzo» è il Leopardi, diciottenne ed elegiaco, delle Rimembranze (vv. 15-16): un Leopardi in versi, ma di un testo del tutto minore, mai mandato a stampa dall’autore: certo, di nuovo, non di un testo fra quelli battuti (come vedremo) dall’Orelli critico.10

Già, l’Orelli critico, è bene tornare a lui. Negli interventi degli anni cinquan-ta da cui ho preso le mosse sono ancora rari, numerati i momenti in cui i suoni conquistano la ribalta del discorso, e si animano sulla pagina quasi al modo delle penne cavalcantiane. Del tipo: «[…] la rima “condanna” – “panna”, con quelle n che si tendono come fili ad alta tensione» (per Montale, Arremba su la strinata proda), oppure: «[…] e chi stia attento ai valori fonici (tutte quelle i incalzanti precipitose, e l’u del secco fruga) si ritrova nella mente l’immagine dell’uomo-liuto» (per Dante, Inferno XXX, v. 70: «La rigida giustizia che mi fruga»).11 Questo sguardo sul testo e osservazioni di questa natura diventeranno dominanti, e più tardi pressoché esclusive, quando (come ben sappiamo) nella

critica di Orelli si darà, inizio anni settanta, la svolta in direzione «verbale», la sua seconda maniera: si ridurrà allora per lui, in modo progressivo, il campo (se è possibile denominarlo così) del criticabile.

Dentro tale svolta, che coincide con una ripresa dell’attività critica dopo un più che decennale rallentamento, l’autorizzazione trovata e cercata in Contini riveste un ruolo notoriamente fondamentale. L’immagine, ricorrente in Orelli, dell’uccello di passo pronto ad assalire e a far suo non altro che ciò che davvero gli serve e lo nutre, è valida insomma per il poeta ma anche per il critico.12 Ba-sterà allora appena ricordare, rientrando rapidamente sul Contini «verbale», il pluricitato saggio del 1965 Filologia ed esegesi dantesca (dal 1970 in Varianti e al-tra linguistica); senza tuttavia al-trascurare il fatto che al-tra i testi continiani in questo senso determinanti ce n’è anche uno dove lo specifico leopardiano ha un peso indubbio: è la Memoria di Angelo Monteverdi, confluita nel 1972 all’interno del volume Altri esercizî (1942-1971). Orelli non esita a evocarla a più riprese e a di-chiararla «per me importantissima».13 In quella sua Memoria, Contini loda «con inusitato trasporto» l’analisi timbrica effettuata da Monteverdi su Imitazione di Leopardi e ne produce, da pari suo, alcune «addizioni», infine la estende ad altri componimenti, fra i quali si distingue L’infinito. Sulla splendida Imitazione leopardiana, Orelli (quanto a lui) si cimenterà qualche anno più tardi, nel 1990, in quella che potrebbe essere definita la sua “Memoria di Gianfranco Contini”, producendo copiose addizioni alle «addizioni» del maestro (con forte insistenza su Petrarca), e consolidando così il profilo anche agonistico, spesso spiccata-mente agonistico, della sua critica.14

Nell’intero percorso leopardiano dell’Orelli studioso, Imitazione rappresen-ta peraltro l’unica lieve deviazione da un canone di testi non peregrino, anzi più che collaudato, diciamo pure scolastico: né la cosa sorprende, dato il carattere (per ciò che riguarda i valori) sostanzialmente confermativo della critica di Orel-li (anche se la conferma giunge ormai per strade nuove, «verbaOrel-li»). Quale dun-que il Leopardi fatto oggetto di riflessione particolare o di esame frontale? Non il Leopardi prosatore, non il Leopardi pensatore, sì il Leopardi poeta, il poeta dei Canti, e con chiara predominanza di quello in senso lato idillico (mai invece in gioco, poniamo, un poemetto come i Paralipomeni della Batracomiomachia).

Ecco il nudo catalogo delle presenze, in parentesi la data di pubblicazione: Ap-punti per leggere «Il sabato del villaggio» (1978); Connessioni leopardiane (1987), in prevalenza sulle varianti di A Silvia; Nodi quasi di parole (1987), sulla Ginestra (il componimento meno allineato del gruppo, e di cui dirò più in là); Correzioni leopardiane (1989), sulle varianti della Sera del dì di festa; e ancora, naturalmen-te, L’infinito, la poesia di Leopardi trapanata con più tenacia da Orelli. Si parte da lontano, da un articolo apparso su un quotidiano locale (“Popolo e Liber-tà”) nel 1951, Punto medio dell’«Infinito», poi ristampato, con titolo Noterella all’«Infinito» rimaneggiamenti e integrazioni, in “Paragone. Letteratura”, nel 1954; si giunge (1997), nella nuova stagione, a Per leggere «L’infinito» di Leopar-di, rilavorato e ampliato da ultimo per il volume del 2012, La qualità del senso (ma è una lettura, questa, che ha il proprio incunabolo in quattro pagine, 80-83,

