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Auto-narrazioni e documentazioni della fuga: chi fugge? E perché?

Voci attraverso l’uscita: focus sulle vie di fuga dalla Siria

1. Voci dei rifugiati: parole e immagini

1.1. Auto-narrazioni e documentazioni della fuga: chi fugge? E perché?

Gli studi post-coloniali focalizzano l’attenzione sui processi di presa di parola delle comunità oppresse o subalterne, nel senso gramsciano del termine. I rifugiati, costretti a lasciare la propria terra e portatori di un bagaglio di perdita e lutto importante, possono essere considerati parte di queste comunità. Nelle narrazioni dominanti e mediatiche, che giustificano politiche di chiusura delle frontiere, esternalizzazione dei controlli e un cosiddetto approccio militare-umanitario, i rifugiati sono vittime, privi di agency, e di potere di scelta: la loro voce entra a far parte delle narrazioni dominanti solo nella misura in cui concorre alla costruzione della loro rappresentazione in termini di vittime. Scopo di questo paragrafo non è quello di proporre i rifugiati come “rivoluzionari” o “membri di movimenti politici”. Eppure, osservando un certo tipo di condotte, che spaziano dalla mobilità attraverso i confini, sino all’organizzazione di sit-in, manifestazioni, scioperi della fame, e

all’organizzazione di azioni di denuncia di violazioni dei diritti umani sui social network è legittimo domandarsi se sia opportuno o meno riconoscerli come soggetti politici.

Eppure il rischio di incorrere nell’ennesima attribuzione di significato da parte del ricercatore è alto. Nel tentativo di eludere questo rischio, si è scelta l’etnografia, quale pratica di ascolto delle voci delle comunità oggetto della ricerca. Durante le interviste in profondità si è cercato di riflettere principalmente sulla relazione tra motivazioni del viaggio verso e attraverso l’Europa, e sulla percezione di sé.

Riguardo le motivazioni del viaggio via mare, riporto una conversazione di un rifugiato con l’ufficiale dell’UNHCR in Egitto. Essa evidenzia l’impossibilità di rientrare nei percorsi di resettlement, e la necessità di affidarsi ai trafficanti.

Io quando stavo in Egitto sono andato all’UNHCR, pensando di pagarli per esempio 5000, 6000, 10.000 euro per avere la possibilità di viaggiare via aerea con un progetto legale. Ho chiesto a questo rappresentante UNHCR se c’era un modo con cui, pagando, si potesse arrivare in Europa per vie legali. Lui m’ha risposto che per fare questo ci sono dei requisiti, cioè devi avere delle caratteristiche. La prima cosa, per esempio devi avere delle ferite di guerra. Che significa questo? Che tu devi essere ferito per fargli vedere che sei veramente fuggito dalla guerra? Aspetta, per esempio loro mi hanno chiesto, tu o uno dei tuoi familiari ha una malattia grave che non si può curare, qui? No, gli ho risposto, no. Tu fai parte di una tribù o una minoranza etnica? No. No, ma io già sono in Egitto, quindi anche se sono di una minoranza etnica non sono più in Siria, quindi non ti posso dire che sono di una minoranza etnica visto che io non sto più in Siria. Perché la guerra contro le minoranze etniche sta in Siria, non in Egitto. Mi chiedeva ma tu hai problemi economici, puoi lavorare, non puoi lavorare? Mi chiedeva delle cose strane, che non sono normali. Tutte le mie risposte erano negative. E allora lui mi ha detto: “è impossibile che ti prendiamo”.

Alla fine gli ho detto, senti, io se voi non mi aiutate dovrò viaggiare via mare pagherò un sacco di soldi, quindi perché non li prendete voi questi soldi e mi fate viaggiare legalmente? Lui mi ha risposto, guarda, i paesi che chiedono di accogliere i rifugiati si comportano in questo modo. Tu sei arrivato nel mio paese? Allora hai il diritto di chiedere asilo. “Ma devi essere giù sul mio territorio. Come sei arrivato, via mare, dal cielo, camminando, nuotando, non ci interessa. L’importante è che tu sia arrivato. E dopo che sei arrivato se ne parlerà.” Mi ha detto “a loro non interessa come sei arrivato o come arrivi.

