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Pane e coltello: un poeta fra quattro narratori

7. Giorgio Orelli, Autunno a Rosagarda

Ed eccoci finalmente ad Autunno a Rosagarda, al “racconto di paese” di Giorgio Orelli. Inutile, anzi impossibile riassumerlo, poiché l’intento di mostrarne la sottesa natura poetica che lo caratterizza e lo differenzia dagli altri quattro scritti

Paneecoltello: unPoetafraquattronarratori

esige una lettura integrale del testo, rallentata e iterata. Rammentiamone tutt’al più le sequenze: che sembrano poesie virtuali, o, mi si passi il bisticcio, sino-pie di sinosino-pie, spiracoli sul mondo esterno e interno dell’autore. L’io-narrante, chiara proiezione di Giorgio (anche se l’unica volta in cui la sorella lo nomina lo chiama Francesco) è tornato al paese. Spacca la legna in presenza del padre, che ha l’aria di un vecchio sceriffo in pensione. Il dialogo tra i due è faticoso;

cominciano le intermittences du coeur. Ben altro il rapporto con la madre: di complice sintonia anche nei silenzi, nel fraseggio dei puri gesti. Poi lo sguardo si estende ad altre figure del paesello, parenti, conoscenti: la cagionevole zia Santa e la zia Romilda che gli portava l’uovo fresco, la vecchia Letizia che sta perden-do la vista, il probo e forte Pasquale, Medarperden-do con la figlia mascolina, il roccioso Gustavo dei Sassi, e soprattutto Alessio, («giovane e argutissimo cugino»‚ mi segnala Lucia, figlia dello scrittore), formidabile cacciatore già con il tirasassi e ora con il flobert. La sequenza finale è un ritorno nell’orto di casa: un uccello si posa sul melo, la madre glielo addita, lui imbraccia il fucile come allora, ma dentro non si sente più cacciatore, esule per sempre da quel piccolo mondo antico; mentre punta l’arma, arriva, liberatorio, lo sparo del più rapido Alessio.

Il racconto finisce con i due che sparano a vuoto su uccelli che si allontanano svolazzando nella bruma serale, «finché non ci vediamo più».

Il timbro poetico della scrittura di Orelli, giocata fra delicatezze liriche e voluti abbassamenti tonali, potremmo trovarlo nella musicalità del dettato, vi-stosa nel fitto uso di soluzioni eufoniche, dai troncamenti («dar fastidio», «far bello», «fender legni», «far la torta», «strappar erba») agli abbondanti apostrofi («Innz’ieri») o all’epentesi desueta («in Isvizzera»). Spuntano qua e là nomi di scrittori («Lucrezio», «Giuseppe Zoppi»), citazioni riconoscibili («la vigna di Renzo», «ed è subito sera») ma anche criptiche (ricordando «l’anno della va-langa» a Bedretto Giorgio allude all’evento trattato nel romanzo omonimo del cugino bedrettese Giovanni, L’anno della valanga, 1965). La «faccia larga» di zia Romilda «in cui non c’è pericolo di conoscere la M tra gli occhi» si spiega con il passo di Dante che in Purgatorio legge nei volti scarniti dei golosi la parola omo che incorpora le o delle occhiaie negli spazi della m come tra naso e arcate dei sopraccigli («Parean l’occhiaie anella sanza gemme: / chi nel viso de li uomini legge “omo” / ben avria quivi conosciuta l’emme», XIII, 30-32). Non evoca for-se i pregiudizi su Rosso Malpelo la moglie di Medardo, una «di quelle rosfor-se che si può ben dire che neanche il diavolo le conosce»? La vista di una pianta non gli richiama forse «la rima betulla-fanciulla»? Sono i lustrini che occhieggiano in un grigio che vuol presentarsi nelle vesti semplici di una scrittura dimessa, in sordina: che si finge grigia, ed è perlacea.

