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Su Orelli che traduce otto versi di Lucrezio

1.2. Orelli e i traduttori di Goethe: un dialogo

Negli Appunti informativi premessi all’edizione 1974 delle sue traduzioni goe-thiane4 (non verrà coinvolta nel discorso, in questa sede, l’assai più esigua prin-ceps),5 è del resto lo stesso Orelli a mettere la pulce nell’orecchio, a suggerire cioè in modo nemmeno troppo implicito qualche mirato scavo in senso compa-rativo-intertestuale. Orelli confessa infatti di aver intrapreso l’opera, negli anni quaranta, senza vera cognizione delle traduzioni italiane pregresse,6 ma di aver sentito poi subentrare l’esigenza di un più meticoloso vaglio della tradizione.

Come fisiologico per un poeta che andava scoprendo una propria voce sempre più limpida e definita, deve aver cominciato ad agire, in un secondo momento, il pungolo dell’agonismo “orizzontale”, tra pari, da sommare a quella competitio

“verticale”, con un originale vincolante ma al contempo mai inerzialmente resti-tuibile, che è insita nell’atto stesso del tradurre poesia.7

Uno scrutinio esaustivo delle rotte intertestuali ricostruibili nel Goethe di Orelli dovrebbe pertanto passare scrupolosamente in rassegna la non sparuta schiera dei letterati italofoni affannatisi a rendere nel loro idioma nativo le liri-che di Goethe.8 In un lavoro dai ben definiti confini come questo, ho tuttavia scelto di privilegiare Diego Valeri come unico riferimento comparativo: non solo in forza della sua indiscutibile autorevolezza intellettuale, ossia dell’alta considerazione di cui godeva – come studioso, traduttore e poeta in proprio – presso l’élite letteraria del nostro Novecento, ma anche perché con lui Orelli intreccia il dialogo a distanza più stimolante e controverso, tra distanziamento esplicito e ben mimetizzate riprese. La trattazione che segue prenderà dunque in esame tre specimina testuali, mostrando di volta in volta i punti di contatto e di divaricazione tra le traduzioni di uno stesso pre-testo lirico goethiano offerte rispettivamente da Valeri e Orelli. Pur senza ambire alla generalizzazione di risultati che necessiterebbero di verifiche a più largo raggio, si tenterà poi di ricondurre i dati raccolti a una ratio coerente che, oltre a meglio descrivere l’ap-proccio traduttivo di Orelli e le dinamiche ricorrenti del suo incontro/scontro con Valeri, possa fornire qualche elemento utile all’interpretazione complessiva della poetica orelliana.

“attraversanDo” valeri. il goetheDi giorgio orelli

2. Orelli “attraversa” Valeri: tre esempi di analisi contrastiva 2.1. Meeres Stille

È lo stesso Orelli a rivelare di aver tratto stimolo a cimentarsi con l’ardua Meeres Stille goethiana dal giudizio piuttosto severo che aveva espresso il Fubini sulla traduzione datane da Diego Valeri.9 Non a caso, lo studioso Stefano Barelli ha strutturato in chiave oppositiva il raffronto tra le due versioni.10 L’analisi che ora propongo di questo primo campione testuale tiene naturalmente ampio conto del minuzioso esame comparativo condotto dal Barelli, nonché di altre voci di spicco della bibliografia disponibile in materia (gli studi di Mengaldo11 e De Marchi12 su tutti), ma inserisce tali osservazioni in un quadro interpretativo che ambisce ad apportare qualche – spero non del tutto irrilevante – novità critica.

Meeres Stille

Tiefe Stille herrscht im Wasser, ohne Regung ruht das Meer, und bekümmert sieht der Schiffer glatte Fläche ringsumher.

Keine Luft von keiner Seite!

Todesstille fürchterlich!

In der ungeheuren Weite Reget keine Welle sich.

