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Assistenza Infermieristica al Paziente in fase terminale

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Academic year: 2022

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Università degli Studi di Messina Dipartimento di Economia,

Sociologia, Matematica, Statistica

“V. Pareto”

Sezione di Economia e Finanza

Facoltà di Medicina e Chirurgia

MASTER UNIVERSITARIO DI PRIMO LIVELLO IN

MANAGEMENT PER LE FUNZIONI DI COORDINAMENTO NELLE PROFESSIONI SANITARIE

Direttore: Prof. Giuseppe Sobbrio

Assistenza Infermieristica al Paziente in fase terminale

Tesi di:

Letteria Dottore

Relatore:

Prof.ssa Anna Maria Velardo

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INDICE

Introduzione pagina 3

1. Malattia terminale pagina 7

2. Assistenza infermieristica e psicologica

del malato terminale pagina 11

3. I bisogni del morente pagina 21

4. La comunicazione con il paziente terminale pagina 27 5. Relazione di aiuto e counseling pagina 40

6. Il controllo del dolore pagina 51

7. Cure palliative pagina 74

8. La famiglia del paziente pagina 80

9. Il decesso del paziente in reparto:

ruolo dell’infermiere pagina 85

10. La morte nel Codice Deontologico

dell’infermiere pagina 98

Conclusioni pagina 108

Bibliografia pagina 112

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INTRODUZIONE

Da sempre l’uomo assiste l’altro uomo, tutta la storia dell’uomo è la storia dello “stare vicino”, vicino alla sofferenza, vicino al dolore.

Le professioni sanitarie in genere, e quella infermieristica in particolare, hanno come compito sociale quello di intervenire su questo fronte, hanno il dovere professionale di accompagnare il paziente in tutte le fasi della sua malattia, soprattutto in quella terminale. L’infermiere è la figura dell’equipe che vede quotidianamente l’ammalato, che entra in relazione con lui cercando di rispondere a tutti i suoi bisogni, cogliendo tutte le eventuali modificazioni, attraverso l’osservazione e l’ascolto, che devono essere tesi, non solo alle parole, ma anche ai gesti, alle espressioni ed ai silenzi. Più di qualsiasi altra figura sanitaria l’infermiere entra nelle dinamiche relazionali per il fatto che è la persona che sta a contatto con il malato per più lungo tempo e in via più diretta, perciò rappresenta per il malato una importante figura di riferimento. Sono gli infermieri che vedono

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maggiormente il suo soffrire di giorno di notte, sono loro che si intrattengono in camera a parlare.

Curare è un compito difficile. Non ci si improvvisa curanti, ma si impara a diventarlo, non soltanto attraverso l’apprendimento di tecniche specialistiche: accanto al sapere inteso come conoscenza scientifica della malattia e delle possibilità di affrontarla e combatterla, ai curanti viene richiesto di “saper fare” e di “saper essere”. La difficoltà di tutto ciò si aggrava quando il malato attraversa la fase terminale, quando il processo di malattia si fa irreversibile e guarire diventa impossibile.

Per esempio il paziente oncologico, più di ogni altro malato convive con l’idea della morte prima ancora che questa sia realmente prossima, per questo spesso di fronte ad un malato di cancro la gente scappa, gli amici scappano, i familiari compatiscono. Gli stadi avanzati di malattia e la fase terminale rappresentano uno dei momenti più difficili, per questo l’assistenza dovrebbe basarsi sulla conoscenza dettagliata dei reali bisogni fisici e psicologici del malato.

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A questo mira la mia tesi, per fa si che tutti coloro che si trovano in un fase verso la morte abbiano una giusta assistenza, ma soprattutto abbiano una morte dignitosa, e quando la medicina e la tecnica non possono più far guarire, io infermiere posso fare ancora qualcosa per la persona.

Diventare sensibili ai bisogni del morente, significa comprendere che necessita di una buona assistenza, egli ha bisogno di calore umano, rispetto e coraggio per superare tutti i problemi che nascono dentro di lui nella coscienza della morte: è difficile per tutti accettare l’idea della fine della propria esistenza.

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“Io infermiere mi impegno a starti vicino quando soffri, quando hai paura, quando la medicina e la tecnica non bastano.” (Patto infermiere cittadino - 1996)

“L’infermiere sostiene i familiari dell’assistito in particolare nel momento della perdita e nella elaborazione del lutto” (Codice deontologico - 1999)

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1. MALATTIA TERMINALE

La malattia terminale è quella condizione patologica la cui evoluzione è verso la morte a non lunga scadenza, come diretta conseguenza della malattia.

Il paziente si può definire terminale quando in lui, nei suoi familiari e nei curanti comincia a farsi strada l’idea della morte quale diretta conseguenza della malattia.

La malattia è una delle situazioni più frustanti della vita, ha sempre un riflesso acuto sulla personalità: la mette in crisi e la rivela nella sua autenticità, spogliata da tutte le maschere. Il soggetto malato è coinvolto in tutto il suo essere, la sua identità, il suo ruolo sociale, il mondo affettivo.

Per quanto riguarda la fase terminale della malattia ci si riferisce a quella fase avanzata, in cui non è più possibile pensare ad una guarigione e la prospettiva è rappresentata dalla morte. La fase terminale potrebbe essere definita come quella che ha inizio nel momento in cui il medico dice “non c’è più niente da fare”, dato che il paziente non risponde più ai trattamenti intesi a prolungare la vita e che è entrato in un periodo in cui è ormai

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evidente l’inguaribilità, e per il quale le cure specifiche sono passate al trattamento palliativo.

Tale periodo non riguarda solo le ultime ore di vita, ma è impossibile collocare in una dimensione temporale la situazione di irreversibilità clinica che sembra coprire varie settimane e talora mesi o anni.

La malattia terminale è un processo che evolve gradualmente, non un evento statico. Per il malato vengono a crearsi nuovi bisogni, nuove abitudini, un nuovo stile di vita ed essendo questi bisogni di natura diversa, è corretto affrontarli con un approccio multidisciplinare, utilizzando specifiche competenze e figure diverse, che si propongono l’obiettivo comune di apportare un miglioramento della qualità di vita dell’ammalato e l’accompagnamento ad una morte dignitosa.

Il mondo del malato terminale si basa sul bisogno di sapere che non verrà abbandonato quando la medicina scientifica ha perso ogni capacità di tenere lontano la morte.

La morte di una persona giovane o un bambino sconcertano di più di

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conclusione di un ciclo vitale. Una persona che muore tra grandi sofferenze turba di più di una che muore rapidamente senza grandi dolori fisici.

La sofferenza, il progressivo deterioramento delle condizioni psichiche e fisiche ripropongono, infatti, in maniera molto cruda tutta la drammaticità della malattia, della lenta attesa della morte, della sopportazione del dolore, della coscienza più o meno chiara della fine della propria esistenza terrena.