Di qui i contatti del racconto con la scrittura poetica di Giorgio, globalmente considerata. Chi ignora ad esempio la funzione di basso-continuo che hanno i colori nelle poesie di Giorgio, che titolò Né bianco né viola la sua raccolta d’e-sordio? La tavolozza di Autunno a Rosagarda ce ne offre una gamma assai ricca:

ecco il «rosso cupo» della rosa solitaria, la mela «d’un rosso quasi innaturale»,

«Alessio, rosso come le mele», la «rossa melissa nell’orto di Pasquale», i

«luma-Pietro gibellini

coni rossi che fanno schifo», il «rossastro» dei caprioli: ecco il «verdino» della vecchia poltrona, la siepe «che resta verde, forse d’agrifoglio»: il «legno scurito, quasi vellutato» della vecchia casa con «un tetto di piode nerastre, spruzzate di muffa verde»: e poi la «terra scura su cui piovono i petali del melo», e Zia Romilda «rotonda, violetta», e ancora: qualche «uccello di un’altra razza, più scuro o più chiaro»: la «polverina bianca», le «càmole bianchicce», la «gazosa bianchiccia», «le venature pallide» degli stecchi di legno «che quasi rincresce di bruciarli». Dal rosso al violetto lo spettro solare trascolora, fin al bianco e al nero, con preferenza per la loro contaminazione, quel grigio adatto al tono di-messo del quotidiano ma lampeggiante di preziosi riflessi (Beatrice vestiva panni di tinta umile ma il suo viso gareggiava con il color di perla): al «larice ingrigito»

del legno risponde il «grigio del soffitto» (non scrive «grigio soffitto», si badi, in linea con il linguaggio poetico post-simbolista che inverte il ruolo fra sostanza e accidente, promuovendo a sostantivo l’aggettivo e abbassando il nome a epiteto:

così, i gialli fiori di tarassaco sono per Orelli «il giallo dei fiori del diavolo»). Del resto non «luccica» come un gioiello il rotolo di fil di ferro con cui Francesco ripara il manico della scure?

Altrettanto vistoso è il ricco bestiario che popola i versi orelliani. Ebbene, nelle poche pagine del racconto troviamo un vero giardino zoologico popolato da ballerine, camole, camosci, caprioli, cervi, chiocciole, corvi, cesene, cutret-tole, francolini, galli, lumache e lumaconi, marmotte, scoiattoli, stornelli, topi, tordi, uccelli non identificati, vacche, viscarde.

Vero è che, a dispetto di quanto appena scritto, Giorgio intendeva con il suo Autunno presentarsi come narratore, mettendo la sordina alle pulsioni liriche e cercando di volare rasoterra, anche con gli episodi umoristici non privi di scurrilità (la signora di città «crede di cagar più in alto del culo», e al patrizio che l’ha rimbrottato il ragazzo risponde: «lei è un signore della merda con su il cappello»). Ma se lo stile di questa prova puntava verso il sermo humilis, come l’uccello che si posa sul melo rischiando la vita, l’impulso a innalzarsi prevale, come nell’immagine ornitologica che chiude questo giorno d’Autunno.

Limitiamoci dunque a queste due generiche affinità fra la prosa di Giorgio e la sua scrittura in versi, rinunciamo a confronti intertestuali più circoscritti e circostanziati, e consideriamo invece ciò che accomuna e ciò che distingue gli sguardi dei cinque scrittori di Pane e coltello, agganciandoci ai tre termini-chiodo sopra menzionati: Memoria, Passeggiata, Risentimento.

La memoria di Bianconi, guidata dalle sue letture critiche e soprattutto dai documenti epistolari di casa, risale di alcune generazioni lungo i due rami fami-liari accomunati dall’emigrazione, i Bianconi e i Rusconi; l’esame di coscienza si manifesta essenzialmente nella chiusa, nell’agnizione di una stanchezza ereditata dalle penose fatiche dei suoi lari; nel racconto di Bonalumi, schiacciato sul pre-sente, la memoria del vecchio “paese” è aspre-sente, così come i conti con se stesso li fa solo l’“incosciente” protagonista che non è in alcun modo autobiografico;

in Martini la memoria è giocata invece sul vissuto del protagonista para-autobio-grafico, fra il ricordo del mancato incontro amoroso di Marco e Giovanna

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lescenti nel paese di zia Domenica e il loro ritrovarsi da adulti in quel “paese”

