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Il dilemma etico: affrontando vulnerabilità e trauma

quali sfide metodologiche?

3. Sfide metodologiche

3.2. Il dilemma etico: affrontando vulnerabilità e trauma

La prima sfida metodologica, legata alla difficoltà di effettuare un’osservazione duratura dei contesti scelti, e le sue conseguenze in termini di costruzione delle relazioni necessarie a svolgere interviste in profondità è strettamente connessa alla seconda sfida, legata al cosiddetto “ethic dilemma”. La particolare vulnerabilità del gruppo osservato, i cui membri erano quasi sempre portatori di vissuti traumatici legati al paese di origine o al viaggio, costituiva inevitabilmente un ulteriore fattore di complessità nell’indagine, sia per ciò che concerne la realizzazione di osservazione partecipante, sia riguardo la realizzazione di interviste in profondità.

Ciò nonostante, come sottolinea S. nelle righe successive, le narrazioni dei rifugiati non costituivano altro che la punta di un iceberg rispetto all’intera esperienza traumatica legata alla fuga da una guerra e alla migrazione forzata, spesso attraverso percorsi letali.

Quelli che non sono ricchi, quelli che non sanno quanti mesi impiegheranno per mettere da parte abbastanza soldi per lasciare la Siria, possono raggiungere l’Europa solo via mare. E li, su quella rotta, o muoiono o arrivano, con un trauma che porteranno con loro per il resto della loro vita. Se io penso al mio caso…mia moglie, i miei figli, sono ancora completamente traumatizzati dal mare. Ora io ti ho solo parlato del viaggio. Come è stato, come abbiamo corso nell’acqua, come eravamo stipati sulla barca, come stavamo morendo e come siamo stati salvati.

Ma rimane solo un racconto. Viverlo è sempre qualcosa di completamente differente. [Intervista con S. rifugiato siriano di Deraa, 18 giugno 2014, Stazione di Catania]

Il discorso del trauma è sempre molto presente nelle narrazioni dei rifugiati. Una delle sentenze più ricorrente era shufna el mawt bil bahar, ovvero, abbiamo visto la morte in mare.

Il contatto diretto con la morte, o il rischio estremamente concreto di viverla emerge in

moltissime espressioni linguistiche: qawareb el mawt (barche della morte), o safar el mawt, dunque il viaggio della morte. La condizione di sopravvissuti, che si somma alla condizione di rifugiati provenienti dalla Siria e giunti in Europa in seguito all’attraversamento di paesi di transito, talvolta altrettanto pericolosi rispetto a quello di origine, come la Libia, è confermata nell’esperienza dei viaggi in mare, e porta con sé una vulnerabilità legata al trauma (Fassin, 2008; Papadopoulos, 2002, 2006)

Un ragazzo alto e magro esce dalla tenda. Avrà circa la mia età. Si è appena svegliato. Si stropiccia il viso e sbadiglia. I sui occhi fissano il vuoto eppure ha uno sguardo buono, e una cicatrice enorme sul braccio. “Vedi, questo è mio figlio”, mi dice L. Poi si rivolge a lui: “Vieni tesoro, questa è Chiara, viene dall’Italia. Presentati.” Ahlan. Benvenuta, mi dice. Poi si perde e si allontana.

“Vedi la ferita che ha? Vedi com’è?”, fa un gesto con la mano ruotandola vicino la tempia, “Ha perso la testa. È stato ferito durante una delle manifestazioni e arrestato. Lo hanno picchiato anche sulla testa. Quando lo hanno liberato non era più lo stesso. Ora non parla quasi più. Sembra nel suo mondo.” (Diario di campo, 10.7.15, Campo profughi di Kara Tepe, Mitilene, Lesbo, Grecia)

Il riconoscimento della vulnerabilità di ognuno è un importante requisito epistemologico per [la fornitura di] risposte empatiche e compassionevoli all’altro (Nussbaum 2001, cit. in Hall 2011:156). Secondo Nussbaum (2004) “l’empatia è la ricostruzione immaginativa dell’esperienza dell’altro”, che è in qualche modo l’essenza della ricerca etnografica. Inoltre, le narrazioni dei migranti, incluse quelle concernenti esperienze traumatiche, sono al centro della mia analisi: in primo luogo come strumento di soggettivazione politica (Fassin, 2008) e, in secondo luogo, come un’opportunità o punto di ingresso per cogliere l’interrelazione tra sé e società (Eastmond, 2007:250), ad esempio i meccanismi di azione e contro-azione (reazione) che si sviluppano tra le politiche di gestione delle migrazioni e migranti (Denaro, 2016d).

