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Versatile e raffinato, Giorgio Orelli è soprattutto poeta di prima grandezza (nonché saggista finissimo, e superbo traduttore), che in più di settanta anni di poesia con riserbo ed eleganza ha edito nella sostanza quattro libri poetici (mon-dadoriani salvo l’ultimo, per Garzanti), quattro come Sereni: L’ora del tempo (1962), frutto di selezione del lavoro dai vent’anni ai quaranta; Sinopie (1977), Spiracoli (1989), e Il collo dell’anitra (2001).1 Sanno gli orellisti che Giorgio Orelli ha lasciato i materiali, non perfettamente finiti, ma lungamente elaborati, di una quinta raccolta, L’orlo della vita (titolo dantesco – Purg. XI, 128 – come già L’ora del tempo), di cui aspettiamo l’edizione dal fedelissimo Pietro De Mar-chi, che ce ne parlerà in questi giorni.

Qui ho scelto di inoltrarmi nel settore meno battuto della prosa narrativa, abbastanza esigua per mole, nel desiderio – tra esperti di lunga data come i pre-senti – di limitarmi in pre-sentieri laterali però ben congiunti ai primari, come hanno ben illustrato tutti i critici e lettori. Segnalo in particolare un saggio molto ricco di Massimo Danzi, letto a Losanna nell’87, ed edito su “Autografo” nel 1989;2 più recentemente l’intervento di Pietro De Marchi, che introduce la benemerita riedizione zurighese bilingue (2012) di Un giorno della vita (il testo di De Mar-chi è ripreso con incremento di note nel numero speciale di “Bloc notes” del maggio 2014),3 e si aggiungano le incisive pagine di Alberto Nessi nello stesso

“Bloc notes”.

De Marchi ha anticipato in altra sede (“Poesia”, 289, gennaio 2014, scri-vendo per la scomparsa del poeta), che L’orlo della vita include anche «alcune prosette narrative, sapide di aneddoti e di ritratti di personaggi rustici e vitali, specie dell’Alta Leventina»: come già avveniva nel Collo dell’anitra, a marcare gli sconfinamenti poesia/prosa e le intime contiguità.

Due dati bibliografici: Un giorno della vita esce nel 1960, Milano, Lerici edi-tore, ma attenzione alla collana: “Narratori italiani” diretta da due illustri amici toscani, Romano Bilenchi e Mario Luzi, con cui Orelli respira aria di famiglia.

«Toscano di Svizzera» fu definito argutamente da Contini, primo patron delle sue poesie, in opposizione all’etichetta «lombardo di svizzera» coniata da Lu-ciano Anceschi per la sua controversa antologia Linea lombarda del ’52.4 Così ricorda Orelli in un pezzo raccolto nel postumo Quasi un abbecedario (Casa-grande, Bellinzona 2014) che Yari Bernasconi ha derivato in parte da conversa-zioni orali, e che per noi ha particolare interesse anche se le trenta “voci” sono difformi, ellittiche, di linguaggio confidenziale.5

Clelia Martignoni

Qui è inclusa appunto la voce “Toscano di Svizzera”, dove si citano le intui-zioni di Contini negli anni quaranta, in margine non alle poesie ma alle prose («quei magri raccontini» che Orelli ricorda di aver dato in lettura al Maestro nei corridoi dell’Università di Friburgo). La diagnosi di Contini fu fulminea:

Cassola, La visita. Orelli aggiunge: Bilenchi, ed Emilio Cecchi (di cui altrove nell’Abbecedario ricorda l’intensa America amara), quel Cecchi amato, sotto-lineo in margine, persino dal moderno e inquieto Calvino, che ne apprezzava, nonostante il conservatorismo ideologico complessivo certo non condiviso, ap-punto l’inquietudine, la vena sulfurea e incandescente, lo stile straordinario, citando l’abbagliante incipit dei Pesci rossi.