che non è più loro ma in cui ancora vige la legge severa della zia morta, mentre l’autore oggettiva nel racconto in terza persona la propria memoria del villaggio rurale; la memoria di Giovanni, nel suo monologo marcatamente autobiografi-co, affiora nel continuo confronto fra la sua infanzia e quella dei suoi ragazzi, tra la sua giovinezza alpestre e la sua maturità urbana: non manca peraltro un cenno al suo «albero genealogico» (espressione bianconiana) che a un certo punto ha gettato, con lui, un ramo diverso. La memoria di Giorgio affiora a sprazzi, per delicate intermittenze del cuore, e la distanza tra il mondo passato e presente, fra il sé di ieri, è giocata per allusioni: dalla sostanziale incomunicabilità con il padre alla finale consapevolezza di non poter essere più cacciatore. La modalità degli intarsi memoriali e riflessivi al tessuto narrativo lo avvicina al cugino più che a Bianconi e Martini (Bonalumi è fuori campo), fatta salva la diversità non solo di scrittura ma di taglio mentale: socio-politico e filosofico-esistenziale in Giovanni, più emotivo ed estetico in Giorgio. Non è, quest’ultimo, un requisito prevalente della scrittura di vocazione lirica? Vero è che la parola morte circola a Rosagarda, dall’iniziale cenno alla «morte che vive qui intorno» al dialogo mentale con il prete che riportiamo sotto; né manca l’evocazione del funerale, così centrale nella narrazione di Martini: ma se Plinio preme, volente o nolente, il pedale del Dies irae, leggero è il tocco di Giorgio che rievoca le esequie della zia Romilda, la divisione delle suppellettili tra gli eredi:

Girava tra noi nipoti un qualcosa di calmo e affettuoso che in certi momenti doveva essere una specie di pietà di noi, della morta, del suo uomo che aveva fatto il cameriere in Inghilterra e a Bugliasco era l’unico favorevole al voto alle donne, e pietà anche dei lenzuoli sepolti nei cassettoni.

Anche con Bianconi il confronto con una parola-oggetto serve a differen-ziare più che ad accomunare: la «fotografiuccia» della nonna che innestava la pietosa saga corale riesumata da Bianconi, in Giorgio è quella che ha al centro se stesso ragazzo: «un ragazzino che ha cominciato a pettinare i capelli all’indie-tro, così magro da sembrare portato lì dal vento come l’achenio d’un soffione».

Anche questa declinazione della soggettività risponde a urgenze liriche.

E la Passeggiata? Fermo nel suo studio davanti alle lettere ingiallite, Bianco-ni segue le piste degli emigrati in CaliforBianco-nia e in Australia. Nella sua storia d’in-venzione Bonalumi disegna una triangolazione fra la villa di Contra, la Provenza e Basilea. Più breve, ma tutt’altro che turistica, è negli altri tre la passeggiata reale o mentale tra il paese nativo e la vicina città (non importa se i luoghi sono menzionati o taciuti): il tragitto di Martini tra Locarno e Sonlerto (non lontano dalla sua Cavergno), quello tra Bedretto e Lugano di Giovanni, e dovremmo dire tra Airolo e Bellinzona di Giorgio. Dovremmo, perché nella sua prosa in verità Giorgio non ci porta a passeggio se non a Rosagarda, tra casa e cortile:

lo sguardo attuale o memoriale si concede pochi passi fuori casa, per l’incontro volante tra la madre e Letizia e l’occhiata al melo dell’orto del vicino dove si è

Pietro gibellini

posata una viscarda. Una piena circoscrizione spaziale, e una temporalità che non esce dai confini del villaggio, se non per avvertire che il buon vecchio sarà operato all’ospedale di Faido e ricordare quando a Bugliasco i parenti si divisero le lenzuola. L’eco della città è portata solo da due forestieri: la turista di Lugano, il cacciatore di Bellinzona. Il viaggio nel ricordo, insomma, non è tra luogo e luogo, ma tutto a Rosagarda, anzi tutto dentro di sé, tra il sé di oggi e di ieri.

Anche questo mi pare un tratto caratterizzante un’ottica fortemente soggettiva, una introspezione operata girando lo sguardo su cose e persone vicine, insomma una posizione potenzialmente lirica.

Terzo e ultimo filtro del nostro confronto, il Risentimento. Contro chi? Bian-coni, rievocando con accorta empatia le fatiche delle povere donne lascia trape-lare qua e là un moto di fastidio per il turista tedesco che fotografa la contadina come una curiosità pittoresca («che Dio gliene renda il giusto merito»), verso i pensatori dubbiosi che la donna avesse un’anima, verso gli stessi montanari poveri eppur serviti da donne doppiamente povere. In Bonalumi il personaggio, artista “incosciente” dunque mal integrato nel sistema borghese, manifesta la sua diffidenza verso la polizia, la sua avversione per gli uomini d’affari sospetti pescecani che ruotano attorno a Rosaria e a Karl, al rancore per questo sadico faccendiere che mantiene o sfrutta la donna. In Martini il risentimento verso un’educazione oppressiva e repressiva è manifesto, tanto più che quel passato remoto e rimosso riesce ancora a condizionare il presente. In Giovanni il risen-timento si converte in lucida critica, attenuata dall’umorismo: contro le paure indotte dall’educazione clericale, ma anche contro il classismo disumanizzante della società di oggi. Tuttavia l’irritazione politica si risolve in una memoria au-tobiografica: come spiegare ai figli la scritta «Nixon boia» senza ricordare le rane decapitate, con una pietas verso gli animali che affiora in tante sue pagine?