Valeri (V) Orelli (O2)

Bonaccia

Pace fonda dentro l’acque, senza moto il mare sta.

Scruta inquieto il navigante quella liscia immensità.

Tace il vento; una mortale calma stende il suo sopor.

Non un’onda nell’uguale lontanissimo squallor.

Mare calmo

Grande pace tiene l’acque, posa il mare senza un’onda, e vede inquieto il navigante tutto il liscio che lo circonda.

Da nessuna parte un fiato.

Quiete di morte che spaventa.

Nello spazio interminato non si muove neanche un’onda.

Nell’opprimente concisione della lirica goethiana, l’uniformità del ritmo trocaico, replicato identico su due quartine di Vierheber (sostanzialmente, te-trametri) a rima alternatamente femminile e maschile, vuole rendere, «col ral-lentamento stupefatto e l’immobilità mortuaria che ne derivano»,13 una «calma terrifica, alle soglie del nulla».14 Con plastica iconicità prosodica, Goethe

asse-conda e potenzia infatti il senso di asfissiante sperdimento che l’immagine-tema (una nave bloccata senza vento in alto mare) intende trasmettere. Si realizza insomma nel source-text, con particolare evidenza, quell’alleanza tra significan-te e significato che, in quanto scaturita da un intreccio indissolubile di fattori idiosincratici o almeno idiolinguistici, è assai difficile ripristinare senza perdite o strappi in un diverso sistema linguistico-culturale.

Deciso a tamponare l’aporia, Valeri opta per la puntuale «mimesi metrica»,15 anche a costo di disattendere le aspettative del lettore italofono, abituato alla naturale varietas accentuativa dei versi romanzi. Nella tradizione poetica te-desca, infatti, la codificazione seicentesca classicheggiante di Martin Opitz già irreggimentava le diverse configurazioni ritmico-prosodiche entro un predefini-to novero di possibilità combinapredefini-torie – in conformità a un “genio” linguistico, quello tedesco, di per sé improntato, nell’esecuzione fonica, a più regolari ca-denze. Goethe dunque, insistendo percussivamente sulla stessa cellula ritmica, estremizzava a scopo evocativo un cursus “marziale” – scandito dall’inesorabile succedersi di arsi e tesi – comunque ben presente, almeno in potenza, nel reper-torio di forme canoniche più o meno intuitivamente accessibile a un suo con-terraneo. Al contrario, un orecchio educato alla mossa musicalità del Petrarca o del Tasso, o comunque uso a patterns regolati dall’isosillabismo (e non, come in tedesco, dal numero fisso degli ictus grammaticali, le Hebungen), non può non percepire, negli ottonari a schema rigidamente trocaico (1a - 3a - 5a - 7a) del Valeri, un’inflessione un po’ cantilenante.16

La rima tronca dei versi pari aggrava poi, nella traduzione valeriana, quell’a-ria da «canzonetta settecentesca» già lamentata dal Fubini: l’osservanza filolo-gica del metro di partenza sembra andare a detrimento di una meglio acclima-tata naturalezza d’espressione. Con la sua robusta ossitonia, il tedesco – come il francese – si presta infatti a un contemperato amalgama di rime femminili e maschili molto più agevolmente dell’italiano, assoggettato invece alla “tirannia”

delle parole piane. Se vuole rimpinguare lo sparuto thesaurus delle forme tron-che, un poeta del sì deve dunque ricorrere all’apocope sistematica (ecco così, in Valeri, i troncamenti omofonici – fra l’altro, tra due parole allitteranti in /s/ – sopor : squallor, vv. 6 e 8); un espediente, quello dell’apocope in rima, che a un conoscitore medio della letteratura italiana rammenta quasi automaticamente i modi balzellanti di un “poetese” arcadico-rococò prima e ottocentesco poi, e suona perciò un po’ di maniera.