Un giorno della vita precede di poco il sintonico L’ora del tempo: due libri dicia-mo “verdi” e paralleli, da leggere insieme. “Verdi” sia per la giovinezza dell’au-tore (i pezzi raccolti vanno in entrambi dai vent’anni alla quarantina) sia e più ancora per la comune ambientazione en plein air, sottilmente agreste-boschiva.

Alberto Nessi appunta finemente in “Bloc notes”: «Orelli prosatore alla fine degli anni cinquanta tesse reti di ragno nelle quali restano impigliate mosche, cetonie, anche qualche cavolaia», e cita con ragione un altro nitido prosatore to-scano, Nicola Lisi. La metafora della ragnatela di Nessi ha fitti appigli testuali in Orelli (la relazione di Stefano Agosti ha commentato ora con magistrale finezza poesie recenti sul tema) e rinvia inoltre all’elegante epistola in versi di Contini premessa a Né bianco né viola (1944),6 costruita su ragno e ragnatela attraverso ben tre passaggi: 1) un autoritratto dell’autore, che si assimila a «quei ragni verdi, trampolieri in bilico / su otto filamenti»; 2) la poesia «infinitesima» di Orelli (riluttante allo «specchio di Narciso») sarebbe «strappata dalle viscere / come il ragno fa dello stame»; 3) la «ragnatela» di Orelli è «sistema esatto però fragile», da maneggiare con cautela (e si noti anche l’insediamento del concetto di «sistema», esperito in anni contigui dal fondatore della critica delle varianti).

Un elemento-chiave di Un giorno della vita è la coincidenza di tasselli tra prosa e poesia, già ben sondata nello studio di Massimo Danzi sino a Sinopie, ed estesa da De Marchi alle raccolte poetiche seguenti, Il collo dell’anitra e testi più recenti. Il caso più celebre, che cito per affezione ma già molto interrogato dai lettori precedenti, è la splendida martora con la «gola d’arancia» de L’ora del tempo, uno dei luoghi più affascinanti, dantescamente nutrito, della poesia orelliana.7

Importanti gli anticipi sparsi dei testi (dal ’45 via via negli anni cinquanta anche a ridosso dell’edizione in volume, cui nessuna prosa arriva inedita),8 e non meno interessanti le riprese successive, come in particolare Pomeriggio bel-linzonese del 1978,9 esito di Pomeriggio d’estate, con dilatazione testuale molto significativa. Tornerò su entrambi i casi, anticipi e riprese.

Se è ovvia l’autosufficienza delle prose-racconto, per converso va ribadito che il libro del ’60, aereo e fluido nel timbro, è interconnesso in macrotesto grazie a isotopie di più tipi: tematico-ambientali, strutturali e “narrative”, con personaggi ricorrenti, condivisi con le poesie stesse (Zalèk, Pasquale, il padre),

Per giorgio orellinarratore

e grazie a chiare convergenze tipologiche e di registro. In quest’ultimo senso, indicherò come modulo privilegiato del libro (ricorrente anche nelle poesie) la “passeggiata”, con o senza bicicletta: passeggiata sentimentale ma ironica, svagata ma di vivo realismo, divagante, affabulante, a zonzo con ilare vitalità paga di sé attraverso campagna e montagna, lungo il fiume o verso la città. Pas-seggiata alla Robert Walser, per intenderci: e Walser emerge non una sola volta nel senile zibaldone Quasi un abbecedario. A Walser rêveur e promeneur, mite e lievemente anarchico, di psicologia molto fragile che ne tormentò via via l’e-sistenza, si deve almeno l’incantevole Passeggiata primonovecentesca, tramata di leggerezza, dove come in Orelli non succede nulla, nulla si conclude, ma che sul filo del caso e in schema modulare-lineare brulica di incontri, visioni, rumo-ri, svaghi, momenti evanescenti, increspature emotive e sensoriali (per Orelli si annetta senza divergenze la “passeggiata” in treno, pure aperta a fortuite occa-sioni). La struttura testuale deriva da, e coincide con, la passeggiata stessa, nel fantasioso vagabondaggio: il modulo è accogliente, ed è insieme tema e forma stilistica, combinatorio a piacere. Lo vedremo per stralci nei passaggi varianti-stici, in particolare nell’evoluzione dal Pomeriggio d’estate del volume al Pome-riggio bellinzonese del 1978.

