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Vite non degne di lutto: i morti nel Mediterraneo

tre assi di ricerca e un quadro teorico multidisciplinare

1. Lo spazio Mediterraneo: mobilità umane, confini, politiche in continua evoluzione

1.4. Vite non degne di lutto: i morti nel Mediterraneo

Uno dei temi più critici riguardo spazio Mediterraneo è quello dei morti in mare.

Nonostante si tratti di un fenomeno in aumento, in evidente contraddizione con quello che la CEDU definisce “diritto alla vita” (art.2), non sembra esistere una vera e propria mobilitazione istituzionale volta a interromperlo, specialmente poiché le cause ultime dello stesso non sono prese in adeguata considerazione.

Vi sono diversi modi di prendersi cura e preservare la vita, così come vi sono diversi gradi di distribuzione della vulnerabilità umana sul pianeta. Alcune vite verranno prudentemente protette, e ogni attacco alla loro aspirazione alla santità basterà a mobilitare gli apparati militari. Altre vite non troveranno un sostegno così rapido e diretto, e neppure saranno considerate degne di lutto (Butler, 2004, p.55).

Secondo il report “Fatal Journeys II”, pubblicato dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) lo scorso 14 giugno 2016, il numero di persone nel mondo che avrebbero perso la vita nel tentativo di attraversare dei confini sarebbero dal 1996 oltre 60.000.

Tab.4 – Morti nel Mar Mediterraneo per anno e corridoio migratorio

Anno/Corridoio 2013 2014 2015 2016

Mediterraneo Centrale

Non disp. 3.186 2.869 4.164

Mediterraneo Orientale

- 34 806 420

Mediterraneo Occidentale

- 59 102 62

Totale - 3.279 3.777 4.646

Elaborazione dell’autrice su dati OIM (2013-2016). Aggiornato all’11/11/16.

Nell’ambito del Missing Migrant Project (OIM, 2016b) il fenomeno dei morti alla frontiera viene analizzato mediante un approccio comparativo che evidenzia le regioni e le rotte più pericolose tra 2014 e 2016. Il Mediterraneo si conferma il confine più pericoloso al

mondo, ove nel solo 2016 hanno perso la vita almeno 4.646 persone a fronte del totale mondiale di 6.009. Un fenomeno non solo strutturale, ma anche in aumento, in quanto nel 2015 il numero dei morti nel Mediterraneo ammontava a 3.777 a fronte di 3.279 nel 2014 (Tab.4). Come emerge dai dati il corridoio maggiormente letale sarebbe quello del Mediterraneo Centrale.

Secondo Tamara Last e Thomas Spijkerboer, tre sono le sfide fondamentali riguardo il fenomeno dei morti in mare: i) effettuare il conteggio utilizzando fonti ufficiali; ii) restituire un’identità ai “migranti irregolari” e clandestini iii) registrare le cause di morte (OIM, 2014).

La mancanza di fonti ufficiali riguardo i morti in mare rende necessario il riferimento a diverse fonti, che utilizzano metodi di raccolta dei dati che non sempre permettono una comparazione. Tra queste le più note sono l’ONG United for Intercultural Action, il Blog di Gabriele del Grande “Fortress Europe”, The Migrant Files e Asociación Pro Derechos Humanos de Andalucía (APHDA).

I dati pubblicati generalmente sottostimano il fenomeno, in quanto non tutte le fonti includono i dispersi, bensì solo i cadaveri recuperati. Sono molti inoltre i naufragi o le morti di cui non si ha notizia sui mezzi di informazione. Nella direzione di sopperire a questo deficit informativo (Grant, 2015) si colloca la proposta dei ricercatori del progetto “The Human Costs of Border Control” della Vrije Universiteit Amsterdam che propongono la creazione di un osservatorio europeo sulle morti dei migranti “Deaths at the borders database for the Southern EU external borders” che raccolga e renda accessibili “tutti i dati disponibili relativi ai cadaveri dei migranti passati per le maglie della burocrazia delle autorità locali in Spagna, Gibilterra, Italia, Malta e Grecia” (Last et al., 2016:36).40

Uno dei temi centrali nella riflessione sui morti alla frontiera è quello della restituzione di identità, da un punto di vista etico e umano prima che sociologico; sarebbe infatti importante informare i parenti degli avvenuti decessi, e rendere quelle vite “degne di lutto”, pubblico oltre che privato. La riflessione di Judith Butler (2004) riguardo i duecentomila bambini morti durante Guerra del Golfo, è perfettamente applicabile alla questione dei morti alle frontiere:

“Abbiamo forse una sola immagine, un fotogramma che ci ricordi una qualunque di queste vite, singolarmente o in gruppo? È possibile trovare nei mezzi di informazione un racconto relativo a queste morti? Quei bambini avevano dei nomi? Non ci sono necrologi per le vittime di guerra causate dagli Stati Uniti, e non possono essercene. Perché un necrologio esista, c’è bisogno che ci sia stata una vita, una vita meritevole di essere considerata, di essere valorizzata e preservata, una vita riconoscibile in quanto tale. Si può obiettare che sarebbe

