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L’evoluzione dei regimi confinari: “no legal route out of Syria”

Percorsi di fuga dalla Siria, verso e attraverso l’Europa

2. Vie di uscita dalla Siria : un sguardo sull’asilo nella regione MENA

2.1. L’evoluzione dei regimi confinari: “no legal route out of Syria”

Da un punto di vista geografico la Siria confina con le Turchia a Nord, con l’Iraq a Est e Sud-Est, con la Giordania a Sud, con Israele a Sud Ovest, con il Libano e il Mar Mediterraneo a Ovest.12 Oltre ai confini terrestri era possibile in una prima fase del conflitto abbandonare la Siria per vie aeree: gli aeroporti di Damasco e di Aleppo erano i più frequentati. Ad esempio la via più semplice per raggiungere l’Egitto era quella aerea, e lo rimase sino al golpe che portò il generale Abdelfattah Al-Sisi al potere. In seguito l’unica via di accesso all’Egitto rimase la Giordania. Sempre per vie aeree era possibile raggiungere la Libia, sino al 2014 e l’Algeria, sino all’inizio del 2015. Tunisia e Marocco, che richiedevano sin dall’inizio il visto ai cittadini siriani, erano raggiungibili per vie illegali attraverso l’Algeria e la Libia.

Dei 4,8 milioni di rifugiati che si trovano oggi nella regione MENA circa 2,7 milioni si troverebbero in Turchia, circa 1 milione in Libano, 651.000 in Giordania, 247.000 in Iraq, mentre circa 29.000 si troverebbero tra Libia Tunisia, Algeria e Marocco (UNHCR, 2016b).

Una serie storica riguardo le presenze di rifugiati siriani nella regione MENA tra il 2011 e 2016 sembra utile a cogliere l’evoluzione della mobilità siriana (Tab.1).

Tab.1 – Presenze cittadini siriani nella regione MENA (2011 – 2016)13

Anno/presenze Dic 2011 Dic 2012 Dic 2013 Dic 2014 Dic 2015 Dic 2016 MENA 8.000 452.826 2.299.705 3.211.480 4.390.439 4.810.216 Lebanon 6.290 118.020 845.858 1.150.731 1.070.189 1.017.433 Turkey 8.000 152.981 587.389 1.622.839 2.291.900 2.764.500 Jordan 2.749 105.397 568.501 620.441 633.644 655.833

Iraq 8 65.954 209.460 231.843 244.642 227.971

Egypt 924 10.474 130.720 137.812 117.658 115.204

North Africa - - - - - 29.275

Per ciò che concerne la Libia, la giornalista ricercatrice Nancy Porsia (2013) fornisce uno dei pochi contributi sulla condizione dei siriani nel paese. Nel maggio 2013, secondo fonti governative i rifugiati siriani nel paese erano circa 110.000, ed erano arrivati nei 18 mesi precedenti. Il flusso era cominciato nel dicembre 2011, ovvero verso la fine della rivoluzione

12 Israele non sarà oggetto della presente trattazione in quanto il suo confine non è mai stato valicabile per i profughi siriani.

13 Dati risultanti da una rielaborazione dell’autrice sui dati annuali di UNHCR (2016b). Per ciò che concerne il Nord Africa non sono disponibili serie storiche.

libica. Tra le rotte battute vi erano quelle aeree, dal Libano o dalla Turchia, ma la maggioranza dei rifugiati aveva attraversato via terra la Giordania e poi l’Egitto, mediante il confine nella città di El Salloum.14 In una prima fase i siriani in possesso di passaporto potevano entrare il Libia senza un visto ma, in seguito all’attacco sulla sede della missione diplomatica statunitense a Benghazi, dal settembre 2012 l’accesso era stato concesso solo alle famiglie. Dal gennaio 2013 il confine terrestre da Salloum a Musaid fu chiuso ufficialmente per coloro sprovvisti di visto ma era ancora possibile valicarlo rivolgendosi agli smugglers e pagando circa 500 dollari.