L’effetto di smarrita gravitas ottenuto da Goethe con l’assillante indistinzio-ne del ductus ritmico rischia dunque di deragliare indistinzio-nel suo antipodo, ossia in metastasiana levità melica, se lo si persegue imbracciando gli stessi strumenti dell’originale in un contesto storico-letterario ad essi statutariamente refrattario.

Diversa è la poetica traduttiva adottata da Orelli, che paradossalmente ricer-ca l’equivalenza sostanziale (certo, quell’equivalenza mai perfetta che è ideale conativo, “asintotico”, molto più che obiettivo concretamente attingibile dal traduttore) per via di un più deciso distacco dal modello formale. Eteronomia dei fini, ma (relativa) autonomia dei mezzi, per sintetizzare in uno slogan quello

aliCe sPinelli

che sembra essere l’atteggiamento traduttivo qui messo in pratica dal Nostro.

Come apertamente dichiarato ancora una volta da lui stesso, Orelli preferisce interrompere «il fluire degli ottonari con deliberate inflessioni della voce».17 In-tercalando alle misure ottosillabiche trocaiche (vv. 1, 2, 5, 7, 8)18 dei novenari un po’ zoppicanti, tra loro diseguali ed eterodossi quanto a distribuzione degli accenti (di 2a, 4a, 8a il v. 3; di 1a, 3a e 8a il v. 4; di 1a, 4a e 8a il v. 6), il poeta-tra-duttore prosaicizza la dizione, precludendone ogni deriva verso una cantabilità meccanica. I momenti di brusco scompenso ritmico, comunque accortamente controbilanciati dalla compresenza di misure sovrapponibili alle tedesche, re-stituiscono così alle frasi nude, sottratte al “narcotizzante” martellare del batti-to, tutto il loro peso semantico. La statica indeterminatezza dell’orizzonte, con lo sgomento cosmico che determina, può allora incutere vera soggezione; una troppo prevedibile litanicità rischierebbe viceversa di smorzarne le implicazioni romanticamente “sublimi” e perturbanti.

Sempre in quest’ottica di movimentazione ragionativa e anticanzonettistica delle due quartine, oltre che nel solco di un usus novecentesco ormai consoli-dato, Orelli surroga il predefinito telaio rimico del Goethe con un più libero rincorrersi di echi;19 mentre decadono del tutto quelle uscite tronche un po’

polverose che Valeri aveva voluto conservare in estrema ottemperanza all’archi-tettura ritmica dell’originale.

A conferma di come la «dominante di Valeri traduttore» sia la «struttura metrica in tutte le sue componenti, a partire dalla rima, con veri e propri tours de force»20 che talvolta sacrificano alla specularità omometrica una resa conforme di altri aspetti del testo-base, si noti poi la «netta e simmetrica bipartizione»21 delle strofe, senza riscontro nel modello tedesco. La radicale ristrutturazione dell’impianto sintattico istituisce anzi un rapporto chiastico, di rovesciamento complementare, con le modalità enunciative di volta in volta adottate nell’ori-ginale. Al v. 1, con la soppressione del predicato herrscht, Valeri dà vita a una frase nominale, così come, circolarmente, ai vv. 7-8 (dove è reget […] sich a non trovare un preciso equivalente morfologico). Per converso, Goethe sospende-va al centro della lirica due esclamazioni nominali – quasi a farle rimbombare, lapidarie e absolutae, in quell’atmosfera di esasperante immobilità e luttuoso silenzio che mirava a ricreare (Keine Luft von keiner Seite! / Todesstille fürchter-lich!, vv. 5-6). Ebbene, Valeri risponde con la giustapposizione asindetica di due coordinate, entrambe rette da una più pacifica e legante sintassi verbale, e con in sovrappiù l’enjambement ad oliare la transizione interversale (Tace il vento;

una mortale/ calma stende il suo sopor, vv. 5-6).