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2. ASSISTENZA INFERMIERISTICA E PSICOLOGICA DEL MALATO TERMINALE

La realtà della malattia in fase avanzata e terminale si presenta complessa e multidimensionale; i diversi aspetti, sia organici che psicologici, sono strettamente intrecciati tra loro e vengono vissuti con molta intensità dal malato, dai familiari e dal personale sanitario. In genere, gli aspetti organici sono posti in primo piano mentre la dimensione psicologica viene lasciata in secondo piano e vissuta principalmente come

"effetto collaterale" della malattia. Questa strategia di intervento rischia di occultare situazioni che possono avere una rilevanza cruciale nella comprensione delle dinamiche che accompagnano la malattia. In altri termini, la mancata considerazione degli aspetti psichici ed emozionali, nel corso delle diverse fasi della "crisi" provocata dalla malattia, rischia di amplificare i sentimenti di disagio, solitudine e dolore non solo del malato

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e del suo contesto familiare, ma anche dell'infermiere che si occupa dell'assistenza al malato terminale.

Nell'assistenza infermieristica al malato terminale, si assiste all'instaurarsi di una situazione particolare che vede da una parte il malato (il più delle volte tenuto all'oscuro delle sue reali condizioni) alla prese con sentimenti di confusione, rabbia, solitudine destinati a non essere compresi e contenuti, dall'altra i familiari, a loro volta travolti da emozioni di non facile gestione ed espressione, e dall'altra ancora l’infermiere spesso impreparato a gestire le forti emozioni suscitate dalla malattia terminale.

Successivamente vi sono incomprensioni, conflitti, vissuti abbandonici, sensi di colpa, ecc. In particolare, le profonde emozioni attivate dall'assistenza di un malato terminale mettono a dura prova le capacità dell’infermiere, non solo da un punto di vista professionale ma anche e soprattutto sotto il profilo psicologico ed emotivo.

Il dover intrattenere rapporti con un intero nucleo familiare significa avere in carico le emozioni di tutti i membri della famiglia ma soprattutto

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di sfiducia verso l’infermiere e tutta l’equipe sanitaria che lo assiste. Per questo l’infermiere deve far si che l'attenzione da parte degli altri operatori venga posta non solo prevalentemente sulla malattia e sugli aspetti tecnici e concreti ma anche sulla persona del malato; non facendo in questo modo, i sintomi ed il dolore che affliggono il malato e ne limitano la qualità della vita e spesso non sono compresi nella loro globalità psicosomatica, nella loro continua interazione con la personalità, le risorse e i bisogni del paziente.

Ruolo_dell’infermiere

La competenza psicologica dell’infermiere è molto importante per poter cogliere le dinamiche operanti in diverse situazioni e contesti, ma soprattutto per sviluppare negli operatori e nelle famiglie la capacità di saper contenere ed elaborare tensioni e sofferenze nel modo migliore possibile.

La preparazione psicologica dell’infermiere permette può permettere di svolgere una funzione di base sicura a cui il paziente e la famiglia può

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appoggiarsi, al fine di poter raggiungere un maggior adattamento alla malattia ed un miglioramento delle comunicazioni intrafamiliari, ma anche favorire l'elaborazione ed il controllo delle dinamiche psicologiche ed emotive dell’equipe assistenziale. Quest'ultimo, è forse il compito più gravoso, in quanto gli operatori si trovano spesso soli ad affrontare l'ansia che gli deriva dal confronto con la morte e con la sofferenza dell'altro, in un continuo conflitto tra l'illusione di immortalità e l'evidenza della finitudine, tra il proprio bisogno di ottemperare alla propria professione ed il dover accettare la propria sconfitta. Inoltre, il contatto quotidiano con malati che evocano l'immagine della morte, con la sofferenza e la disperazione dei familiari che viene scaricata sull’infermiere, provoca usura, attenuazione dell'impegno, crisi depressive.

L’assistenza psicologica al malato terminale

Nel corso dell'assistenza al malato terminale, la famiglia e l'infermiere rappresentano due poli che, nel momento in cui vengono in

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l'iter assistenziale. Questo intervento ruota intorno ad un terzo polo, rappresentato dal malato terminale, che si trova alle prese con la crisi più grande è più importante di tutta la sua vita e che si differenzia da ogni altro paziente per lo svilupparsi e l'aggravarsi di quella particolare sofferenza che è stata definita come "dolore totale". In altri termini, la vicinanza della morte ed il precipitare delle condizioni fisiche indicano un progressivo modificarsi di ogni connotazione personale: l'identità corporea, il ruolo sociale, lo status economico, l'equilibrio psicofisico, la sfera spirituale, il soddisfacimento dei bisogni primari.

Il malato terminale, inoltre, è anche un morente e quindi ai bisogni del malato si aggiungono i bisogni del morente. Questi è, dunque, il principale protagonista di un processo vitale complesso che si svolge nel tempo e coinvolge in modo totale le diverse aree dell'esistenza. In tal senso, l’assistenza infermieristica va colta nella sua dimensione globale ed olistica e deve necessariamente collocarsi al servizio della soggettività del paziente, spostando l'attenzione dalla malattia alla persona del malato ed ai suoi bisogni.

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Collocare al centro dell'assistenza infermieristica la persona del malato, significa prendere in considerazione i diritti inalienabili di ogni essere umano, riconoscendo, quindi, nel paziente terminale: a) la sua dignità di persona ed i problemi relativi al suo stato, nel pieno rispetto dei suoi diritti e delle sue convinzioni etiche e/o religiose; b) i bisogni psicologici ed emotivi che, tenendo conto delle differenze individuali, investono: la certezza di non essere abbandonato, la sicurezza di ricevere le necessarie cure mediche, la possibilità di essere considerato un soggetto in grado di ricevere informazioni regolari, comprensibili e credibili, la certezza di poter ottenere, accanto ad una assistenza sanitaria, la necessaria attenzione sia in termini di ascolto che di presenza.

Il rispetto di questi bisogni va considerato come parte integrante dell'intervento dell'équipe, ma indubbiamente l’infermiere può, in modo più specifico, accogliere e contenere l'espressione di queste esigenze stando vicino al paziente.

E' importante sottolineare come l'intervento dell’infermiere debba

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imposizione di un sostegno non gradito, nel riconoscimento della fondamentale libertà da parte del sistema familiare, nelle sue diverse componenti, di poter far richiesta o meno di un aiuto psicologico; 2) tenere sotto controllo i propri bisogni e le proprie dinamiche personali che, se non riconosciute, possono contribuire a creare una interferenza nel dialogo tra il paziente e la famiglia. In altri termini, l’infermiere non deve sostituirsi alle figure più significative del paziente, cercando, in una sorta di relazione esclusiva con il malato, di soddisfare i propri bisogni di protagonismo.

L’infermiere, può eventualmente porsi come mediatore della relazione talvolta interrotta, a causa della "congiura del silenzio" che spesso avvolge il malato, talvolta carente per via delle difficoltà, sia del malato che dei familiari, nell'affrontare le questioni sospese, i non detti, le gesta incompiute.

L'azione di facilitazione e mediazione può contribuire ad aiutare pazienti e famiglie ad apprezzare, pur nella drammaticità della situazione, le esperienze positive, in termini di relazione e comunicazione, che è possibile sperimentare quando si è o si vive con un malato grave.

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La malattia terminale, che possiamo considerare una esperienza di confine e di "verità", può permettere ai diversi protagonisti di vivere ogni momento in modo significativo, consentendo loro di accettare più facilmente la propria situazione e, per quanto riguarda i malati, di aver meno timore di lasciare la vita:

"nessuno può preparare qualcun'altro alla morte; è possibile però

"preparare" alla vita e questa preparazione consiste proprio nell'abituarsi a riempire il proprio tempo con comportamenti umanamente validi".