Nello stesso periodo il governo invitava i “fratelli siriani” sprovvisti di passaporto a registrarsi presso l’UNHCR come rifugiati, ma tale registrazione non dava accesso a particolari benefici. Secondo Emmanuel Gignac capo UNHCR Libya, i siriani si tenevano a distanza dalle grandi associazioni di beneficienza siriane, per timore di infiltrazioni governative. Le registrazioni con UNHCR cominciarono nel settembre 2012, e verso la fine di aprile il numero dei richiedenti asilo era di circa 8.000 (Porsia, 2013). Ciò nonostante a causa di un accordo formale con il governo i richiedenti asilo non avevano accesso al processo di Refugee Status Determination (RSD) presso l’agenzia. La maggioranza viveva a Benghazi e a Tripoli in condizioni di vita estremamente precarie e assistiti da alcune associazioni (Al Wafa, Danish Refugee Council, CESVI). Particolarmente critica sembrava essere la condizione delle donne siriane, dette “pecore”, a causa del basso prezzo necessario a contrarvi matrimonio (Porsia, 2013). Uno dei temi emersi durante le interviste era quello della violenza onnipresente, legata al comune possesso di armi, e del senso di insicurezza che ne derivava.

“In Libia ci sono troppe armi. Chiunque ha un’arma, e la utilizza anche per motivi stupidi. Io ho lavoravo per una anno a Sebha. Una volta ho assistito ha una scena impressionante. Due persone hanno discusso per un parcheggio. Uno dei due ha tirato fuori una pistola e ha sparato. Non mi sentivo mai sicura. Infine la missione per cui lavoravo ha lasciato la Libia. Ora la sede operativa è in Tunisia.

(Intervista a I.M, mediatrice culturale per DRC, Tunisi, 23 novembre 2014).

Riguardo la Tunisia, secondo Alilat e Dahmani (2014) alla fine del 2013 la presenza di cittadini siriani si aggirava intorno alle 2.500-3.000 presenze; di questi solo 164 avevano effettuato la registrazione “in quanto tali”. Secondo il responsabile dell’ufficio stranieri tunisino, ciò era dovuto alla paura di rappresaglie al ritorno in patria e al fatto che la legge tunisina non prevedesse alcun sistema di protezione internazionale. Sempre secondo gli autori

14 Le dinamiche di apertura e chiusura del confine di Salloum saranno trattate successivamente, nel capitolo IV.

la modalità di ingresso in Tunisia prevalente era attraverso vie irregolari, in quanto il paese aveva introdotto l’obbligo di visto.

“Pagando mediamente 300 euro a persona, essi fecevano ingresso clandestinamente, a Feriana, alla frontiera tra Algeria e Tunisi […] Dopo una breve tappa a Kasserine o al Kef la maggior parte di loro ripiegava su Tunisi.

Isolati e senza sussidi, essi avevano finito per raggrupparsi secondo la loro regione di origine e i loro legami familiari” (Alilat e Dahmani, 2014).

Alcuni casi di detenzione di cittadini siriani presso il carcere di Al Wardiya (Tunisi) sono stati testimoniati. In alcuni di essi alla detenzione sarebbe seguita la deportazione verso la Turchia.

Ero all’aeroporto di Tunis Carthage vedo un gruppo di circa 100 persone in fila.

Sento dall’accento che non sono tunisini. Mi avvicino. Suriin entum? Naam. Shu sar? Rahin….aala Turkia Alesh? Siete siriani? Che succede?...Andiamo in Turchia!, Chiedo, perché? Ma non faccio in tempo a terminare la frase che vengo ammonito da un poliziotto che grida: “Ijja Ijja, ya muaallim! Ech t3amel ya wild?

Vieni qui! Non puoi parlare con loro. Che fai? E mi hanno arrestato.

Fortunatamente mi hanno rilasciato in tempo per prendere l’aereo (Intervista con K.W, 2.5.2014).

