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Richieste di aiuto e denunce: dalla terra e dal mare

Voci attraverso l’uscita: focus sulle vie di fuga dalla Siria

1. Voci dei rifugiati: parole e immagini

1.2. Richieste di aiuto e denunce: dalla terra e dal mare

Uno dei contesti di presa di parola dei rifugiati siriani era quello delle richieste di aiuto riguardo situazioni spiacevoli, o delle denunce di vere e proprie violazioni dei diritti umani.

Di seguito propongo tre esempi: i) il caso dei rifugiati siro-palestinesi detenuti a Karmooz, in Egitto; ii) il caso di un respingimento in mare verso la Turchia; iii) il caso di minori non accompagnati in Calabria.

Chiaramente si tratta di eventi che si pongono a cavallo tra la semplice richiesta di aiuto o denuncia e l’organizzazione di una vera e propria azione collettiva.

La stazione di polizia di Karmooz (Alessandria d’Egitto)

Un primo caso di protesta in cui si è fatto ampio uso di materiale audio-visuale è quella dei rifugiati siriani e siro-palestinesi detenuti nella stazione di polizia di Karmooz (Alessandria, Egitto). Nel 2014, in seguito alla deposizione del Presidente Morsi, la detenzione dei rifugiati, già perpetrata dal Governo Egiziano nei confronti dei cittadini eritrei, etiopi, sudanesi e

palestinesi, venne estesa ai danni dei cittadini siriani e siro-palestinesi arrestati durante tentativi di partenza via mare, veri o presunti, e portati in stazioni di polizia locali (Denaro, 2016b).

Fig. 9 – Stazione di Polizia Al Karmooz (Egitto) - 11.11.2014

Fonte: Foto pubblicata sulla pagina Facebook “Karmooz Refugees”

Nel novembre 2014, in seguito a una discussione tra gli organizzatori di un viaggio sulla rotta turca da Mersin (Turchia) verso l’Italia circa 300 persone furono fatte scendere con la forza in Egitto e detenute per sette mesi in una stazione di polizia, nei pressi di Alessandria (fig.9). I rifugiati siriani in possesso di passaporto vennero deportati in Libano e in Turchia;

coloro che non possedevano un passaporto e i rifugiati siriani di origine palestinese organizzarono invece delle proteste durante la detenzione.

La polizia sta usando metodi di pressione psicologica per farci accettare la deportazione. Tra questi c’è stato quello di mandare 23 persone in carcere, per convincerle a tornare in Siria.[…] In questa stazione di polizia ci hanno messo in tre stanze, una per donne, una per bambini e una per tutti i restanti uomini.

Non ci fanno vedere il sole, solo una mezz’ora ogni mese, quando ci portano sul tetto della stazione e poi ci riportano giù. [intervista a M.D. rifugiato

siro-palestinese detenuto a Karmooz,23.05.2015]

Nel caso dei Rifugiati di Karmooz le proteste e gli scioperi della fame vennero documentati attraverso l’apertura della pagina Facebook (Karmooz Refugees) costantemente

aggiornata con materiale audio-visuale e finalizzata alla costruzione di relazioni con il mondo esterno (in particolare con membri di ONG e giornalisti).101

Fig. 10 - Stazione di Polizia Al Karmooz (Egitto) - 11.11.2014

Fonte: Foto pubblicata sulla pagina Facebook “Karmooz Refugees”

Lo scopo venne raggiunto: gli organizzatori delle proteste riuscirono a costruire legami rilevanti con ONG e giornalisti, e a mantenere alta l’attenzione sul loro caso. Nel mese di maggio 2015, furono finalmente liberati e trasferiti in Germania. La discussione con l’ideatore della pagina riguardo alle immagini condivise, ha confermato i processi di coinvolgimento sempre più diretto dei rifugiati in azioni di advocacy, già riscontrato nella ricezione degli SOS dal mare (Denaro, 2015a) e in altre forme di attivismo nei paesi di destinazione (Newland, 2010).

«Spero che questa pagina Facebook sia l’inizio, uno spunto, un idea, per i rifugiati o i detenuti. Ho visto troppa ingiustizia nei loro confronti. Quando mi hanno spostato nel carcere di Al Qanater ho conosciuto altre persone in situazioni molto peggiori della mia. Rifugiati in carcere da più di un anno, perché non c’è nessun paese che le vuole accogliere e l’Egitto propone solo l’opzione del

101 La pagina è ancora oggi attiva e si occupa di documentare altri casi di detenzione di rifugiati in Egitto. Vedi anche https://www.facebook.com/karmooz48/?fref=ts.

rimpatrio, o il carcere. Persone che stanno in carcere ingiustamente, senza aver commesso alcun reato, per tanti motivi. Cercherò di aiutarli a portare la loro voce fuori, Insh’Allah quando avrò la mia libertà.» [intervista a M.D. rifugiato siro-palestinese, detenuto a Karmooz, 23.05.15].