Modalità dell’assistenza

Dopo aver preso in considerazione le aree di intervento è necessario definire più specificamente le modalità proprie di un approccio infermieristico - psicologico nel campo dell'assistenza ai malati terminali.

Per quanto riguarda l'attività specifica con le famiglie e con i malati, l'infermiere ha il compito di raccogliere informazioni sulla storia, organizzazione e dinamiche relazionali della famiglia; verificare la

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con l'assistenza infermieristica; verificare la presenza di eventuali fattori di rischio a carico dei familiari sia nel corso dell'assistenza che, in prospettiva, a seguito della morte del paziente. Queste informazioni sono molto utili, in quanto permettono all’infermiere di conoscere il paziente e di comunicare in modo adeguato.

Conoscere bene il proprio paziente significa parlare con lui, avere il modo e le abilità comunicative che consentano di sostenere e promuovere il dialogo anche qualora la drammaticità della situazione lo renda difficile da sostenere. Infermieri e medici si trovano ogni giorno di fronte a tali situazioni e non possono da soli essere investiti di una così grande responsabilità: devono essere loro stessi aiutati e sostenuti per poter parlare ed aiutare.

In qualche modo la fase terminale può essere considerata come un cammino di lutto dalla vita, una presa di coscienza graduale.

Il malato, per raggiungere questa dolorosa consapevolezza e per arrivare ad elaborare il cambiamento, ha infatti bisogno di tempo, un tempo, però, dato all’interno della relazione, di una dimensione dove la

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comunicazione ed il dialogo permettano di maturare dei passi in un cammino di adattamento alla situazione.

E’ quel percorso che porta alla possibilità di accettare il proprio morire.

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3. I BISOGNI DEL MORENTE

La vicinanza della morte ed il precipitare delle condizioni fisiche inducono un progressivo deteriorarsi di ogni connotazione personale:

l’identità corporea, il ruolo sociale, lo status economico, l’equilibrio psico - fisico, la sfera spirituale, il soddisfacimento dei bisogni primari.

E’ proprio a partire da questo contesto che gli attuali approcci assistenziali sentono la necessità di spostare l’attenzione maggiormente verso la persona e i suoi bisogni, piuttosto che nei confronti della malattia stessa.

Facendo emergere i bisogni del paziente oncologico il ruolo e le responsabilità infermieristiche acquistano una particolare importanza in quanto attivamente coinvolte per migliorare la qualità di vita indipendentemente dalla prognosi.

In una medicina che non può più avere come obiettivo la guarigione, ma il mantenimento della miglior qualità di vita l’attenzione deve essere spostata sulla persona e i suoi bisogni.

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E nel malato terminale vengono a crearsi nuovi bisogni, uno stile di vita che muta con l’evolversi della malattia.

In specifico i bisogni del malato terminale possono essere suddivisi in tre categorie, bisogni fisico - assistenziali, bisogni sociali e bisogni personali - emozionali.

Bisogni fisico - assistenziali

Il soddisfacimento di questo tipo di bisogni riguarda in primo luogo il controllo dei sintomi che si accompagnano alla patologia e ai trattamenti e che causano una grossa sofferenza per il malato e la sua famiglia. Il sintomo più presente ma anche tra i più facili da trattare è il dolore.

Possono essere presenti anche profonda astenia, dispnea, stipsi, nausea e vomito, edemi e versamenti, prurito, incontinenza, tosse e singhiozzo. Più la malattia avanza e più questi sintomi si accentuano peggiorando la qualità di vita della persona e di chi la assiste.

Risolvendo il problema del controllo dei sintomi si può rispondere

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miglioramento o il ripristino della qualità dell’alimentazione, l’aumento delle ore di riposo e il miglioramento della qualità del sonno, la cura di sé.

Bisogni sociali

In specifico riguardano: bisogno di appartenenza , ossia la necessità avvertita dalla persona morente di mantenere delle relazioni con i familiari e la rete sociale di appartenenza; bisogno di mantenere la comunicazione non solo con i familiari e gli amici, ma anche con il personale sanitario;

bisogno di esprimere i progetti formulati, sia per quanto riguarda se stesso, la malattia, i trattamenti e i desideri per il funerale, sia per quanto riguarda i familiari per l’organizzazione del dopo morte; bisogno di non essere abbandonato ed essere accettato come malato e morente.

Bisogni personali - emozionali

Riguardano il bisogno di sicurezza dalla minaccia psico-fisica della malattia; bisogno di autostima e rispetto della dignità del proprio corpo, che implica il “non sentirsi di peso” e la necessità di occupare la giornata ma

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anche la necessità di preservare il pudore, di mantenere il senso estetico e di essere ancora apprezzato nonostante le menomazioni dovute alla malattia e ai trattamenti; infine bisogno di compimento, che riguarda la sensazione di soddisfazione per la propria vita.

Quest’ultimo bisogno risulta particolarmente importante perché il malato terminale si trova spesso a riaffrontare questioni personali mai risolte, che spesso interessano il rapporto con gli altri. La risoluzione di queste questioni può influenzare la qualità degli ultimi giorni di vita della persona e la serenità della morte.

Infine, le paure sono le emozioni principali del paziente in fase terminale: paure molteplici, mai assenti e capaci di provocare anche intense reazioni difensive. I malati si difendono, infatti, dalla paura dell’ignoto, di quello che può esserci oltre, dalla paura della solitudine,dell’isolamento e dell’abbandono, dalla paura di perdere il proprio corpo, la propria integrità, autonomia ed identità, dalla paura di perdere l’autocontrollo, di essere in balia degli altri, dalla paura del dolore e della sofferenza, delle cure e dei

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loro effetti collaterali, dalla paura di non riuscire a dare un senso completo alla propria vita, di essere sommersi dall’angoscia finale.

Ruolo dell’infermiere

La formazione dell’infermiere mira all’acquisizione di capacità e competenze che permettono l’erogazione di un’assistenza olistica alla persona malata.

E’ anche la figura maggiormente presente nei reparti ospedalieri e non, e quindi il professionista che ha più possibilità di dedicare qualche minuto all’ascolto del paziente e dei suoi bisogni. E’ importante però ricordare che ogni persona è unica e portatrice di bisogni propri che non sono mai uguali a quelli di un altro malato.

Questo implica la necessità di conoscere l’individualità della persona, soprattutto del morente, attraverso un processo di personalizzazione dell’assistenza.

Alla base di tutto ciò sta la necessità di istaurare una relazione con il morente creando un rapporto basato sulla sincerità, sull’ascolto e sulla

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vicinanza anche fisica, che permetta all’assistito di fidarsi per esprimere i suoi ultimi desideri.

Il compito principale dell’infermiere, quindi, è ottimizzare la cura e l’assistenza del paziente in fin di vita e far si che abbia una morte dignitosa.

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4. LA COMUNICAZIONE CON IL PAZIENTE TERMINALE

Nell’esercizio delle sue funzioni l’infermiere diviene per il paziente un punto di riferimento di competenza ed esercita, nella relazione assistenziale, anche un ruolo educativo che richiede la conoscenza del processo di comunicazione nelle sue diverse modalità di espressione.

In particolare nella relazione con il paziente terminale l’intervento professionale contribuisce, tra l’altro, ad alleviare il senso di solitudine e di isolamento che, ancora troppo spesso, fa parte del vissuto di molte persone ospedalizzate e in fin di vita.

