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Sull’impossibilità di respirare: lo scoppio della rivoluzione siriana

Percorsi di fuga dalla Siria, verso e attraverso l’Europa

1. Dalla rivoluzione alla guerra: una contro-narrazione

1.1. Sull’impossibilità di respirare: lo scoppio della rivoluzione siriana

“We revolt simply because, for many reasons, we can no longer breathe”

F. Fanon

Tra le analisi più interessanti e verosimili del contesto socio-politico in cui la rivoluzione ha preso forma c’è quella di Laura Ruiz de Elvira (2014), che fa un passo indietro sino al 2000, anno in cui il presidente Bashar Al Assad succedette al padre Hafez. Secondo l’autrice la rivolta siriana sarebbe stata il frutto di tre fattori determinanti. In primo luogo alla rottura del “contratto sociale” su cui si era fondata sino a quel momento la società siriana che, nonostante l’assenza apparente di qualsiasi forma di contestazione sino al 2010, si andava configurando quale fonte grave di malcontento tra i cittadini. In secondo luogo l’influenza, in termini di aspettative e di percezioni, generata dalle rivoluzioni in atto nei paesi limitrofi, quali Tunisia ed Egitto. Infine la risposta repressiva e violenta del potere che avrebbe funzionato quale “collante” nella creazione di rivendicazioni trasversali alle diverse categorie della società siriana, tra cui appunto, la caduta del regime.

L’ipotesi della rottura del “contratto sociale” tra governo e società siriana trova fondamento nell’insieme di riforme socio-economiche avvenute nel decennio 2000-2010.

Esse si collocavano all’interno di un nuovo disegno politico volto a “sgravare” lo stato da alcuni dei suoi compiti fondamentali di “protezione” delle categorie vulnerabili di popolazione e di promozione dello sviluppo del paese. Sulla scia di un discorso neoliberista, che si faceva promotore dell’autonomia dei singoli, tali compiti venivano scaricati sulla società civile attraverso la promozione di un associazionismo comunque inquadrato e

strettamente monitorato dal governo. Una società civile “imbavagliata” che di fronte alle difficoltà economiche crescentisi limitava a organizzare distribuzioni di beni di prima necessità, senza però spendere alcuna parola di critica sulle responsabilità presidenziali delle stesse. Se per un verso questa politica prevedeva la promozione di associazioni “a-politiche”

o “de-politicizzate” a scapito di quelle politicizzate che venivano screditate e marginalizzate dal regime, quando non messe a tacere, dall’altro essa si configurava come terreno fertile per la nascita di nuovi spazi di confronto, dibattito, auto-organizzazione (De Elvira, 2014). Tali spazi assumevano centrale importanza nella società siriana “Post Hama”4, dove qualunque forma di dissenso e presa di parola venivano duramente repressi l’utilizzo esplicito della violenza, della carcerazione, della tortura e della sparizione dei portatori di discorsi scomodi.

Obbedienza, non significava aderenza alla politica dello stato; la società si comportava “come se” (as if) supportasse Bashar, mentre il malcontento cresceva (ibid. 683).

Ciò nonostante, il malcontento da solo non avrebbe potuto far scoppiare alcuna rivolta. La chiamata su Facebook del “Giorno della collera”, che invitava i siriani a scendere in piazza il 4 febbraio si era rivelata un fiasco. C’era molta diffidenza nei confronti dei promotori, in prevalenza siriani all’estero. Si dovettero attendere i primi “effetti concreti” delle rivoluzioni in Tunisia ed Egitto affinché una simile “chiamata” ricevesse una risposta massiva, portando a scendere in piazza centinaia di persone il 15 marzo 2011 (ibid. 685). Erano forse state le proteste in Tunisia ed Egitto ma anche in Libia e Yemen a cambiare la percezione dei siriani rispetto alla loro capacità di far cadere il regime (Leenders, 2013) e a modificare le “strutture di opportunità politiche” nel paese (Lender e Heydemann, 2012) attraverso la creazione di

“nuove finestre di opportunità” e una presa di fiducia (ibid.). Si era assistito a una sorta di

“effetto contagio”, che aveva modificato la percezione del popolo siriano rispetto alla propria capacità di agire e di modificare una situazione politica ed economica spiacevole (Yasin-Kassab e Al Shami, 2016).