Ecco nell’Abbecedario, stralciando dalla voce dedicata a Walser:

Io sono walseriano per la pelle. Lo leggo in italiano e in tedesco. Anche le poesie. Le sue qualità sono tali da non temere incrinature nei secoli dei secoli. Il pregio fondamentale di Walser è la creazione con niente di un mondo profondo e intimo. […] Ottenere molto con poco è uno dei grandi desideri dell’artista: del pittore, del poeta… E Walser ne è maestro.

Se alla “passeggiata” di Orelli compete più di tutto il marchio nitido di Wal-ser (tanto che sarebbe utile riWal-servare sondaggi comparati – anche in lingua ori-ginaria – al rapporto testuale tra i due, per rilevare precisi prelievi), neppure va trascurata la frequenza di tale tecnica-tema in Palazzeschi poeta, caro a Contini e al gruppo friburghese, con gusto più spiccatamente sperimentale-beffardo-da-da (e con rinvio pure a certe mosperimentale-beffardo-da-dalità di Apollinaire). In Orelli concorrono poi altri apporti tonali: la malinconia amarognola dei racconti del diletto Čechov, la grazia anche crudele di Bilenchi, specie nel clima campagnolo e pensoso del Conservatorio di Santa Teresa.10 (Dietro, l’ombra grave e sofferente di Tozzi).

Senza scordare la scarna e primitiva letizia di Lisi.

Osservando da vicino il libro: tredici i racconti, quasi sempre gestiti da un io narrante (che somiglia molto all’autore), tranne quattro casi (Ampelio, Serale, Veronica, Un giorno della vita, tutti con protagonisti maschili). L’ultimo dei tre-dici dà il titolo alla raccolta (che è, quasi alla lettera, una citazione da Luzi). Le misure dei testi non divergono granché: molto brevi l’iniziale Scherzo (quasi un sogno, con clima alla Grand Meaulnes, romanzo-culto del 1913 della NRF, mol-to influente in cerchia mol-toscana all’epoca di “Solaria” e oltre, sospeso tra sogno/

veglia/fiaba), di sole tre pagine, come, al centro, Per un filino d’erba. Più distese e articolate le due suites contigue dal titolo musicale (come già Scherzo): in par-ticolare la Suite provinciale.

Fitte e realistiche sono la topografia e la toponomastica, la botanica e il be-stiario, quasi accaniti. I luoghi sono nominati con tanta insistenza, nei suoni non di rado aspri, da far desiderare a un lettore non ticinese il conforto di una minu-ta mappa del luogo. Alberto Nessi, che è nativo di Mendrisio, scrive infatti: «La rete orelliana si tende da nord a sud del nostro angolo di mondo, dalla leventina al mendrisiotto […] dai prati in ripido declivio del paese del padre alla conca dolce dov’è nata la madre», con competenza che piacerebbe condividere.

Nelle escursioni fuorivia il taglio non cambia. Vedi Cristina: al mare con gli amici, nella ligure Riva Trigoso, che assicura una degustazione verbale tipica-mente orelliana (p. 46: «Dopo Riva non par vero che ci sia una parola ingorda come Trigoso»), e vede anche un omaggio all’amico Bo («Riva Trigoso, pensai, chi m’ha detto, che è il paese di Carlo Bo?»). Da rilevare il titolo malizioso,11 di assenza ed ellissi. Cristina è infatti il nome della donna che mai si vede, evocata lungo tutto il racconto. Sosta al lago d’Iseo: altra gita lombarda, con personaggi un po’ bislacchi come spesso in Orelli, ben caratterizzati, al pari della simpatica e impropria colloquialità (nella battuta femminile registrata in discorso diretto, la «donnina dal naso a saltamartino» dice all’io narrante: «Un uomo come lui dovrebbe sposarsi […] Lui avrà trent’anni, scusi neh», p. 62, corsivi nel testo).