La comunicazione, inoltre, costituisce, per l’infermiere, uno strumento fondamentale sia nel momento della raccolta dati, per identificare la manifestazione del bisogno di assistenza infermieristica, sia per proseguire nell’applicazione di tutte le altre fasi del metodo disciplinare (il processo di assistenza infermieristica).

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Poiché non può esservi relazione senza comunicazione, questo aspetto assume particolare importanza.

La comunicazione viene definita dalla teoria classica come trasmissione di un’informazione, di un messaggio, da parte di un emittente a un ricevente.

La comunicazione diventa per l’infermiere un processo di interazione e di influenzamento reciproco, che avviene in un determinato contesto, che supera il semplice modello emittente/ricevente, poiché il comportamento di ogni persona influenza ed è influenzato dal comportamento di ogni altra persona.

Interagire infatti significa “mettere in atto un’azione scambievole tra due o più persone. Interagire nella comunicazione ha quindi il valore forte di realizzazione di una relazione efficace, in quanto il messaggio inviato giunge al destinatario in modo corretto, tenendo conto delle possibilità e delle esigenze di quest’ultimo.

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La comunicazione viene considerata come un processo circolare che prevede l’interazione tra due poli (infermiere-persona assistita) e che attiva sempre una reazione.

Il presupposto affinché si realizzi tale interazione nella comunicazione è che essa sia determinata dalla necessità di soddisfare, nella relazione assistenziale, il bisogno di assistenza infermieristica della persona.

L’aiuto alla persona ad interagire nella comunicazione non viene dato sfoggiando le proprie conoscenze, bensì riuscendo a far comprendere il messaggio voluto. Per ottenere ciò è necessario adattare il proprio linguaggio a quello dell’altro, utilizzando dei termini che egli possa comprendere ed usando anche quelli scientifici, se è necessario, purché ne venga immediatamente spiegato il significato: l’obiettivo è quello di aiutare la persona a capire. Ovviamente, le modalità dell’approccio interpersonale sono determinanti nell’influire sulle reazioni della persona, e contribuiranno a raggiungere un risultato positivo se saranno improntate a rendere la comunicazione meno ansiogena e meno difensiva. Con

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riferimento alla comunicazione non verbale, gli elementi che la caratterizzano sono diversi: l’espressione del viso, le posture del corpo, il tono, l’intensità ed il volume della voce, i gesti ed il contatto visivo. Questi elementi integrano la comunicazione verbale e, inevitabilmente, ne influenzano il significato. Infatti, la comunicazione non verbale può:

alterare il significato della comunicazione verbale, rafforzare un messaggio verbale, esprimere con un gesto quello che non viene chiesto.

Anche il contesto in cui avviene la comunicazione è determinante per la sua efficacia. Una stanza rumorosa può impedire di sentire ciò che viene detto, una persona agitata può alterare il messaggio che le è stato inviato, la presenza di estranei durante un colloquio può indurre la persona a rispondere alle domande in modo approssimativo o a non farlo.

L’insieme di questi elementi, che caratterizzano il processo di comunicazione, fanno intravedere quali capacità del “saper comunicare”, l’infermiere deve possedere e utilizzare in modo competente con le persone che hanno bisogno di essere informate, di essere aiutate ad esprimere

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situazioni che le preoccupano o a diminuire la paura per un evento, come la malattia terminale ancora, ad esprimere o capire dei messaggi.

Alla luce di quanto detto finora, bisogna tuttavia considerare che, anche con le migliori intenzioni degli interlocutori, la relazione in ambito assistenziale non sempre si instaura e si sviluppa in maniera ottimale.

Questo può accadere in virtù di diversi fattori, attribuibili all’operatore, alla persona assistita oppure al contesto dove nasce e si sviluppa la relazione.

È possibile identificare i fattori che disturbano la comunicazione in due categorie: fattori di natura personale e fattori di natura ambientale.

Nella prima categoria rientrano quei fattori che riguardano più specificatamente sia l’assistito (anziano) come ad esempio: la stanchezza fisica, il dolore, ostacoli all’uso della parola, disturbi della memoria (bio- fisiologici); ma anche l’ansia, l’eccitazione, risentimento, paura, scarsa autostima (psicologici); ancora, abilità espressiva, non conoscenza di argomenti specifici, diversità di appartenenza etnica, ceto sociale e così via (socioculturali); sia l’operatore come ad esempio: l’utilizzo di un codice

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inadeguato, l’esposizione confusa dei messaggi, l’assunzione di atteggiamenti inadeguati e così via. Tra i fattori di natura ambientale, invece, possono essere compresi il rumore, l’inadeguatezza dell’ambiente, la mancanza di privacy (fattori di natura fisica), ma anche la presenza di estranei/persone indesiderate e l’assenza di persone desiderate (fattori di tipo sociali).

Altri elementi di disturbo sono: l’incompatibilità delle opinioni, l’età, la personalità. Ciò può caratterizzarsi per l’incapacità ad esempio da parte dell’assistito a rimettersi alla volontà ed alla competenza altrui, o quantomeno di accettare, in qualche caso, di dover dipendere da altri per superare una situazione difficoltosa; così alcuni assistiti possono non accettare di buon grado (se non addirittura rifiutare) che l’infermiere si occupi di loro, specie se si tratta di azioni sostitutive particolari ad esempio l’igiene intima.

Altri fattori, che possono influenzare negativamente sulla qualità della relazione interpersonale in ambito assistenziale infermieristico, sono

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da ricondursi alle modalità con cui l’infermiere gestisce l’interazione nella comunicazione.

Alcuni autori hanno identificato cinque categorie di comportamento che ostacolano l’evoluzione efficace della comunicazione: cambiare argomento, esprimere le proprie opinioni sullo stato d’animo dell’assistito, frasi rassicuranti fuori luogo, interpretare affrettatamente e fornire consigli non richiesti, utilizzare in modo inadeguato notizie mediche e conoscenze infermieristiche, interagire con la persona nell’ambito di contesti inadeguati.

A volte nella realtà lavorativa la comunicazione pare collocarsi ad un secondo livello, come se prevalesse la difesa di sé, del proprio ruolo, piuttosto che l’interesse per l’altro e la ricerca reciproca della fiducia. Ciò, insieme alla incapacità di neutralizzare i fattori di disturbo della comunicazione, rappresenta probabilmente la causa principale di quelli che possono essere definiti “incidenti di percorso” nella relazione. La gestione corretta dell’interazione nella comunicazione esige dunque che l’infermiere mantenga l’atteggiamento costante dell’attenzione agli stati d’animo della

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persona assistita, senza esprimere giudizi e senza assumere comportamenti stereotipati con i quali, a volte, si tende a classificare i malati all’interno di categorie precostituite: “il paziente lamentoso”, “il paziente rompiscatole”,

“il paziente tranquillo” e così via.

L’assenza del giudizio è necessaria perché esso viene vissuto come riferito al complesso della persona e non solo ad una parte di essa: così chi si sente giudicato negativamente per qualche aspetto del suo modo di essere, finisce col sentirsi svalutato come persona. Ma, d’altra parte, anche la valutazione positiva di un comportamento è da usare con cautela.