Due mesi dopo i rifugiati di Karmooz grazie a una mobilitazione internazionale sulla loro causa, riuscivano ad essere liberati e trasferiti in Germania.

Respingimento in mare verso Izmir

Un secondo caso immortala un respingimento in mare verso la Turchia, in seguito a un salvataggio di un’imbarcazione diretta in Grecia. La prassi cosiddetta pushback at sea, attuata in aperta violazione del principio di non-refoulement, ha caratterizzato l’operato di Frontex lungo il confine turco-greco a partire dal 2006 sino all’inizio del 2015 (Amnesty, 2014b;

Archer, 2014; Goodwin Gill, 2011; Pro Asyl, 2013). I migranti si auto-ritraggono in gruppo, donne e bambini inclusi. La disposizione delle persone ricorda quella delle foto di famiglia.

Gli sguardi sono seri. Nella foto, inviata via WhatsApp a N.S. c’è il rammarico di chi ha rischiato la vita “invano” poiché non ha raggiunto la destinazione, e dovrà farlo ancora. C’è inoltre la richiesta di soccorso e d’intervento di “attivisti” per bloccare il respingimento verso Izmir.

Fig.11 – Respingimento verso Izmir seguito da Nawal Soufi SOS e WTM Alarm Phone

Fonte: Foto ricevuta dall’attivista per i diritti umani Nawal Soufi

Le persone a bordo avevano già contattato N.S. per lanciare l’SOS; ella a sua volta aveva allertato anche Watch the Med “Alarm Phone”. Entrambi avevano allertato la Guardia Costiera Greca che non era intervenuta, sostenendo che le acque non fossero di sua competenza. La disposizione delle persone nella foto sembra finalizzata a mostrare il volto di ognuno, bambini inclusi. La dignità che emerge da ogni sguardo si contrappone pertanto alla rappresentazione dei migranti come vittime, cui spesso non viene riconosciuta alcuna identità specifica, bensì solo la qualità di numeri nelle statistiche sui flussi migratori via mare.

Il caso dei minori non accompagnati a Campana

Il 3 gennaio un’attivista A.R. riceveva una richiesta di aiuto via Viber. Si trattava di minori non accompagnati siriani, che in seguito allo sbarco, avvenuto negli ultimi giorni di dicembre, erano stati trasferiti in un centro “per minori” in Calabria, precisamente in località

“Campana”. Grazie al possesso di smartphone i minori riuscivano a comunicare la loro posizione, in quanto il posto era estremamente isolato. La struttura ove erano ospitati era una casa di riposo per anziani, della quale un piano era stato immaginato per ospitare minorenni.

Al momento della richiesta di aiuto inviata tramite due messaggi vocali su Viber, i minori erano soli nella struttura, e volevano proseguire il viaggio verso nord.

“Ho 14 anni sono scappato dalla Siria per non cadere nella morte e nella tortura, per non far parte né dell’esercito del regime, né dei peshmerga, né dell’esercito siriano libero. La polizia italiana ci ha portato dentro una casa di cura per anziani, siamo anche spaventati dal posto dove ci troviamo perché di notte ci sono dei suoni strani e noi abbiamo paura. Siamo scappati da questo posto, abbiamo camminato per un’ora con il freddo, c’era freddissimo, poi ci ha arrestati la polizia. La polizia mi ha buttato a terra.”[…]“Ci hanno alzato le mani, ci hanno menato, ci hanno fatto camminare per quasi un’ora noi a piedi e loro in macchina.

Eravamo su una sorta di monte. C’era freddissimo. C’era la neve. Noi qui siamo terrorizzati. Siamo gli unici minori in tutto questo posto. Qui ci chiudono le porte.

Chiediamo a tutte le organizzazioni umanitarie di intervenire e alle organizzazioni che si occupano dell’infanzia di tutelare la nostra dignità. Noi vogliamo i nostri diritti, vogliamo un futuro migliore, vogliamo studiare e lavorare.”

Anche in questo caso emergeva il concetto di dignità, accostato a una denuncia riguardo l’uso della forza da parte delle autorità di polizia. Il tema della violenza, generalmente quasi assente dalle narrazioni ufficiali dei fenomeni migratori era invece uno dei più ricorrenti nelle

denunce dei rifugiati. Casi di denuncia di violenze subite erano legati al tema delle identificazioni forzate, cui corrispondevano azioni collettive di resistenza pacifica.

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