Nel racconto di Giorgio le tracce di una virtuale protesta sono assai vela-te: l’antipatia per chi invade il Ticino da insensibile turista, vistosa negli altri scrittori, si avverte in due pennellate divertite; l’isterica signora di Lugano che stava percuotendo un ragazzo e che Pasquale sistema a dovere; il patrizio bel-linzonese venuto per cacciare e al quale una vacca danneggia la Volkswagen; un saccente forestiero cui un monello risponde per le rime. Viene insomma risolta con aneddoti umoristici quella rivincita cui pure accenna la sottile introspezione dell’autore, nell’introdurli:

C’è qualcosa di cui, in questi ultimi tempi, parliamo più spesso, con un piacere nuovo, striato d’amaro ma sacrosanto. Si tratta di torti vendicati in modo insolito, memorabile, torti di chicchessia, nei quali si prolungano torti antichi e recenti subiti da mia madre.

Se strizza l’occhio all’Albero di Bianconi, Giorgio ne cambia registro; suona il clavicembalo, non l’organo.

Della povertà d’altri tempi, poco o nulla si dice; si evince tutt’al più dalla tra-dizione culinaria che prevede non solo viscarde da mangiare col puré, ma pure corvi (lo chiede per sé il curato, per farne un buon brodo) nonché scoiattoli,

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«qualcuno con ancora la nocciola in bocca» (sic, anzi sigh). Dalla California, mèta dell’emigrazione riesumata da Bianconi, giunge solo la telefonata di una vecchia compagna di scuola che passerà l’estate «nel nostro Ticino così bello e pulito» e vuol rivedere Francesco.

Quanto all’aspetto mortificante e quaresimale di quel cattolicesimo, bersa-gliato più o meno acidamente da Martini e da Giovanni, non troviamo in Gior-gio che spiracoli, la sinopia positiva del curato di Bugliasco («un di quei preti che non saranno gran che come cultura ma almeno non gli salta in testa di dire nella predica che San Giuseppe non chiedeva mai aumenti di salario») e una riflessione più dubitativa che polemica:

Ha ragione il prete, noi non li vediamo ma loro, i morti, ci vedono; raccomandiamoci ai morti. Come dire che i vivi sono loro, e i morti noi. Non è così, signor curato?

Non manca però il lato positivo della vecchia educazione religiosa, che aiu-tava a sopportare con rassegnazione miseria e tribolazioni dell’aldiquà per uno sperato risarcimento ultraterreno: una funzione riconosciuta dal Martini del Fondo del sacco, non ancora convertito al sarcasmo polemico del Requiem. La vecchia Letizia, «che non potrebbe meritare di più il suo nome», così commenta la sua progressiva cecità:

«I miei occhi se ne vanno», dice, «per fortuna a poco a poco. Ma ho paura che a Natale non ci vedo più del tutto. Mah, finché possiamo girare non lamentiamoci».

Anche il male di vivere, che gli altri quattro scrittori esprimono con grada-zioni che vanno dal malinconico al drammatico e intendono in chiave psico-logica, politica o filosofica, nel racconto di Giorgio fa capolino in stille sparse con il contagocce; l’amaro è temperato dall’arguzia umoristica: il padre del pro-tagonista canticchia «Eri tu che mangiavi quell’anitra» parodiando Eri tu che macchiavi quell’anima; Francesco e zia Santa rinnovano una battuta collaudata esorcizzante:

Il bel tempo ha tirato fuori anche zia Santa, che ha sempre avuto poca salute ma intanto viaggia sui settanta, col suo canarino. Sicuro di farla sorridere, le dico in francese: «Tu vas bien?» «I vèi a biàm», risponde con prontezza (che vuol dire: «vado in briciole», di fieno).