Se ne evince, quindi, la necessità della “coerenza comunicativa” in riferimento al contesto. Proprio per questo motivo, non bisogna mai dimenticare che ai due poli della relazione si aggiunge la presenza del contesto istituzionale, fattore che spesso influisce pesantemente nella definizione e nell’evoluzione della relazione.

In questa ottica la comprensione delle dinamiche relazionali connesse o determinate dalla vecchiaia costituisce un requisito

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irrinunciabile per gli infermieri che svolgono la loro attività prevalentemente in questo settore.

Risulta fondamentale focalizzare gli aspetti che in questa fase della vita influiscono più direttamente sulla dinamica relazionale e gli effetti che su di essa producono.

Senza dubbio l’evento che maggiormente pesa sulla dimensione relazionale è costituita dal termine dell’attività lavorativa. Se inizialmente questo fatto può offrire a molte persone una sensazione di libertà, in seguito ciò che emerge è la consapevolezza di aver perso un preciso ruolo sociale;

in altre parole subentra un senso di frustrazione e di inutilità, dovuto alla percezione che l’immagine di sé si è in qualche modo offuscata: si assiste ad una crisi di identità e una diminuzione dell’autostima.

Il disadattamento alla nuova condizione, talvolta può assumere toni drammatici, caratterizzati dal decadimento delle capacità cognitive, da alterazioni dell’umore, introversione, perdita di interesse per la realtà, verso la quale vi è un progressivo distacco.

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Secondo alcuni studi, anche il sesso influisce in maniera cospicua sulla capacità di adattamento: per la donna esso risulta solitamente più facile, dato che è abituata a ricoprire diversi ruoli(di lavoratrice, di moglie, di madre).

Tutti questi fattori, descritti per altro sommariamente, comportano profonde modificazioni della sfera relazionale.

A seconda dei casi l’anziano può sentirsi valorizzato come persona, con un proprio vissuto degno di considerazione nonostante la sua eventuale condizione di malattia, oppure sopportato come un problema.

Riguardo alla malattia, essa viene ancora considerata da molte persone anziane come una componente essenziale della vecchiaia; tuttavia, sebbene il binomio vecchiaia-malattia sia stato da tempo superato, esso si impone quasi inevitabilmente con l’avanzare dell’età, sia con quadri patologici tipici della senescenza, che con sequele di malattie pregresse o croniche con il rischio conseguente di dover dipendere da altri. A ciò si aggiunge anche l’esperienza dell’ospedalizzazione, che molti anziani

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Ecco perché, diversamente dal giovane/adulto, nell’anziano i problemi di adattamento all’ambiente ospedaliero sono più accentuati.

Basti pensare ad esempio alla percezione della propria inadeguatezza di fronte alle persone che lo attorniano, alla complessità dell’ambiente in cui si trova e alla ristrutturazione delle abitudini e del vissuto personale connesse all’ospedalizzazione (la variazione degli orari dei pasti, l’uso obbligatorio del pigiama, l’impossibilità di utilizzare spazi esclusivi, la necessità di utilizzare elementi di arredo sconosciuti e così via).

Ancora, mostrare parti intime del proprio corpo o addirittura sopportarne la manipolazione da parte di operatori sconosciuti per l’esecuzione, ad esempio, dell’igiene intima o di prestazioni terapeutiche/diagnostiche a livello genitale.

Quest’ultimo aspetto riveste per la persona anziana un’importanza notevolissima, dato che il corpo viene vissuto spesso come una parte inviolabile della propria vita; di qui la difesa talvolta ostinata della propria intimità, del pudore.

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Il complesso dei fattori sopra descritto esercita un’influenza considerevole sulla dinamica della comunicazione, nel senso di una sua involuzione, caratterizzata dal bisogno, oltre che da una ovvia qualità, anche di una quantità maggiore di tempo ad essa dedicato, perché proprio nel tempo della comunicazione l’anziano ottiene una risposta implicita al suo bisogno di sicurezza.

Tutti i fenomeni fin qui descritti contribuiranno a determinare quella regressione psicologica che si osserva frequentemente negli anziani ospedalizzati e può caratterizzarsi con l’assunzione di comportamenti infantili oppure attraverso la scarsa collaborazione con il personale sanitario per l’esecuzione di alcune prestazioni: ad esempio la somministrazione di terapie.

Da queste considerazioni si può comprendere come l’approccio relazionale che l’infermiere adotta nei confronti della persona anziana debba essere il più possibile personalizzato e, facendo ricorso alla comunicazione verbale e non verbale, debba essere funzionale al

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raggiungimento di un preciso obiettivo assistenziale: la risposta del bisogno di assistenza infermieristica.

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5. RELAZIONE D’AIUTO E COUNSELING

L’infermiere è una figura professionale di fondamentale importanza nella gestione della relazione con il malato, per il ruolo di raccordo e di meditazione con la figura medica e con l’azienda sanitaria.

Questa sua particolare posizione lo mette a contatto con l’intera gamma dei sentimenti dei pazienti raramente espressi con le professionalità mediche verso le quali vi è maggiormente un rapporto di subalternità e comunque più centrato su aspetti clinici che relazionali.

Il principale ostacolo alla relazione con l’utenza è la carenza di tempo da dedicare al comunicare con i pazienti.

La richiesta sempre più frequente rivolta all’infermiere riguarda il rispetto del numero delle prestazioni da erogare, ossia “tempi e metodi” di un’assistenza che sembra sempre più incompatibile con una relazione assistenziale intesa in senso ampio.

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Nel ritmo delle prestazioni, il malato rischia di essere “frantumato”, percepito solo per le parti del suo corpo che necessitano di cura. Il malato si trasforma nella sua diagnosi.

L’altro ostacolo ha a che fare con la scarsa adeguatezza dei luoghi in cui si dovrebbe comunicare. Quanto detto sembra avere a che fare con la fatica di poter garantire un setting adeguato all’incontro ed alla relazione con l’altro.

E’ possibile conciliare una doverosa relazione d’aiuto con un paziente sentito come “intero” con una pratica routinaria che avviene in un’apparente assenza di setting, in luoghi poco idonei alla comunicazione ed i cui tempi sono scanditi dalla durata della prestazione?

Stando ad un concetto classico di setting si direbbe che non è possibile. Per la maggior parte dei professionisti che si dedica alla relazione d’aiuto, appare scontato che questa si svolga in un luogo deputato allo scopo, generalmente una stanza apposita, con delle sedia in una atmosfera distesa in cui possa svilupparsi un clima che faciliti confidenza e comunicazione.

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La caratteristica, invece, che contraddistingue la relazione infermieristica è spesso l’assenza della mancanza di un luogo deputato all’incontro. La comunicazione infatti avviene ovunque: ambulatori, al letto del paziente, in sala operatoria, ecc.

La relazione con il paziente accompagna qualsiasi attività routinaria:

talvolta rimane sullo sfondo, talvolta la travalica, ma rimane costantemente presente.

Sembra possibile pensare ad uno spazio d’incontro con l’altro in cui il tempo e il luogo siano dati dai tempi e dai luoghi della prestazione infermieristica.

La competenza relazionale dell’infermiere influisce sul come stare accanto al paziente secondo lo spazio ed il tempo che ha a disposizione.