Queste considerazione non risolvono alcune delle preoccupazioni principali dei ricercatori.

È possibile individuare un ‘momento giusto’ per iniziare un’interazione? Sto invadendo la privacy degli individui osservati? Sono abbastanza rispettosa della loro sofferenza?

Probabilmente un giusto momento per approcciare le persone non esiste, ma ciò che pare ovvio è che delle persone che sono appena sbarcate dopo un viaggio in mare in cui hanno rischiato la vita e stanno ancora pianificando possibili itinerari (o vie di fuga) verso destinazioni ulteriori, quali paesi del centro e nord Europa, non si trovano nelle condizioni ottimali per essere intervistate. Inoltre, andando oltre queste percezioni di senso comune è possibile elaborare alcune considerazioni ulteriori. Cosi come sottolineato da alcuni

intervistati, la condivisione di narrazioni e esperienze con qualcun altro, indipendentemente dalla sua condizione di amico, conoscente o sconosciuto, può rappresentare un modo per attribuire significato a una determinata esperienza. Inoltre, la narrazione può facilitare l’auto-collocazione lungo il proprio percorso di vita, di cui l’esperienza migratoria fa parte. Questi meccanismi di auto-collocazione sembrano fondamentali, specialmente alla luce di alcuni comuni sentimenti che la combinazione tra migrazione forzata e condizione di sopravvissuti può generare: il sentimento di essere “persi” in un contesto sconosciuto, il sentimento di non essere protagonisti della propria vita, o “osservatori passivi”, o “vittime degli eventi”. La richiesta di ripercorrere dall’inizio il proprio percorso migratorio, e il focus sulla decisione di partire, che le interviste richiedono, può essere utile nel confronto con questi sentimenti. Allo stesso tempo il ripercorrere vissuti traumatici necessita di competenze specifiche, e di setting adatti, di cui solo raramente il ricercatore dispone (sia per motivi contestuali che per formazione personale).

In questo quadro, un fattore di discernimento è il livello di strutturazione della personalità di ognuno, e il tipo di risorse personali e competenze di ognuno, nella rielaborazione del proprio vissuto e gestione di vissuti traumatici. Mentre persone con una personalità molto strutturata riescono a interpretare la condivisione di esperienze personali come strumenti significativi, in altri casi il ripercorrere esperienze traumatiche può generare reticenza, paura e chiusura. In altri casi, le persone semplicemente trovano che ‘non sia il momento giusto’ e non hanno intenzione di condividere le proprie storie: essi stessi riconoscono di essere confusi, scioccati, perduti. Un ultimo fattore che andrebbe preso in considerazione è il background culturale degli intervistati. A volte alcuni rifugiati siriani hanno voglia di condividere le loro esperienze, anche se traumatiche, e di parlare dell’orrore da cui sono fuggiti o di descrivere le atrocità e difficoltà affrontate durante i loro viaggi. In molti casi, queste narrazioni sono supportate da materiale audio-visuale che è fornito al ricercatore come supporto e prova del racconto. Un interessante spunto di riflessione è stato fornito da F.R., giornalista siriano intervistato a Roma: lui sottolineava una sorta di “cultura della documentazione”, che avrebbe portato i rifugiati siriani a riprodurre, durante i loro viaggi, le stesse pratiche di documentazione che caratterizzavano la rivoluzione del 2011 e il contesto di guerra in Siria. Alla mancanza di giornalisti che potessero accedere al campo per documentare l’accaduto corrispondeva uno sforzo di documentazione da parte della cittadinanza (Denaro, 2016b).

Certamente il dilemma etico non può essere risolto attraverso una lista di prescrizioni, ma solo attraverso una profonda comprensione, e può essere attenuato attraverso il riconoscimento e la consapevolezza dell’esperienza traumatica vissuta dai rifugiati, nei paesi di origine e durante i viaggi spesso letali, via mare o via terra. Probabilmente solo l’esperienza del ricercatore porta con se lo sviluppo di competenze di discernimento, che

possano semplificare il riconoscimento di chi vuole/non vuole condividere la propria esperienza, possono facilitare l’osservazione e la ricerca in contesti così delicati.

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