Il 14 settembre 2015 il segretario di stato incaricato degli affari dell’immigrazione e dell’integrazione sociale, Belgacem Sabri, aveva dichiarato in una conferenza stampa che in Tunisia erano presenti circa 4.000 rifugiati siriani, e che la capacità massima di ospitalità era stata raggiunta (Tunisie Numerique, 2015). Secondo il segretario la maggioranza di questi beneficiava allora di copertura sociale, cure gratuite negli ospedali ed educazione pubblica.

L’Algeria ha avuto un ruolo chiave negli spostamenti dei Siriani nell’area del Nord Africa.

Grazie alle buone relazioni diplomatiche tra il presidente algerino Bouteflika e Bashar Al-Assad, la rotta aerea Siria-Algeria era decisamente battuta: esistevano 3 voli al giorno, poi ridotti ad 1. L’ingresso in Algeria per i cittadini siriani non necessitava di visto sino all’inizio del 2015.

Secondo i dati rivelati dal Ministro della Solidarietà Nazionale, Mounia Meslem il 9 settembre 2015 al quotidiano Echorouk, circa 24.000 rifugiati siriani sarebbero stati accolti in Algeria dallo scoppio della guerra nel 2011 (Huffington Post Algerie, 2015). Nel 2012 il governo aveva aperto un campo profughi, nella località di Sidi Frej, lungo il litorale di Algeri, gestito dalla Croce Rossa Internazionale e il numero di pasti inizialmente forniti era di circa

3.700 (Tlemçani, 2012). L’1 agosto 2012 il quotidiano El Watan dichiarava la presenza di circa 12.000 siriani nel paese (Niar, 2012). Alilat e Dahmani (2014) visitavano il campo circa un anno e mezzo dopo, e riportavano la presenza di circa 12.000 persone all’interno di tende da campeggio, tra cui sole donne, minori e anziani. Gli uomini erano stati spostati a Ain Taya, circa 22 km all’est della capitale (ibid.). All’epoca la presenza totale di cittadini siriani del paese era stimata tra le 25.000 e 30.000 unità, in condizioni di vita molto precarie.

In realtà l’Algeria era immaginata da molti cittadini siriani come un paese di transito, dal quale accedere in Marocco e tentare l’ingresso in Europa attraverso le enclaves. Il viaggio avveniva dagli aereoporti di Damasco o Aleppo verso Algeri e, in seguito a un transito di poche settimane si accedeva al Marocco attraverso la frontiera di Maghenia e ci si dirigeva verso Oujda. L’attraversamento irregolare della frontiera algero-marocchina da parte dei siriani aveva causato all’inizio del 2014 un vero e proprio incidente diplomatico. Molte famiglie erano state rimpallate da una frontiera all’altra, mentre i governi si accusavano mutualmente di “cospirazione”. Alla fine il Marocco diede un giro di vite: nel mese di marzo 21 siriani furono arrestati a Saidia, alla frontiera algerina (ibid.).Nel 2016 in Marocco, i cittadini siriani registrati con UNHCR non superavano le 3000 unità (Bahadi, 2016). Numeri maggiori rispetto a quelli pubblicati dalla stessa agenzia nell’agosto 2015, in cui si parava di 1.763 siriani registrati in Marocco, circa 453 famiglie (UNHCR, 2015b). Nel contesto della regolarizzazione lanciata dal Governo marocchino nel 2014, ove furono registrate circa 27.335 domande presso l’Ufficio per Stranieri del Ministero dell’Interno, di cui solo 17.916 furono accettate, fonti informali dichiararono la presenza tra queste di circa 5.000 domande presentate da parte di cittadini siriani (ibid.) Dall’agosto 2014, 302 siriani vennero inviati a registrarsi con l’ufficio UNHCR di Rabat attraverso un meccanismo di invio messo in atto attraverso il partenariato con Organization Marocain des Droits de l’Homme (OMDH) e altre NGOs in Oujda (ibid.).

L’evoluzione dei regimi confinari dei paesi appartenenti alla regione MENA, ha avuto un ruolo fondamentale nella configurazione dei percorsi di uscita dal paese e delle successive traiettorie di mobilità, intra ed extra-regionali. I dati disponibili in merito alle presenze di cittadini siriani nell’area MENA (UNHCR, 2016a), vanno interpretate proprio alla luce di tale evoluzione, nonché delle condizioni di vita dei rifugiati in ciascun paese, che saranno trattate nel paragrafo successivo.