Lo spazio relazionale tra infermiere e paziente può caratterizzarsi oltre che per la tipologia di prestazioni sanitarie anche per competenze relazionali specifiche. Le soluzioni ai problemi sarebbero:

- Gestione della relazione in contesti sfavorevoli: gestire la sala

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- Gestione della sofferenza emotiva: sostenere la dignità di chi soffre, gestire situazioni ad alto livello di emotività, rispondere a domande delicate;

- Aumento della motivazione e adesione al trattamento: informare il paziente e i familiari, motivare il paziente al trattamento o all’abbandono di comportamenti problematici.

Le diverse forme di aiuto relazionale sono:

- incontro d’aiuto occasionale (parenti, amici, relazioni quotidiane) - relazione d’aiuto

- counseling - psicoterapia

Relazione d’aiuto

Si ha una relazione di aiuto quando vi è un incontro fra due persone di cui una si trova in condizioni di sofferenza/confusione/

conflitto/disabilità/malattia (rispetto a una determinata situazione o a un

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determinato problema con cui è a contatto e che si trova a dover gestire) ed un’altra persona invece dotata di un grado “superiore” di adattamento/competenze/abilità, rispetto a queste stesse situazioni o tipo di problema.

Se fra queste due persone si riesce a stabilire un contatto (una relazione) che sia effettivamente di aiuto allora è probabile che la persona

in difficoltà inizi qualche movimento di

maturazione/chiarificazione/miglioramento/apprendimento che la porti ad avvicinarsi all’altra persona (assorbendone per così dire le qualità e le competenze) o comunque a rispondere in modo più soddisfacente al proprio ambiente ed a proprie esigenze interne ed esterne.

Molte relazioni amicali, familiari, di vicinato, sono così relazioni di aiuto, ma possono esserlo anche molte relazioni a carattere professionale (infermiere-persona, medico-paziente, insegnante-studente, operatore- cliente), oltre a quelle sviluppate da psicologi, psicoterapeuti, counselor.

L’aiuto può assumere varie forme: ascoltare, informare, insegnare,

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mette in atto una relazione di aiuto deve possedere la consapevolezza del processo ed il controllo dello stesso, padroneggiando razionalmente

“abilità” che sono un tutt’uno con ciò che si è. Infatti, una preparazione inadeguata dell’operatore determina l’incapacità di ascoltarsi e di ascoltare l’altro, requisito indispensabile per realizzare un processo di ascolto efficace. Alla luce di quanto esposto possiamo affermare che la pratica della relazione di aiuto presuppone un faticoso focus personale centrato sul sé, coniugato sull’acquisizione di abilità specifiche e di una complessa padronanza tecnica.

Poiché l’efficacia del rapporto è strettamente connessa alla reciprocità della relazione ed al soddisfacimento dei bisogni di entrambi i soggetti (operatore e persona assistita), di aiutare e di essere aiutato, analizziamo brevemente le teorie psicologiche del legame.

Se la comunicazione con il malato terminale è finalizzata all’istaurarsi di una relazione d’aiuto, ossia alla crescita e all’attivazione delle risorse personali del paziente, può essere un utile strumento per aiutare la persona a vivere il più attivamente possibile la sua morte.

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La relazione d’aiuto, infatti, ha come finalità quella di aiutare la persona a riacquisire autonomia e autostima, per quanto le sue condizioni lo permettano.

L’operatore deve ricordare, però, alcuni atteggiamenti indispensabili per la comunicazione nella relazione d’aiuto:

- non confondere le nostre esigenze di operatività con le sue reali necessità;

- entrare nell’universo soggettivo dell’altra persona pur conservando la propria obiettività;

- evitare la contraddittorietà tra linguaggio verbale e non-verbale;

- accettare la persona per quello che è e farla sentire compresa;

- comunicare.

Il counseling

Il counseling in ambito sanitario è un processo di interazione fra due persone di cui una è in difficoltà; è orientato a far prendere coscienza della

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cambiamento; non fornisce suggerimenti o risposte specifiche, aiuta la persona a trovare le sue soluzioni.

Il counseling può essere considerato come una relazione d’aiuto con una connotazione educativa, come un modo nuovo ed efficace per rispondere ai bisogni del malato terminale e per aiutarlo a maturare, attraverso un processo relazionale, le scelte necessarie per mantenere la qualità di vita.

L’operatore che utilizza la tecnica del counseling dovrebbe, infatti, mediante le proprie capacità di empatia, accettazione incondizionata dell’individualità del malato e autenticità, favorire la maturazione delle condizioni interne che gli permettano di definire il problema e mobilitare le risorse residue per affrontarlo e gestirlo; perché il malato deve rimanere sempre l’attore principale del processo decisionale.

Nel caso del malato terminale il problema che si deve gestire è quello della morte che si avvicina.

La dottoressa Elisabeth Kübler-Ross nel corso del suo lavoro accanto ai morenti ha individuato cinque fasi che se adeguatamente superate

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portano il malato ad accettare la morte e a vivere con serenità questo importante evento.

Le fasi sono le seguenti:

- I fase: rifiuto e isolamento; la frase che più rappresenta questa fase è quella che viene pronunciata dalla maggior parte dei malati dopo la comunicazione della diagnosi: «No, non sono io, ci deve essere un errore».

Solitamente il rifiuto rappresenta una difesa temporanea che verrà presto sostituita da una parziale accettazione.

- II fase: la collera; rabbia, invidia e risentimento prendono il sopravvento sull’iniziale rifiuto e vengono proiettatati nei confronti di familiari e operatori; le persone sane che circondano il malato e che rappresentano tutto ciò che sta perdendo.

- III fase: venire a patti; come il bambino che non ottiene ciò che vuole e prova ad usare delle strategie per accattivarsi i genitori e arrivare lo stesso al suo scopo; così il malato in questa fase prova a “barattare” una buona condotta con un desiderio che spesso è il prolungamento della vita.

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- IV fase: la depressione; che può essere distinta in reattiva e preparatoria. La prima è caratteristica del primo periodo di malattia, quando il malato affronta interventi e terapie che causano invalidità e perdite dell’integrità sia fisica che psicologica, ma lotta adottando strategie diverse per superare queste difficoltà. La seconda è caratteristica dell’ultima fase di malattia e permette alla persona adeguatamente aiutata ad affrontarla di morire in uno stato di accettazione e di pace perché ha potuto superare le angosce e l’ansietà.

- V fase: l’accettazione; se la depressione e la rabbia sono state superate il malato è pronto per accettare il suo destino. Non è una fase felice, ma un momento in cui la persona non prova più dolore, ha finito di lottare e si riposa prima dell’ultimo viaggio.

L’operatore che vuole aiutare il paziente in questo difficile percorso, deve conoscere la tecnica del counseling, i sentimenti che ogni fase porta con sé, ma anche i suoi vissuti e i suoi sentimenti rispetto alla propria morte per non correre il rischio di chiudersi in un atteggiamento difensivo.

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Non dobbiamo dimenticare inoltre che il counseling si basa sull’ascolto e l’empatia, questo significa che l’operatore deve riuscire a cogliere tutte le peculiarità della persona che si trova di fronte cercando d’immedesimarsi in questa senza mai perdere di vista il proprio “Io” per non farsi sopraffare dai sentimenti di dolore e rabbia e non trasferire sul malato i propri sentimenti e le proprie esigenze . L’operatore deve saper leggere tra le righe per cogliere tutte le sfumature della comunicazione sia verbale che non verbale. Per l’utilizzo di queste tecniche relazioni è necessaria senza dubbio una predisposizione personale ed una disponibilità nell’incontrare l’altro; ma è richiesto anche un cambiamento di mentalità e l’acquisizione di nuove abilità.