Gocce, sì, ma talora pesanti e tossiche come il mercurio che lo zio si è portato dall’Inghilterra. Del suo rapporto con il padre dice Francesco:

Ci siamo detti talmente poco, che, se continua così, avremo gran bisogno di un’altra vita per conoscerci.

E quando riesce ad aggiustare il manico della scura, sotto lo sguardo compia-ciuto del padre con cui litigava per vincere a carte, osserva:

Pietro gibellini

Quando s’accorge dell’operazione mio padre sembra veramente sollevato: e anch’io, a dir la verità, sto meglio, come chi, nell’intimo, si rallegra di essersi smussato, di perdere a un giuoco che in fin del conto ha soltanto dei vinti.

E cosa prova nello spaccare la legna?

Ma sì, spacco questa benedetta legna con una certa rabbia, o meglio disperazione, la stessa calma disperazione che mi permette di strappar erba per ore e ore tra ciottolo e ciottolo davanti a casa, con uno zelo troppo nuovo per evitar di spiegarmelo con questa morte che vive qui intorno.

Insomma, anche in Autunno a Rosagarda troviamo i nuclei concettuali e im-maginativi di quelle Due Svizzere in conflitto cui accennavo, di quella dialettica tra paese e città, tra passato contadino e presente borghese: ma toccati con lievi mani, da un poeta cui interessa essenzialmente un sentimental journey dentro se stesso. Risentimento no, semmai ri-sentimento, rinnovo di un sentimento, da verificare nel suo persistere o nel suo mutare: a Rosagarda non c’è per lui un approdo voluto dal nòstos, Giorgio alias Francesco è un Wanderer come l’amato Goethe dell’Italienische Reise che viaggia verso il paese dove fioriscono i limoni per trovare se stesso. Rosagarda, toponimo autentico di un fazzoletto di terra presso Prato Leventina, dà titolo al racconto anche per la sua carica verbale e visiva; reca in sé il nome della rosa ed evoca lo sguardo del poeta: quel fiore solitario che guarda lo scrittore nel cuore del racconto, e lo distoglie dalla fatica:

Quando c’era da trasportare qualcosa di pesante davo una mano anch’io, ma piuttosto che andare continuamente per quelle scalette di legno su e giù, rotto in due, me ne sarei rimasto lì a guardare l’orto di zia Romilda, dove una rosa, sola, d’un rosso cupo, si può dire che era lei a guardare me, a riempirmi di silenzio.

Sembra un particolare cursorio, senonché, mentre il furgone sta per partire con il carico di lenzuola e mobili, l’attenzione torna su quella rosa:

E stava per partire, quando l’Ester, la cugina in diagonale, gli ha gridato di fermarsi un momento. È corsa nell’orto dov’era quell’unica rosa, l’ha colta in fretta, e allungandosi, lei così piccola, più che poteva sopra la sponda di dietro del camion, l’ha infilata tra due materassi.

Così Autunno a Rosagarda brilla come fiore lirico nel panorama di fatiche fermate in Pane e coltello: e svela, sotto i panni del narratore, la natura inevita-bilmente poetica della sua vocazione.

notabibliografiCa. A parte Pane e coltello, gli altri scritti sono stati menzionati abbreviata-mente: qui, in ordine alfabetico, i rinvii bibliografici completi. Piero bianConi, Albero gene-alogico: cronache di emigranti, Pantarei, Lugano 1969; giovanni bonaluMi, Gli ostaggi, Val-Paneecoltello: unPoetafraquattronarratori

lecchi, Firenze 1954; Pietro gibellini, Due Svizzere in conflitto: un «filo» nella prosa ticinese recente, in “Otto/Novecento”, III (1979), 3-4, pp. 300-317; Plinio Martini, Il fondo del sacco, Casagrande, Bellinzona 1970; iD., Requiem per zia Domenica, Il formichiere, Milano 1976;

renato Martinoni, Il paradiso e l’inferno. Storie di emigrazione alpina, Salvioni, Bellinzona 2011; giorgio orelli, Accertamenti verbali, Bompiani, Milano 1978; iD., Il suono dei sospiri:

sul Petrarca volgare, Einaudi, Torino 1990; iD., Né bianco né viola, Collana di Lugano, Lugano 1944; ID., Sinopie, Mondadori, Milano 1977; iD., Spiracoli, ivi, 1989; giovanni orelli, La festa del ringraziamento, Mondadori, Milano 1972; ID., L’anno della valanga, ivi, 1965.

Pietro gibellini

GILBERTO LONARDI