Christian genetelli

delle precedenti Connessioni leopardiane, e il proprio movente primo in quella poco fa ricordata mezza pagina di Contini dedicata appunto all’Infinito nella sua Memoria di Angelo Monteverdi).15

Sostiamo un istante in compagnia di questi contributi sul famosissimo idil-lio, cominciando con un’osservazione su quello, breve, risalente al 1951. Ben informato, Orelli dà conto di una (per la verità nell’assieme non imperdibile) discussione esegetico-grammaticale intorno all’Infinito avvenuta in quei mesi, tra giornali e riviste, con il concorso di studiosi come Antonio Baldini (il pro-motore o istigatore), Francesco Flora, Riccardo Bacchelli, Giuseppe Ungaretti e Piero Bigongiari. Prende partito, Orelli, per la posizione di quest’ultimo, l’u-nico (dice) che abbia saputo mettere l’accento sul «punto medio, o sostanziale»

del componimento, ossia la concretezza, la realtà di «“questo infinito corposo”,

“infinito che nel pensiero si avvia ad essere immensità e mare”». Proprio a suf-fragio di ciò, convoca anche la testimonianza per lui preziosa di una conferenza bellinzonese di Ungaretti, in cui il poeta lesse L’infinito, «stupendamente ren-dendo il “peso” e la “lunghezza” di quegli “interminati Spazi”, di quei “sovru-mani silenzi“, di quella “profondissima quiete”». «Ricordo benissimo», con-tinua Orelli, «il suo insistere sulle a di interminati Spazi, tanto che la seconda sillaba di Spazi usciva dalle sue labbra straordinariamente fievole, appena un ronzìo, una “nebbia luminosissima” (per ricordare il “metafisico” Foscolo)».16 La lettura-esecuzione di Ungaretti, la poesia che si fa voce, è insomma destinata a incidersi per sempre nella mente, tanto ben disposta ai suoni, di quel giovane ascoltatore: «indimenticabile» la dice Orelli, e indimenticata sarà, se è vero che la sua memoria affiora regolarmente nel tempo, ed è ancora viva, cinquant’anni più tardi, nel momento della stesura (come detto, 1997) dell’impegnativo Per leggere «L’infinito» di Leopardi, quando i suoni ormai sono diventati i signori incontrastati della sua critica.17

Questo studio, dunque, presenta un ampio e sistematico esame degli elementi fonici dell’idillio, a partire dal «triangolo vocalico fondamentale», u a i (automati-ca, per chiunque, scatta l’associazione alla poesia di Sinopie, Nel mezzo del giorno:

«[…] Che ur a in?, dalla u alla i / quasi come in Virgilio o nel Folengo […]»).

Orelli, proseguendo, passa a illustrare fatti relativi al ritmo, in dialogo con Mario Fubini, lo stimato autore di Metrica e poesia, frequentato fin dagli anni cinquan-ta come studioso di cose foscoliane (e che si tratti di dialogo non estemporaneo ma radicato è confermato anche da questa testimonianza: «Alla lettura lenta mi hanno spinto soprattutto i saggi di Fubini e di Binni. Con Fubini ho cominciato ad entrare veramente nel testo, nel tessuto della poesia foscoliana […]»);18 più a lungo, Orelli si sofferma su alcune parole (inclusi i celebri dimostrativi), precisa-mente su certi gruppi di suoni che albergano in esse, per mostrarne la recursività-connessione dentro e fuori L’infinito, ossia (per il fuori) in altro Leopardi e nella

«grande poesia italiana». È evidente che in una indagine siffatta non c’è spazio per considerazioni sui nessi del componimento con le articolazioni del pensiero e del-la cultura leopardiani, né suldel-la sua posizione all’interno del libro dei Canti o all’in-terno della storia, mobilissima, di Leopardi. Per Orelli la materia è data: si tratta

giorgio orellilettoreDi leoParDi

di vedere, descrivere, come è stata lavorata. (Da qui, credo, anche il particolare fascino che su di lui ha esercitato il mestiere del tradurre; e così pure l’attenzione tempestiva e immancabile al processo variantistico).

Lo studio del 1997, come sappiamo, viene ripreso, riscritto e ampliato per la ristampa (2012) nel libretto La qualità del senso. Non muta la sostanza; è però rivisitata la struttura (che cede qualcosa in nitore, in limpidezza, nonostante la nuova scansione in dodici paragrafi); soprattutto si constata una dilatazione, rilevante, del discorso. Questa dilatazione è principalmente dovuta alla molti-plicazione delle citazioni di passi di altri poeti, e diciamo pure in modo quasi esclusivo di Petrarca e di Dante (già peraltro trionfanti nella versione 1997).