“Siate come volontari in una spontanea RELAZIONE di AIUTO quando aiutate, ma poi togliete l’aspetto pubblico e spettacolare dell’intervento e fate sempre come se foste nello spazio privato e proprio della casa della persona che aiutate: lo spazio per prendersi cura con professionalità, ma che mai perde l’entusiasmo di chi lo fa per il semplice e disinteressato

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6. IL CONTROLLO DEL DOLORE

Il malato terminale si caratterizza da qualsiasi altro tipo di paziente per lo svilupparsi e l’aggravarsi di una particolare e complessa condizione prodotta da un insieme di sofferenze strettamente interconnesse sebbene di diversa origine che è stata definita DOLORE TOTALE, insieme di DOLORE FISICO, PSICHICO, SOCIALE, E SPIRITUALE.

Per DOLORE FISICO si intendono tutti quei problemi che originano dal corpo causati direttamente dall’azione della malattia o indirettamente dalla terapia antineoplastica , dallo stato di cachessia, dalle necessità assistenziali connesse alla perdita di funzioni fisiche.

Il deterioramento fisico nel paziente neoplastico è più marcato di quello di altri pazienti affetti da sindromi dolorose croniche di natura non maligna, a causa della maggior gravità dei disturbi del sonno, della perdita dell’appetito, della nausea e del vomito.

Il DOLORE PSICHICO scaturisce dalla reazione che la psiche, l’io di ciascun uomo, ha nei confronti del progredire della malattia e

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dell’imminenza della morte. Questa sofferenza si esprime attraverso ansia, aggressività, depressione, paura.

La soggettività dell’esperienza dolorosa che è infatti descritta come:

“…un’esperienza sensoriale ed emozionale…” , la svincola dalla stretta dipendenza dallo stimolo che la provoca.

Esso subisce un processo di alterazione ed interpretazione, in relazione all’organizzazione ideo-affettiva, e agli stili psico - comportamentali di ogni individuo, acquisendo specifiche attribuzioni soggettive e di significato.

La maniera in cui gli individui si adattano alla propria malattia e ai trattamenti dipende dalla personalità, dallo stato emozionale precedente alla malattia, dai valori, dalle attività, dalle relazioni e dai precedenti e attuali eventi di vita.

I pazienti terminali sviluppano una più intensa reazione emotiva al dolore, con sintomi quali ansia, depressione, ipocondria, somatizzazione, nevrosi, dato che gli effetti del dolore si sovrappongono alle ripercussioni

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Molti pazienti associano alla malattia sentimenti di dolore, distruzione, menomazione e spesso di morte.

Sono preoccupati non solo dell’eventuale esito fatale della loro malattia, ma anche della possibilità di andare incontro ad ulteriori sofferenze, in special modo ad un grave dolore fisico, prima che la loro vita abbia termine.

Il DOLORE SOCIALE, si manifesta con l’alterazione e la perdita dei ruoli che normalmente la persona ricopre. La malattia stravolge completamente tutto l’assetto familiare, lavorativo, determinando la perdita dello status sociale e del benessere economico. Per molti pazienti il dolore diviene il punto focale attorno al quale ruota la propria vita e quella dei familiari.

Il fatto che la maggior parte dei pazienti con neoplasia in stadio avanzato debba smettere di lavorare comporta una crisi non solo economica, ma anche emotiva con sentimenti di dipendenza e di inutilità.

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L’aspetto fisico e il comportamento del malato, dovuti alla sofferenza, colpiscono emotivamente la famiglia; ciò viene percepito dal paziente con il risultato che la sua condizione si aggrava ulteriormente.

Alcuni malati con dolore incoercibile si scoraggiano al punto di meditare il suicidio.

La dimensione sociale viene coinvolta non solo per le modificazioni che inevitabilmente può subire a causa della patologia di cui è affetta la persona.

La testimonianza di una paziente dice: “…E’ la solitudine, il senso di angoscia che ti prende quando senti gli altri parlare DEL DOLORE e non CON IL DOLORE, parlano DEI fatti e non CON le persone…”.

Il paziente, in realtà, non vuole che si parli DEL dolore, ma CON il dolore, ed il dolore diventa persona, diventa tutt’uno con il paziente.

L’infermiere, ma anche i familiari e gli amici, dialogheranno CON il dolore tutte le volte che riusciranno ad entrare in relazione con il paziente.

Il DOLORE SPIRITUALE deriva dalla consapevolezza di

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(più o meno presente a seconda della persona) che conduce il più delle volte alla crisi o al crollo di quei valori, sia religiosi che laici, alla base del comportamento e delle scelte di vita del malato. Ciò che predomina nel 50/70% dei pazienti nella fase avanzata della malattia, è il dolore fisico, esso stravolge l’identità materiale del soggetto e, se non sottoposto a cura, anziché rafforzarne l’animo lo rende sempre più debole rispetto alla sofferenza.

Esiste quindi nel paziente una dimensione spirituale dell’esistenza umana, che si definisce come insieme delle esigenze che cercano un senso alle domande radicali della vita umana.

In una condizione di sofferenza, l’uomo tende naturalmente al senso finale del suo essere nel mondo. Sono fondamentali i tre filoni su cui viene sperimentato il dolore spirituale, il passato, il presente, il futuro.

Per quanto riguarda il passato, il dolore chiede di ricordare, di dare un significato che duri nel tempo agli eventi significativi nell’ambito della propria storia, e che venga vissuto come messaggio – eredità per le generazioni successive.

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Il presente rappresenta la realtà più angosciante “…E’ oggi che mi trovo così, non so perché, non so fino a quando…” Emergono rabbia contro Dio, contro il personale sanitario, contro la società. Qui cresce il bisogno di capire il perché, di dare un senso alla propria sofferenza.

Il futuro è la speranza, quella che si dice sia l’ultima a morire; il convivere integrando nella propria vita l’esperienza del soffrire, della crisi, della morte, dando un senso capace di durare nel tempo.

Che cosa è la sofferenza? E’ il dolore senza significato, senza collocazione, senza spiegazione.

Cause del dolore

Il dolore nel paziente oncologico può riconoscere le seguenti cause:

- Varie patologie (tumori maligni ed eventuali metastasi);

- Complicanze della terapia antitumorale e antalgica (sindromi dolorose postoperatorie, post-chemioterapia, post-radioterapia). Il dolore post-chemioterapia, per esempio, può insorgere e manifestarsi con modalità

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utilizzato e a seconda delle variabili costituzionali e soggettive di ogni singola persona.

- Sindromi paraneoplastiche: si tratta di alterazioni fisiologiche e biochimiche legate al tumore e/o associate alle malattie croniche già presenti nel paziente. Tra queste si riconoscono dolore muscolare, l’artrite reumatoide che causa dolore articolare e muscolare, e infezioni infiammazioni come si verifica con le lesioni da decubito nei pazienti allettati.

- Disturbi dolorosi non correlati alla patologia né alla terapia: artriti, osteoporosi, emicrania.