Un giorno della vita, eponimo e finale, trasporta in «Alemannia» (metà in tre-no metà nella visita al convento del protagonista Antonio per visitare la sorella Ausilia che lì studia), con inconcludenza distratta ed evanescente come il viso femminile tracciato dal protagonista con il dito sul finestrino del treno. Signifi-cativo l’explicit, nel segno del non concluso, che è nel contempo l’infinitamente ripetibile, agro e dolce:

Fuori, il buio gli dà un senso di tepore dimenticato dall’adolescenza, e a braccetto delle due ragazze, per la campagna segnata di poche luci, ecco che racconta perfino delle storie, brevi storie d’inverno, come meglio può nella lingua della Rosemarie (p. 238).

Come nella poesia, il libro è gremito di riferimenti a fatti del «de re rustica»:

abitudini, cicli, stagioni, riti, animalità e naturalità vegetale mista a umanità, con tangibile e ingordo gusto dell’esistenza (tra i lemmi più ricorrenti: “allegria”,

“ilarità”, “contentezza”, con sinonimi e derivati). La naturalità diffusa acco-glie anche trapassi quasi metamorfici, come nel consentaneo L’ora del tempo, ospitando rassegne e presenze infinitesime, per riusare l’aggettivo opportuno di Contini, captate al microscopio. Sui transiti umano-animale-vegetale (dentro un clima di comparazione domestica), si veda solo qualche campione: la betulla di Ampelio (p. 22) «sembrava non osasse appoggiarsi contro un nero masso liscio»;

il cuccù fa un «grido concavo e sempre solitario», p. 22; e le «enormi ortensie»

di Scherzo «parevano navigare nel loro verde serale», p. 18,12 attestando più in generale un animato analogismo diffuso, talora di registro lieve talora rilevato e

Clelia Martignoni

saliente,13 affidato non solo a frequenti similitudini e metafore, ma anche al vei-colo dei verbi parere/sembrare. Ancora: il vecchio di Pomeriggio d’estate salta come «un uccello che emettesse dei gridi freschi e naturali solo in apparenza», p. 34; per converso la scimmia ha la «testa da giudice», p. 30; e «le pietre del-la riva […] biancicavano come ossa», p. 34; in Cristina, «del-la macchina sembra un’enorme cetonia», p. 42, e un’altra, ivi, «ha un cuore che sfarfalla con fedeltà commovente», p. 44; la bicicletta ha la sella «molto rialzata e sottile, simile a uno strano uccello», p. 52; le turiste straniere sono dette «nordiche uccelle dal lungo collo, biancorosate» (Sosta al lago d’Iseo, p. 58); il padre chiama «con un fischio breve di marmotta», ivi, p. 68; e in Suite provinciale così si legge di un personaggio: «Somigliava sempre più, il mio amico, a certi funghi forse velenosi, parlava tra il viola e un giallastro», p. 152.

Se per decifrare la topografia si è evocato l’ausilio di una mappa dei luoghi del passato e del presente, così e tanto più (consentendo con il discorso di fondo di Pietro Gibellini) si desidererebbe per Giorgio Orelli uno scavo antropologi-co, tra i materiali della civiltà montana e contadina,14 che ne racconti i segreti e il senso profondo, portando alla luce riti, costumi, canti, locuzioni, linguaggio e dialetti.15 Penso alla stessa forte insistenza del motivo feroce e arcaico della caccia, in specie nel violento La morte del gatto, dall’agro odore di vita cattiva, alla Tozzi. Se ne veda la conclusione:

Il gatto non ha avuto bisogno di girarsi gran che perché Basilio gli spruzzasse i pallini in faccia.