L’importante è che arrivi.” Io gli ho detto, “questo è un peccato (haram) c’è tanta gente che sta morendo nei viaggi e continua a morire”. E lui mi rispose, “a loro

non importa nulla se muore la gente o se vive. Se arrivi ottieni l’asilo. Se non arrivi sono problemi tuoi.” E penso che questo è vero. Perché appena sono arrivato in Germania mi hanno dato un foglio dove c’era scritto in arabo: “tu ora sei sul territorio tedesco e sei protetto dal governo tedesco e hai il diritto di chiedere asilo.” E quindi che vuol dire? A loro non interessa se io vivo o muoio.

Io non sono forse umano? Il diritto di asilo è un diritto umano. E quindi? Quand’è che divento umano? Quanto arrivo in Germania? Quindi devo rischiare di morire per essere considerato un essere umano?

Il concetto di esseri umani emerge spesso dalle narrazioni dei rifugiati. Esso è spesso connesso a quello di dignità, una delle parole chiavi delle rivoluzioni arabe, karama, in lingua araba. Il mancato riconoscimento per la dignità umana emerge in diverse narrazioni sui viaggi in mare, e nelle descrizioni dei campi profughi, come ad esempio il Zaatari, in Giordania.

Il campo Zaatari era un posto dove un essere umano non può vivere, non c’era nessun rispetto per la dignità umana dentro. [cit.]

Una stessa inadeguatezza ad ospitare esseri umani, letta come un’offesa alla dignità emergeva nelle interviste condotte nel campo di Kara-Tepe a Lesbo.

All’ingresso del campo K. , un giornalista tedesco, scatta una foto, e viene immediatamente ripreso da un signore sulla cinquantina con i capelli bianchi.

“No! No! Please! You can’t! We did not authorized you! Sorry! No!” Prosegue poi in inglese. “Qui tutti vengono a fare foto. Click, click, click e se ne vanno.

Come fossero allo zoo. Ma qui nulla cambia. Noi siamo sempre nella spazzatura.

Voi giornalisti non fate niente.”

“Ma come”, ribatte K., “io ero qui ieri, una ragazza afghana ha avuto un attacco cardiaco e l’ho portata all’ospedale”. “Ma che c’entra!” risponde il signore siriano. “Quello ha a che fare con la tua umanità, non con la tua professione. E comunque mettendoci qui nemmeno un po’ di dignità ci hanno riconosciuto. Non siamo esseri umani per loro. Come bestie ci hanno trattati.” [cit]

Lo stesso signore prosegue nel raccontare la sua condizione di rifugiato. Dalle sue parole emergono le caratteristiche essenziali della condizione, il lutto, la perdita di ogni cosa, nonché la condizione di sopravvissuti e la fuga come unico modo per mettersi in salvo e preservare la propria vita.

“Vedi? Guardaci. Noi siamo scappati dalla Siria perché c’è la guerra. Siamo scappati al fine di mettere in salvo le nostre vite. Di salvare i nostri figli e di trovare un posto sicuro. Vedi, quella donna di spalle che cucina seduta a terra?

Quella aveva una casa bellissima. Non posso spiegarti. E anche io avevo una casa. Ci avevo messo tutta la mia vita a costruirla. E ora? Ora ho perso tutto. Il mio paese. La mia città. La mia casa. La mia famiglia. Il mio lavoro. Ora non ho nulla. Guarda dove siamo? In mezzo alla spazzatura.”

Il discorso cominciato in inglese si perde nell’arabo. L’arabo come lingua madre prevale. Il suo sguardo diretto e determinato dell’inizio si sposta dai miei occhi.

Va lontano. I suoi occhi azzurri si velano di lacrime. Abbasso i miei occhi e sospiro. Evito di piangere. Gli dico, se dio vuole partirete presto. Grazie a dio siete arrivati vivi dalla Siria e attraverso il mare. “Si, grazie a Dio.” Fa eco lui.

“Siamo sopravvissuti due volte”. (Estratto da diario di campo, Campo di Kara Tepe, Lesbo, Mitilene, 14.7.15)

La condizione di rifugiati e sopravvissuti sembrava essere un elemento importante nella comprensione delle motivazioni alla base della volontà di proseguire i viaggi. Essa dava luogo da un lato a una sorta di consapevolezza di “aver passato il peggio” e di “voler andare fino in fondo”.

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