Per ciò che concerne l’evoluzione dei regimi confinari dei paesi Mediorientali, è possibile individuare come denominatore comune una iniziale politica di “porte aperte” nei confronti della popolazione siriana. Tale politica fu successivamente, caso per caso, rivisitata e modificata sia a causa delle proporzioni dell’esodo rispetto alle capacità ricettive di ciascun paese, sia per motivazioni politiche di difficile interpretazione. La tabella sottostate (Tab.2) presenta sinteticamente le evoluzioni delle politiche dei visti dei paesi della regione MENA

nei confronti di cittadini Siriani. Tali dati, fondati sull’analisi delle variazioni normative avvenute nel periodo in analisi, non sono comunque sufficienti a dar conto delle difficoltà di uscita dalla Siria. In primo luogo va sottolineato come la Siria ospitasse un alto numero di Palestinesi, per i quali i paesi limitrofi hanno messo in atto politiche di accesso differenti, molto più restrittive. Inoltre, va tenuta in considerazione la discrepanza tra normative e loro applicazione e la presenza di un alto livello di discrezionalità delle forze dell’ordine. Il caso della chiusura del confine giordano nel giugno 2013, che sarà trattato nel paragrafo successivo, fornisce un esempio di come una politica di “open borders” sulla carta possa non essere sufficiente a garantire la mobilità delle persone. A questo caso si associano le dispute tra Algeria e Marocco, o i rimpatri di cittadini siriani verso la Turchia, effettuati occasionalmente dalle autorità Marocchine, Tunisine, Libiche, Egiziane, nonostante l’assenza di un’accordo ufficiale e pubblico che li autorizzasse. Politiche confinarie informali ma comunque effettive e in grado di condizionare l’esistenza delle persone, nonché il loro accesso a determinati territori e diritti.

Tab.2 – Evoluzione politiche di visti richiesti ai cittadini siriani – regione MENA (2011 – 2016)15 Anno/ Paese

A partire dall’inizio del conflitto le vie di fuga maggiormente battute dai cittadini siriani prevedevano l’ingresso in Libano e in Turchia. La fuga verso la Turchia cominciò nel giugno 2011, quando circa 8.000 persone valicarono il confine in seguito all’assedio da parte del regime della città di Jisr al-Shughour (EUI, 2016; Yassin-Kassab&Al Shami, 2016). La

15 La tabella si basa sull’analisi di numerosi articoli di giornale dei Paesi presi in esame, che sono comunque presenti in bibliografia. Tali dati sono stati confermati dai rifugiati durante le interviste in profondità.

Turchia aveva proclamato una politica di “open doors” nei confronti dei “fratelli siriani” e lo stesso, attraverso strumenti comunicativi differenti, avevano fatto il Libano, la Giordania, l’Egitto, l’Iraq e la Libia. Nell’aprile 2012 oltre 2.500 rifugiati attraversarono il confine turco-siriano in un solo giorno a causa dell’inasprirsi dei combattimenti tra rivoluzionari e forze regolari siriane. In quell’occasione i rifugiati siriani e i ribelli dichiararono che le forze di regime riempirono di mine la strada lungo il confine, in modo da impedire la fuga dei rifugiati e l’arrivo di convogli con aiuti umanitari e cure mediche (EUI, 2016). La fuga raggiunse un nuovo picco nel mese di luglio 2012 in seguito ai combattimenti di Aleppo, che dista solo 50 km dal confine: circa 200.000 persone dovettero lasciare le proprie case e diverse migliaia si diressero verso la Turchia. Nell’anno successivo il flusso di profughi siriani verso la Turchia proseguì senza particolari restrizioni. Fu nel 2013 che, giustificandosi con la necessità di protezione rispetto agli scontri tra ribelli, curdi e tribù arabe il governo turco decise, nonostante le proteste, di costruire un muro di due metri al confine con la Siria, nel distretto di Nusaybin (EUI, 2016). Ciò nonostante gli ingressi di siriani in Turchia proseguirono raggiungendo un ulteriore picco nel settembre 2014, quando circa 130.000 curdi siriani varcarono il confine in seguito agli attacchi dell’ISIS nei nei confronti dei villaggi del confine turco-siriano. Nel mese di ottobre la città turca di Suruc aveva raddoppiato la sua popolazione ospitando circa 400.000 persone, giunte in seguito all’assedio di Kobani (EUI, 2016).