– I gatti hanno nove vite, – dice poi, – e io volevo ammazzarlo con la prima cartuccia.

Questo lo do al Pèpi prestinaio, che è un pezzo che mi dice se posso dargli un gatto per una cena. La pelle, vedrò (p. 148).

Ed ecco in Cristina come si presenta l’affittacamere con pseudo urbanità piccolo-borghese:

Vera Machiavelli arrivò dopo, avevamo finito di mangiare e accettò volentieri una sigaretta.

– Scusino, – disse, – se vengo solo adesso. Ho dovuto sgozzare tre vitelli stamane.

Piantata davanti a noi, le maniche rimboccate, le braccia forti come quelle d’un boscaio-lo: Lady Machiavelli, pensai, costei è lady Machiavelli. Non mi sarei stupito di discernere tracce di sangue sulle sue mani (pp. 52-53).

Dall’intreccio di tanti fattori il libro ricava nell’insieme un quasi-autobiogra-fismo di ruvida materialità antropologica, ironizzato e arguto, a tratti favoloso, ciarliero e affabulante, ma non idillico. Alcuni testi (specie Ampelio, lo stesso fiabesco Scherzo) sono vicini anche al gusto del racconto di formazione (bilen-chiano, già aspramente tozziano, e molto solariano).

Approfondendo il discorso sulla struttura “passeggiata”, ne possiamo osser-vare il felice impiego in Orelli esaminando qualche campione testuale e verifi-candone la tenuta negli interessanti passaggi variantistici. I nostri spogli sono

Per giorgio orellinarratore

ampi, ma parziali e duplici, coinvolgendo sia il cospicuo recupero di Pomeriggio d’estate dal volume del 1960 alla ripresa del 1978 Pomeriggio bellinzonese (cfr.

qui nota 9), sia l’evoluzione di una serie di testi dagli anticipi in rivista all’edizio-ne in volume. Partiamo dal caso di Pomeriggio d’estate, nonostante sia seriore, perché molto illuminante, e poi vedremo i campioni dell’altro tipo.

Nella versione in volume Pomeriggio d’estate accumula linearmente una serie di bizzarri incontri minimali, di freschi “improvvisi”, tutti dotati di grande reali-smo ma con accenti anche fantasisti-surreali, ognuno dei quali soppianta lieve-mente il precedente. Li elenco in breve: un io narrante spensierato e fanciullesco raccoglie per strada una gran quantità di biglie, mentre esce in bicicletta di casa (la città si esplicita in Bellinzona solo nella ripresa del ’78); gli balza sul portapacchi una scimmia, dalla «testa da giudice che ha appena tenuto giudizio o lo terrà fra poco», p. 30, che poi scappa;16 il protagonista evoca un gufo in cui si era imbattuto giorni prima; vede una donna distesa al sole (la Cleopatra) «che nell’ombelico ha un ciuffo di prezzemolo», ibidem, con cui scambia un saluto; arriva un vecchio magrissimo, padre di un amico morto in giovane età, che gli si unisce per un tratto parlando fittamente e lo accompagna sul fiume, l’io narrante se ne congeda; ripre-sa la pedalata incontra una giovane che gli racconta di sé e di sue sciagure familia-ri, il protagonista le commissiona pietosamente un paio di calze; sopraggiunge di corsa una ragazza del paese in bikini che ha perduto gli abiti (l’io narrante pensa a un furto dalla scimmia); si rivede il vecchio solo e silenzioso; l’io narrante rien-tra in città e sale verso casa. Il rifacimento del 1978 è espanso con inserzione di divagazioni o apparizioni, che la struttura modulare accoglie con agio, accrescen-dosi di molte pagine. Qualche esempio delle consistenti aggiunte. Nell’incipit, la descrizione della città, inizialmente breve e sforbiciata ritmicamente da virgole, è inciampata e protratta da dettagli a profusione, germinanti impressionisticamente e con slancio deittico da sensazioni, ricordi, visioni, analogie. Ecco i due testi a confronto (nel secondo segnalo con il corsivo i tasselli aggiunti):

L’altrieri la nostra piccola città pareva tutta vuota, e andando per vicoli e piazzette, ecco, qua e là, in un poco d’erba, su uno scalino, ma specialmente per terra, io altro non tro-vavo che biglie, biglie tutte di media grossezza, variegate (p. 30).