Infine, un terzo fattore nello scoppio della rivoluzione siriana fu l’escalation di violenza perpetrata dal regime nella repressione delle manifestazioni pacifiche (De Elvira, 2014;

Yassin-Kassab e Al-Shami, 2016), che culminò in alcuni episodi. Il 15 marzo 2011 le poche centinaia di persone scese in piazza a manifestare vennero represse brutalmente dalle forze del regime: almeno 100 persone in tutto il paese persero la vita e molte altre furono ferite. Nei giorni successivi a Deraa una quindicina di adolescenti vennero arrestati e torturati in seguito a una scritta apparsa sul muro che recitava: “il popolo siriano vuole far cadere il regime”.5 Le famiglie che si presentarono in Commissariato a chiedere spiegazioni furono violentemente

4 Con l’espressione post-Hama l’autrice fa riferimento al massacro avvenuto nella città di Hama nel febbraio 1982 a opera del regime dell’allora Presidente Hafez Assad, quando oltre 20.000 persone furono uccise dalle truppe guidate dal fratello del Presidente. Il massacro costituiva la punizione per un’insurrezione guidata dai Fratelli Musulmani.

5 Al-cha‘ab yurid isqat al-nitham ! »

umiliate; gli fu suggerito di dimenticare i propri figli e di “tornare a casa a farne altri o, se non fossero stati capaci, di portare lì le loro mogli (Yassin-Kassab e Al-Shami, 2016). Questi fatti contribuirono a mobilitare la popolazione di Deraa nel “Venerdi della dignità”, che ne fece la prima “città martire in Siria”. Nei giorni successivi i minorenni arrestati venivano liberati. Ad alcuni erano state strappate le unghie delle mani. Tutti portavano sul corpo segni di tortura.

L’évolution des événements et de la mobilisation fut donc fortement influencée par la modalité de gestion de la crise choisie par le pouvoir, à savoir la répression et l’intransigeance. (Ruiz-De Elvira, 2014: 686)

Secondo Yasin-Kassab e Al Shami (2016) se prima delle migliaia di vittime, uccise dall’esercito e dagli shabbiha,6 durante manifestazioni pacifiche o funerali, le richieste del popolo erano di tipo riformista, furono proprio la violenza sistematica praticata dal regime, l’utilizzo di armi da fuoco contro gente disarmata, l’incarcerazione e la tortura di chiunque fosse sospettato come dissidente (minorenni inclusi) a portare i siriani a chiedere vigorosamente la caduta del regime.

A partir de là, on vit se former des coalitions « trans-classes » et trans-régionales qui dépassaient les identités locales, tribales et régionales très fortes en Syrie. « Wahed, wahed, wahed, al-cha‘ab al-suri wahed » (« un, un, un, le peuple syrien est un »), chantaient les manifestants. Ce slogan, aux effets performatifs, reflétait un moment quasi magique d’union politique contre le dictateur. (Ruiz-De Elvira, 2014: 686).

La configurazione della rivoluzione siriana come fenomeno trasversale rispetto alle classi sociali, alle appartenenze religiose ed etniche era forse la caratteristica più pericolosa per il regime. Robin Al-Kassab e Leyla Al-Shami (2016), autori di Burning Country, attraverso la raccolta di testimonianze oculari dell’accaduto e l’utilizzo di molteplici fonti riescono a de-costruire la narrazione dominante rispetto al conflitto in Siria dando voce a testimoni oculari, ovvero “persone che hanno fatto la storia, e che sono assenti dai resoconti dei media”

(2016:76). Essi inoltre focalizzano l’attenzione sulle strategie utilizzate dal governo in modo da alimentare conflitti settari, secondo il principio divide et impera, distruggendo il carattere trasversale delle rivendicazioni. La rivoluzione siriana era stata presentata all’opinione pubblica come una sorta di “complotto organizzato dall’estero” o come “attacco terroristico al regime”. Questa interpretazione guadagnava credibilità nel quadro di un’assenza, solo

6 La parola, che in arabo significa “fantasma” è utilizzata per indicare delle milizie armate pro-regime.

Secondo le Nazioni Unite esse sarebbero responsabili dei massacri di Houla del 25 maggio 2012 e del successivo massacro di Al-Qubair del 6 giugno 2012, dove persero la vita circa 110 persone di cui circa 50 bambini.

apparente, di rivendicazioni politiche da parte della popolazione siriana prima di quel momento: essa era perfettamente comprensibile alla luce del funzionamento di un regime, fondato sul culto della personalità e sul ricorso sistematico all’incarcerazione e alla violenza.

Presumibilmente il popolo siriano, più che silente, in quanto privo di un discorso politico contrario a quello del regime, sembrava essere soffocato. Fu dunque per riguadagnare la capacità di respirare che si rivoltò contro il regime. Le parole d’ordine, nel marzo del 2011 come cinque anni dopo, nel marzo 2016 quando ancora centinaia di persone scesero in piazza in seguito al cessate il fuoco imposto ai russi, le parole d’ordine erano hurriyeh w karama, libertà e dignità.

1.2. La resistenza pacifica dei Comitati di Coordinamento Locale (LCC) e la

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