All’epoca la Turchia ospitava circa 1 milione 600 mila rifugiati che, secondo il report pubblicato da Amnesty International (2014) dal titolo “Struggling to survive”, vivevano in condizioni di vita al limite del rispetto dei diritti fondamentali.

Secondo le testimonianze raccolte da Human Rights Watch (2015a) l’accesso dei profughi siriani in Turchia era già fortemente limitato da prima dell’agosto 2015: da interviste condotte nel mese di ottobre, emergeva una sorta di “sapere comune” diffuso tra i profughi siriani, secondo cui l’unica via di attraversare il confine era rivolgersi a trafficanti.

“They said that hundreds – and on some days, thousands – of Syrians were amassed in the area, waiting to cross by night. Many said they had to wait for up to a week before smugglers told them it was safe to try. Interviewees said groups scattered when they heard border guards shooting, resulting in separation of relatives, including children from their parents. They also described how difficult it was to cross the hilly terrain in the dark. In some cases, elderly people fell down steep inclines. One woman said she saw an old man die after such a fall.

Some groups used women’s veils to create makeshift ropes to pull women and children up particularly steep hills. Interviewees said they had told their vulnerable relatives back home to stay in Syria because the crossing would be too difficult.” (HRW, 2015a)

Sempre secondo Human Rights Watch (2015a), nonostante le chiusure di confine sporadiche che avvenivano già nel 2014, i siriani continuarono a entrare in Turchia, con e senza documenti di identità, sino al marzo 2015. In seguito ai cambiamenti annunciati il 1 gennaio 2015, riguardanti l’obbligo di presentazione di un documento di viaggio in corso di validità per poter valicare il confine, i due valichi di frontiera ufficiali, ovvero quello di Cilvegözü/Bab al-Hawa vicino Reyhanlı, circa 30 kilometri a est di Antakya, e il valico di Öncüpınar/Bab al-Salama vicino Kilis, circa 50 kilometri a sudest di Gaziantep, vennero definitivamente chiusi.

Fig.2 - Syrian refugees run away as Turkish soldiers use a water cannon to move them back from fences at the Turkish border near the Syrian town of Tal Abyad, on June 13, 2015.

Bulent Kilic / AFP / Getty Images

Nel mese di giugno 2015 almeno 25.000 persone in fuga dai combattimenti di Tal Abyad riuscirono a entrare in Turchia aprendo una breccia nel confine turco vicino Akçakale, 50 km a sud di Urfa, dopo essere stati respinti dalle autorità turche con spari e cannoni d’acqua (Taylor, 2015, Fig.2).

I casi di respingimenti collettivi in seguito a detenzioni in caserme vicino al confine, e di violenze nei confronti dei profughi siriani crebbero progressivamente di pari passo con l’introduzione di misure restrittive dell’accesso, e dell’obbligo di visto (8 gennaio 2016) volte alla chiusura definitiva del confine, avvenuta poi nel 2016 come conseguenza diretta degli accordi tra Turchia e Unione Europea, siglati in marzo (Hurriyet Daily News, 2016).

L’escalation di violenza culminò pestaggi e uccisioni di rifugiati siriani da parte dell’esercito turco che al tempo della scrittura risulta ancora in corso. In un video diffuso da

Human Rights Watch (2016) sono documentate le violenze subite dai rifugiati tra il 27 e il 28 marzo, poi il 7 e 22 aprile e nei giorni successivi, e mostrati i corpi senza vita di alcuni di loro. La storia si ripeteva il 10 maggio, il 19 giugno, quando perdevano la vita anche molti bambini. Chiaramente si tratta di violazioni dei diritti umani fondamentali oltre che del principio di non refoulement, dal momento che la Siria non è in alcun modo da considerarsi un paese sicuro.