L’altrieri la nostra piccola città pareva tutta vuota, e andando per vicoli e piazzette, da un monumento all’altro, e sul Viale della Stazione da una banca all’altra (bisogna che un qualche dì le conti: l’ultima l’hanno scavata dentro alla roccia del castello di mezzo), ecco che qua e là, in un poco d’erba, su uno scalino, ai piedi d’una statua, ma specialmente per terra fra dadi sconnessi, altro non trovavo che biglie, biglie tutte di media grossezza, va-riegate, dentro alle quali frugavo con gli occhi per rintracciarvi chi sa che. Eh finito il tempo che soldi trovavo, monete da cinque, che sembrano da cinquanta, e da dieci, venti, cin-quanta centesimi improvvisamente luccicanti, o quietamente opache, dimesse, o sporche, tartassate; ma una volta ho trovato un franco che mi aspettava dalla parte dell’Elvezia su dal porfido, me lo ricordo come se profumasse di mughetto perché giusto in quel momento nella breve vampa di caldo artificiale (era dunque d’inverno) all’entrata dell’Innovazione passava una signora che da sempre si mette il profumo di mughetto, l’unico che le piaccia.

Finito il tempo del denaro fiorito per strada, dove, quasi per un misterioso disegno com-Clelia Martignoni

pensativo, nei giorni caldi (giravo intorno allo stadio per veder perdere la nostra squadra), vedevo come non m’era mai capitato lucertoline appena nate che guizzavano un po’ da per tutto come i bambini di Xuan Loc sul finire della guerra nel Vietnam (p. 3).

Un inserto molto più esteso è incuneato subito dopo, prima che balzi la scimmia sul portapacchi: la marcia in bicicletta sul sentiero lungo il fiume intro-duce cumuli di apparizioni e divagazioni, in un cicaleccio frizzante abilmente mimetico dell’oralità. Ecco ancora a confronto i due testi, ma, dato l’incremento massimo, qui segnalo in corsivo nel testo del 1978 i pochi elementi conservati, scusandomi della lunga citazione:

Ne riempii le tasche [di biglie] e intanto uscivo in bicicletta di città, m’avviavo al fiume.

|| Ma anche lungo il fiume non vedevo che biglie, biglie d’uguale grossezza, variegate:

ormai non le raccoglievo più (p. 30).

Ho tolto e rimesso in tasca le biglie, e intanto con la nuova bicicletta d’argento e blu Giscard uscivo dal centro detto storico (anche per via dei topi) e mi avviavo senza fretta al fiume, lungo il quale scorgevo ancora qualche biglia d’uguale grossezza, variegata: ormai non le racco-glievo più. Andavo senza quasi pensare a nulla sul sentiero accidentato, o meglio devastato dai cavalli dei ricchi, badando di non sbattere contro le radici che sporgono dal terreno con quella specie di caparbietà e più d’una volta, mentre gettavo occhiate a destra e a sinistra, mi han fatto trabalzare e cadere al di sopra del manubrio come un fantino. Finora mi è andata bene e naturalmente mi dico che non devo profittarne, anche se, data la velocità minima, al massimo mi rompo un polso, non come quelle teste di casco dei motociclisti dell’Honda che sull’autostrada di là dal fiume passano via come saette con un fischio dell’altro mondo.

Da un ponte all’altro, cemento, ferro, aspettandomi d’incontrare sotto un ciliegio il mio

Da un ponte all’altro, cemento, ferro, aspettandomi d’incontrare sotto un ciliegio il mio