Sono, in più di un caso, citazioni-excursus che hanno la funzione di dimostrare come con la stessa parola o uno stesso nucleo di suoni i grandi poeti lavorino in definitiva in modo analogo, si diano «la mano attraverso i secoli». Nel suo punto d’arrivo, portata al suo limite, la «critica verbale» di Orelli si orienta così sempre più dal sintagma al paradigma; parla di convergenze, relazioni, concatenazioni, e non di differenze, di scarti, di dislivelli, restringendo di conseguenza la sua volontà di caratterizzare l’individuo, di caratterizzare il singolo oggetto. Anche la violenta luce frontale proiettata sul dettaglio concorre, a ben vedere, a un tale approdo: ed è a sua volta sintomatica di uno sguardo ormai certo meno interes-sato al quadro che ha davanti a sé che non alle risorse generali del linguaggio.

Altrimenti detto: è sempre più il poeta, con la sua poetica sincrona, a fare critica.

Ci sono «esiti», sostiene del resto Orelli (non senza ardimento), «inevitabili per un accorto poeta italiano, per un “classico”».19

(La dinamica additata poco sopra, sia consentita questa breve coda dentro parentesi, mi pare mostri l’opportunità di cominciare a segnare qualche di-stinzione anche all’interno della stessa «critica verbale» di Orelli, abitualmente considerata come se fosse un tutt’uno, senza una sua storia interna. Ma uno sviluppo c’è: basti paragonare taluni prodotti degli anni settanta con altri degli anni novanta e seguenti. Prendiamo, non è che un accenno ma di pertinenza leopardiana, gli Appunti per leggere «Il sabato del villaggio» (1978): l’indagine sul dato formale è ancora piuttosto articolata, non monodirezionale, è tagliata sulla sagoma del testo in esame, toccando più livelli; impianto ed esecuzione dello studio ambiscono così da un lato a restituire una fisionomia complessiva del componimento, dall’altro a porre l’accento principale sullo «stile individua-le» dell’autore; e diverso, più aperto, è naturalmente anche il respiro generale dell’argomentazione. Insomma, negli elenchi e smontaggi analitici di questi Ap-punti sembrerebbe persistere la suggestione, e la temperie, di lavori come Scom-posizione del canto «A se stesso», di Angelo Monteverdi, o magari di quell’altra scomposizione-ricomposizione compiuta da D’Arco Silvio Avalle sulla monta-liana A Liuba che parte. In tempi successivi, la gamma degli strumenti contenuti nella sempre più personale cassetta degli attrezzi orelliana si riduce ulteriormen-te: si fanno largo quelli ad altissima precisione, veicolo sì di una maggiore spe-cializzazione, applicata beninteso alla sfera dei suoni, ma anche di una maggiore univocità e rigidezza d’impiego).20

Christian genetelli

3. Dirò ora, è venuto il momento, della poesia di Giorgio Orelli e di alcune me-morie leopardiane che vi sono racchiuse. Non posso infatti né voglio vagheggia-re l’esaustività: sarò di necessità selettivo, puntando all’individuazione di zone e casi rappresentativi. Rare sono le tessere nude, scoperte, evidenti, un po’ come del resto avviene, lo abbiamo visto, per i brani incastonati. Due sveltissimi esem-pi, in omaggio alla concretezza: la «memoria acerba» della Trottola, nell’Ora del tempo (e già nelle Poesie del 1953), «Ma se trabocca una memoria acerba», riecheggia il sintagma explicitario delle Ricordanze; e i ragni dell’omonima ed estrema poesia (entrerà nell’Orlo della vita), in quanto «strani compagni della mia vecchiaia» sono in arguto dialogo con la «speranza»-Silvia, «cara compagna dell’età mia nova» in A Silvia, v. 54.21 Il secondo esempio garantisce già in sé del-la durata deldel-la presenza, d’altronde tutto fuorché inattesa di fronte a un autore come Leopardi (e alla consuetudine con lui dell’Orelli critico). Ma l’intensità è variabile. Anzi, per la verità non molto alta, date le premesse: con un’eccezione però, che subito devo porre in modo perentorio al centro dell’attenzione.

Dunque: la più fitta, densa emergenza di Leopardi nella poesia orelliana a me sembra sia da collocare all’altezza della seconda raccolta, intendo le Poesie, Edizioni della Meridiana, 1953; più puntualmente ancora, transennerei il peri-metro della sezione di apertura («Parte prima») di quel libro. Siamo, ricordo e sottolineo, in concomitanza, o a contatto, con quel bagno primordiale e verti-cale nei classici italiani, fine anni quaranta inizio anni cinquanta, che ha fruttato

Dunque: la più fitta, densa emergenza di Leopardi nella poesia orelliana a me sembra sia da collocare all’altezza della seconda raccolta, intendo le Poesie, Edizioni della Meridiana, 1953; più puntualmente ancora, transennerei il peri-metro della sezione di apertura («Parte prima») di quel libro. Siamo, ricordo e sottolineo, in concomitanza, o a contatto, con quel bagno primordiale e verti-cale nei classici italiani, fine anni quaranta inizio anni cinquanta, che ha fruttato