Procedendo a ritroso dal punto di vista cronologico si incontra la “chiusura delle porte” da parte del Libano, avvenuta nel gennaio 2015 a causa di un giro di vite legislativo effettuato dal Governo Libanese, che ha reso l’accesso al paese per i cittadini siriani quasi impossibile, (ECHO, 2016). Nuove politiche giustificate da due necessità dichiarate: “garantire sicurezza”

e ridurre il peso “economico” sulla popolazione, causato dalla presenza dei siriani. A tal fine il Governo libanese annunciò l’introduzione di una nuova politica di ingressi, secondo la quale tutti i cittadini siriani avrebbero dovuto giustificare “il motivo della loro visita” per poter accedere mentre sino al gennaio 2015 i siriani che riuscivano ad attraversare il confine potevano risiedere in libano per 6 mesi. L’introduzione delle nuove misure non chiariva la posizione dei numerosi siriani residenti in Libano e non registrati presso l’UNHCR (EUI, 2016).21 Il risultato fu una decrescita significativa degli ingressi e una sorta di vera e propria chiusura del confine per le persone in fuga dalla guerra. Per ciò che concerne i siro-palestinesi le difficoltà di accesso al Libano erano già presenti sin dalla primavera del 2013 (ECHO, 2016a). Prima di queste modifiche normative l’ingresso dei Siriani in Libano avveniva nel quadro di un accordo bilaterale siglato nel 1984 secondo l’accesso e la permanenza nel paese per 6 mesi, prolungabile a un anno, non necessitava di visto bensì solo di un documento di identità in corso di validità (Un ponte per 2016).

Il Libano, che nel 2016 ospita ancora circa un milione di cittadini siriani, era stato nell’aprile 2011 la prima destinazione della loro fuga: la “crisi dei rifugiati” si apriva con la fuga di circa 5000 persone in seguito ai combattimenti di Talalakh, attraverso un valico di confine non ufficiale, prima utilizzato per il traffico di beni (EUI, 2016). Durante il 2011 i rifugiati si installavano prevalentemente nelle città del Nord del Libano, quali Wadi Khaled e Tripoli. A partire dal mese di marzo 2012 la valle della Bekaa divenne la principale zona di residenza dei rifugiati siriani in fuga dai combattimenti in atto a Homs, Quseir, Zabadani e Hama. Si tratta di una regione molto povera che vive prevalentemente di agricoltura; i rifugiati si installarono nelle città o in campi autocostruiti sulle colline. Un nuovo picco di ingressi in Libano fu registrato presso il valico di Masnaa nel mese di luglio, in seguito al grande esodo seguito ai combattimenti di Damasco: le forze di regime assediarono la città

21 Secondo la timeline costruita dall’European University Institute (EUI, 2016) la registrazione dei rifugiati siriani era stata intrapresa dal governo libanese solo il 4 gennaio 2013, in seguito a un dibattito che aveva diviso la società civile libanese.

costringendo quasi 40.000 rifugiati alla fuga in pochi giorni, in seguito alla morte di alcuni ufficiali di sicurezza e il cognato del Presidente Bashar in un’esplosione (18 luglio, 2012). A marzo 2013 l’agenzia delle Nazioni Unite Bushra dichiarava che il numero dei rifugiati siriani in Libano aveva già raggiunto il milione e, circa un anno dopo, nell’aprile 2014, 1 persona su 5 in Libano era un rifugiato siriano.

costringendo quasi 40.000 rifugiati alla fuga in pochi giorni, in seguito alla morte di alcuni ufficiali di sicurezza e il cognato del Presidente Bashar in un’esplosione (18 luglio, 2012). A marzo 2013 l’agenzia delle Nazioni Unite Bushra dichiarava che il numero dei rifugiati siriani in Libano aveva già raggiunto il milione e, circa un anno dopo, nell’aprile 2014, 1 persona su 5 in Libano era un rifugiato siriano.

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