40 I risultati della ricerca stabiliscono che tra il 1990 e il 2013 sarebbero state registrate presso le anagrafi di questi paesi 3.188 morti di frontiera.

poco pratico scrivere un necrologio per tutti quei caduti o per tutte le persone, eppure dovremmo chiederci in che modo il necrologio funzioni come strumento che regola la distribuzione pubblica del lutto. (2004: 57)

Il lutto pubblico è generalmente mancante nel caso dei morti in mare. Maurice Stierl (2016) analizza come in alcune azioni portate avanti da attivisti No Border vi sia proprio la volontà di restituire identità a chi ha perso la vita alle frontiere, tramite l’organizzazione di eventi che permettano di vivere il lutto collettivamente.

Anche la responsabilità riguardo i morti in mare e alle frontiere è generalmente mancante;

essa non è facilmente individuabile nel discorso pubblico sulle migrazioni via mare, anzi, è spesso oggetto di mistificazione. La responsabilità politica, ultima, delle morti in mare, è comunemente “spostata” su altri soggetti: in primis i trafficanti, organizzatori di viaggi letali, e in secondo luogo i migranti stessi che rischiano la vita in mare. L’assenza di un responsabile per questi morti ricorda il concetto di “nuda vita” proposto da Agamben (1995), quale vita uccidibile, eppure non sacrificabile (1995:13).

A questa mancata attribuzione di responsabilità politica hanno tentato di sopperire moltissimi autori, analizzando il fenomeno delle migrazioni via mare e dei morti alle frontiere come conseguenza dell’evoluzione delle politiche di controllo e militarizzazione dei confini (Pugh, 2000, 2004; Lutterbeck, 2006a; Carling, 2007; Van Houtum e Boedeltje, 2009, Von Houtum, 2010; Bigo, 2014; Heller e Pezzani, 2012, 2014, Vollmer e Von Boemcken, 2015;

Kovras e Robins, 2016).

Tra i primi lavori sul fenomeno sulle migrazioni via mare quello di Pugh (2004), avviava un percorso di decostruzione della rappresentazione dei migranti come minaccia, utilizzata nel discorso pubblico come giustificazione di politiche securitarie (securitization), e sottolineava la necessità di salvare e proteggere i richiedenti asilo, e di facilitarne l’arrivo in un posto sicuro.

Securitization is defined as the process by which issues are identified, labelled and reified as threats to a community, often by politicians for electoral gain.

[…]The immediate requirement is to ensure not only that asylum seekers at sea continue to be rescued and protected but also that the maritime regime is strengthened to facilitate their arrival at a place of safety. Over the longer term, de-securitizing the issue of asylum seekers and boat people requires action to address perceptions in destination states (2004: 50).

Contrariamente a queste raccomandazioni il processo di securitizzazione è progressivamente evoluto, in una vera e propria militarizzazione dei confini (Lutterbeck,

2006a; Bigo, 2014), consistente nell’impiego via via più cospicuo di mezzi e strategie militari nel controllo dell’immigrazione irregolare. Sia la progressiva militarizzazione che lo sviluppo della componente umanitaria nella gestione dei salvataggi in mare, sono parte della messa in scena dello “spettacolo del confine” (De Genova, 2002), uno “spettacolo politico”, messo in scena sulle isole del sud Italia (Cuttitta, 2014b) e in altri luoghi di confine, puntualmente sotto i riflettori.

Molti autori si sono espressi riguardo la rilevanza politica dei morti alle frontiere, e in mare (Coleman e Stuesse, 2014; Kovras e Robin, 2016). In merito va specificato che alcuni naufragi particolarmente gravi hanno generato dei cambi repentini nelle politiche di salvataggio, ad esempio l’introduzione della Missione Mare Nostrum (post 3 e 11 ottobre 2013), o giustificato ulteriori passi nel processo di militarizzazione, nel quadro di una lotta ai trafficanti (aprile, 2015). Coleman e Stuesse (2014) hanno discusso la gestione del fenomeno dei morti al confine Mexico-USA quale espressione delle radici bio-politiche del controllo delle frontiere. Nello stesso framework teorico di matrice foucaultiana Kovras e Robins (2016) propongono una lettura dei morti in mare come “soggetti politici”, dunque in quanto simboli di contestazione politica e culturale.

Un ulteriore contributo sulla rilevanza politica dei morti in mare è fornito da Heller e Pezzani (2012, 2014, 2016) che analizzano casi di “left to die-boat”, ove non è stata fornita assistenza. Secondo gli autori il mancato soccorso in mare sarebbe in alcuni casi volontario, e parte di un disegno politico volto a scoraggiare i viaggi in mare. Tali riflessioni vanno lette alla luce di un particolare discorso politico che ha attribuito all’ampliamento delle missioni umanitarie (es. Mare Nostrum) un ruolo di incoraggiamento delle migrazioni via mare. Tale discorso enfatizzava la necessità di ridurre la portata dei soccorsi in mare, quale parte di un insieme di politiche dissuasive della migrazione via mare.

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