Orelli calca invece costantemente le mosse del subtesto goethiano: conserva all’incipit il verbo,22 reso «mediante un’inconsueta accezione del verbo “tene-re”»;23 nel verso di chiusa, traspone letteralmente reget sich con si muove (facen-do logicamente precedere il sintagma dal non, lad(facen-dove la negazione, in tedesco, è incorporata nell’indefinito keine); rispetta la sintassi nominale e l’irrelata auto-sufficienza dei vv. 5-6 dell’originale (benché al v. 6 la resa del semplice aggettivo fürchterlich con la perifrasi relativa che spaventa apra la strada all’ipotassi

verba-“attraversanDo” valeri. il goetheDi giorgio orelli

le). Nella prima quartina, inoltre, preserva la congiunzione (und v. 3 → e v. 3), principale responsabile, in quanto sillaba in anacrusi, della dilatazione iperme-tra dell’ottonario trocaico in novenario non canonico24 (e presumibilmente ri-pudiata da Valeri proprio per il disturbo prosodico che avrebbe recato). In tal modo, osserva Barelli, il traduttore tutela «la sovrapposizione di unità metrica e sintattica» pensata da Goethe per la sua prima strofa; «ne risulta, in termini musicali, un “largo” decisamente in contrasto con la rapidità ritmica della ver-sione di Valeri».25

A levigare la superficie di O2 provvede poi una sensibilità materica tutta orelliana, quella stessa propensione ad auscultare i più reconditi accordi sonori (a partire dalle relazioni tra subunità minime e per se asemantiche, i fonemi) che guida gli “accertamenti verbali” del critico. Ed è infatti in virtù di una navigata consapevolezza metaletteraria che Orelli decide di esordire con un’assonanza intrasintagmatica (grAnde pAce, v. 1) utile a «conservare un’efficace dominanza fonica grazie a due forti accenti sulle A (in tedesco sulle I)».26

Tiriamo ora le somme di questa prima analisi differenziale. Orelli sceglie di offrire una traduzione per certi versi in linea col gusto contemporaneo, assimi-labile, per sprezzatura espressiva e destrutturazione ritmica, al milieu poetico secondonovecentesco. Va incontro al destinatario, per fare nostra la nota im-magine di Schleiermacher, nel momento stesso in cui rifoggia un classico della lirica tedesca secondo parametri (parzialmente) consoni al codice letterario vi-gente; così che la potenza pittorica e lo spessore metafisico di Meeres Stille non perdano, in un processo di traslazione che è lato sensu culturale prima e più che linguistico, la loro incisività primigenia.

Eppure, la sua non è un’attualizzazione acritica, ma una geniale soluzione di compromesso. Per dirla in termini crociani, occorreva che la voce di Goethe risuonasse dentro la sua voce; il testo d’approdo non doveva essere sostitutivo tout court, ma piuttosto rappresentativo dell’originale. Di qui la necessità di non obliterare le zone di collisione tra il proprio idioletto e le prerogative dell’an-tigrafo; di non conformarsi in toto all’orizzonte d’attesa del pubblico, ma di stimolarne una ricezione critica, conscia dell’ineliminabilità di un certo grado di Verfremdung (o straniamento).

Di qui, dunque, il sistema metrico ibrido. Con la sua serie disarticolata di ottonari perfetti, Orelli rimanda non solo alla concreta parole del Goethe lirico, ma a una langue “altra”: marca così la non piena colmabilità del décalage cul-turale, la storicità di un componimento che non è e non deve essere percepito come creazione indigena di un letterato coevo. E tuttavia, i più moderni versi irregolari, oltre a scongiurare quel fuorviante declassamento della poesia a fila-strocca di cui si è detto,27 recano il segno del suo stesso passaggio, sanciscono (bachtinianamente) la “bivocità” di un testo che non è né l’originale né un suo originale.

L’elegante tradizionalismo di Valeri rischia viceversa di non problematizzare a sufficienza il revival del classico – almeno sub specie orelliana, stando non solo alle inferenze testuali, ma anche alle esplicite prese di posizione critiche e

auto-aliCe sPinelli

riflessive che siamo andati via via citando. Anziché rinnovarsi nell’immanente tensione tra permanenza e riassorbimento della sua nativa alterità, la poesia del Goethe viene ricompresa pressoché senza cedimenti al di qua di una frontiera che a un Novecento “svezzato” da Ungaretti e Montale – solo per citare due dei nomi più emblematici e influenti – non può non apparire ampiamente sor-passata. È forse questo, al di là delle singole divergenze di resa, lo scarto fon-damentale tra la poetica traduttiva del Valeri, fedele a una grammatica stilistica deliberatamente rétro, e quella di Orelli, deciso a far coesistere, in stridente controcanto, i più instabili istituti di una modernità militante con le reliquie di un’eredità attivamente rimeditata.28

La presa di distanza di Orelli dal predecessore è in effetti innegabile, realiz-zata nei fatti oltre che rivendicata ex professo.29 Ma è davvero incompatibilità su tutta la linea? In verità, insistendo univocamente sulle note in contrappunto si corre il pericolo di offuscare significative consonanze.

Innanzitutto, l’unica non-rima nell’ordito metrico del Valeri, l’assonanza ac-que : navigante30 dei vv. 1 : 3, si ripresenta identica nella traduzione di Orelli; il quale per di più indulge alla stessa arcaizzante elisione dell’articolo determina-tivo davanti a sostandetermina-tivo plurale (l’acque, v. 1 O2 = V). Al v. 3 O2 ritorna, quasi sullo stesso piede (non fosse per lo slittamento prodotto dalla congiunzione e), l’inquieto del Valeri (dal bekümmert tedesco, che avrebbe ammesso altrettanto legittimamente rese quali “preoccupato”, “ansioso”, “turbato” ecc.); in ambedue i traduttori, posposto al verbo (scruta al v. 3, in Valeri, il più neutro vede al v. 3, in Orelli), inversamente che in Goethe, dove il participio attributivo precede il predicato (und bekümmert sieht […], v. 3).

È di altro ordine, tuttavia, la convergenza più suggestiva. Come già eviden-ziato da Barelli nel suo studio comparativo, al v. 4 «Orelli sostantivizza l’aggetti-vo glatte (il liscio), rinunciando a trasporre l’intero sintagma glatte Fläche, men-tre Valeri, più liberamente e con indubbia reminiscenza leopardiana, traduce Fläche con immensità».31 Al v. 7, è invece Orelli a parafrasare il celebre Infinito, replicando al goethiano ungeheuren Weite32 con uno spazio interminato dal copy-right inconfondibile.33 Seppur sotto differente specie lessicale e diversamente dislocate, ben riconoscibili tessere del fortunato idillio leopardiano s’insinuano dunque sia nella versione di Valeri che in quella di Orelli. Vero è che «era forse inevitabile, in una poesia in cui il mare e il concetto di immensità si trovavano congiunti».34 Tuttavia, appurato che Orelli ben conosceva la versione valeriana (al punto da esserne stato contrastivamente ispirato), e stanti le tangenze testuali appena individuate, non sarà forse un azzardo pensare che l’interferenza me-moriale foriera del suo recupero leopardiano sia stata mediata dal precedente di Valeri. La versione di quest’ultimo, impreziosita da un sovradeterminante immensità (come detto, per il più referenziale Fläche) di cui un poeta dall’inter-testualità fine e scaltrita come Orelli ha senza dubbio còlto la densità allusiva, potrebbe in altri termini aver agito da catalizzatore in praesentia di un’«inter-mittence du cœur» leopardiana che già l’isotopia dell’indeterminato e una Stim-mung intrisa di sopraffatta trepidazione certamente propiziavano.

“attraversanDo” valeri. il goetheDi giorgio orelli