Influenze sulla qualità di vita

Il paziente nella fase finale della sua malattia polarizza la sua attenzione sul suo stato al quale né lui ne altri per il momento, hanno dato una spiegazione. L’ansia iniziale diventa depressione. Il tempo non ha passato ne futuro, ma soltanto un presente insopportabile e senza

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significato. Quanto più il paziente si chiude in se stesso, tanto più il suo dolore diventa insopportabile e intollerabile.

L’insieme delle tensioni e dei bisogni che la sofferenza e la morte fanno esplodere non solo nel malato, ma anche tra i suoi familiari, è da tener presente soprattutto in un ottica di qualità di MORTE almeno alla pari con la qualità di VITA, cioè, la necessità di vedere salvaguardata la dignità della persona durante tutte le fasi della malattia.

Responsabilità infermieristica nell’assistenza al paziente terminale con dolore cronico

“Funzione specifica dell’infermiere è di assistere l’individuo, malato o sano, ad eseguire quelle attività che contribuiscono a mantenere la salute, ottenere la guarigione (o a prepararlo ad una morte serena) atti che compirebbe da solo, senza aiuto se disponesse della forza, volontà, o delle cognizioni necessarie, e di aiutarlo a riacquistare l’indipendenza più rapidamente possibile”.

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E’ proprio risalendo a questa famosa definizione di Virginia Henderson che già emergono come campi d’azione specifici infermieristici, non solo quello preventivo, curativo, riabilitativo, ma anche quello palliativo.

L’obiettivo primario è quello di assistere la persona a recuperare e mantenere il suo ruolo come membro della società. I programmi di trattamento usano metodi che promuovono l’integrazione delle dimensioni fisica, psicologica, sociale, spirituale della persona in relazione al dolore.

Il ruolo dell’infermiere nella cura del dolore è allo stesso tempo indipendente e interdipendente.

Responsabilità indipendente: l’infermiere ha il compito di insegnare al paziente come meglio autogestire il dolore e mantenere una funzionalità ottimale.

Proprio in questo contesto viene massa in risalto la professione infermieristica in relazione all’importante ruolo che investe soprattutto nell’applicare una varietà di strategie gestionali (es. tecniche cognitive,

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comportamentali, fisiche, gestione delle medicazioni) e nell’aiutare gli individui nell’imparare ad usarle.

L’infermiere è responsabile nel riconoscere quella varietà di risposte umane comportamentali che il paziente con dolore sceglie di sviluppare e mettere in atto per il controllo dello stesso. La risposta comportamentale fa parte della gestione del dolore del paziente.

Nell’ambito degli interventi infermieristici ad esempio il comportamento posturale nel controllo del dolore, può essere incoraggiato quando l’infermiere: documenta nel piano assistenziale la posizione antalgica favorita dal paziente; insegna al paziente a spostarsi da quella posizione solamente quando è necessario; aiuta il paziente a mantenere tale posizione con cuscini e altri supporti medici.

Nel contesto ospedaliero la pianificazione ha un attuabilità diversa, in quanto gli infermieri sono disponibili 24 ore su 24 e possono monitorizzare continuamente sintomi e risposte di pazienti in trattamenti antalgici e possono determinare se una tecnica è stata applicata

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E’ fondamentale che si riesca a instaurare una positiva alleanza tra paziente e infermiere, sia per un efficace accertamento, che spesso nei casi di dolore, è difficile e scrupoloso a causa della soggettività propri di questa esperienza, sia perché in questo modo si può riuscire a cogliere tutti quegli aspetti riferiti dal paziente che permettono all’infermiere di accedere a quell’ampia gamma di esperienze e comportamenti unici nel loro genere.

Responsabilità interdipendenti: Considerando il dolore nella sua natura multidimensionale, esso richiede una varietà di operatori sanitari, tra i quali infermieri, medici, terapisti fisici, psicologi, e la persona che è affetta da dolore può essere aiutata solo da un sistema che funzioni attraverso un approccio olistico e collaborativo. Quindi, un altro aspetto dello specifico ruolo infermieristico nei confronti del problema dolore è quello riguardante l’interdipendenza con le altre figure professionali presenti nell’equipe che si occupa del paziente terminale con dolore.

L’infermiera ha due obiettivi importanti che caratterizzano la professione stessa, specialmente all’interno di un equipe multidisciplinare.

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Il primo prevede un contatto continuo con il paziente, ovvero assistere il paziente all’ interno di un iter continuo che permette all’operatore sanitario di non soffermarsi alla facciata che la persona malata presenta al primo impatto, ma di andare più a fondo.

Il secondo obiettivo formativo è quello che mira a sviluppare un determinato profilo nell’infermiera. Prendersi a cuore tutta la persona, va dall’ostacolo empatico, al dialogo attento, al vero e proprio counseling fatto da persone competenti. L’azione specifica dell’assistenza infermieristica privilegia un attenta analisi dei bisogni assistenziali individuali, come tali, maggiormente legati al vissuto personale del malato. Accanto al sapere, al saper fare, il saper essere si pone come elemento fondamentale della prassi infermieristica, che in questo si differenzia in maniera sostanziale da quella medica.

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Aspetti relazionali

Nella pratica infermieristica aiutare il paziente ad affrontare la sofferenza cronica ha due versanti: uno di tipo assistenziale - sanitario, l’altro di tipo umano.

Il primo versante comporta che la relazione di assistenza fra malato e infermiere rispetti l’etica del lavoro ben fatto.

Quale dolore è lecito o doveroso trattare? E’ bene ricorrere subito all’analgesico di fronte a qualunque banale doloretto? Chi stabilisce il confine tra le varie entità di dolore? L’unico orientamento generale è questo: va attuato ciò che realizza maggiormente il bene della persona e le sue capacità di “essere per il bene”. L’obiettivo sarà quello di ridurre la sofferenza intendendola come dolore globale. L’operatore sanitario ha perciò la responsabilità professionale di agire secondo scienza e coscienza.

In questo contesto la conoscenza e la competenza nel mettere in pratica la corretta procedura di terapia del dolore, diventa un atto di giustizia nei confronti del paziente.

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Non basta la scienza e la coscienza, ma bisogna far ricorso alla sapienza. Occorre, cioè riscoprire, questa importante risorsa dell’uomo che valutando con ponderatezza, serenità e fede nella vita, l’esistenza propria e quella di un altro uomo, sappia operare di conseguenza le scelte più opportune.

Tali decisioni la coinvolgono nel dibattito più ampio sul diritto del malato a non soffrire inutilmente, e nel problema più specifico del corretto uso degli analgesici quando essi mettono in questione la riduzione o addirittura la soppressione dello stato di coscienza del paziente, separandolo dalla possibilità di partecipare responsabilmente al proprio progetto assistenziale.

A volte, il ricorso sistematico ai narcotici potrebbe essere sollecitato dall’ansia di alleviare il disagio delle persone vicine al malato piuttosto che da una valutazione oggettiva della sofferenza stessa del paziente.

Inoltre facendo sempre riferimento alla definizione della professione infermieristica di V. Henderson, l’eticità del lavoro ben fatto, si svela anche

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paziente a acquistare il massimo stato di indipendenza e autonomia il più rapidamente possibile.” In quest’ottica il dolore ed il suo trattamento potrebbero essere considerati come fattori che maggiormente favoriscono od ostacolano l’indipendenza del paziente.

Infatti nei pazienti con dolore sono fondamentalmente 4 i valori (qualità) umane che vengono coinvolti: l’intelligenza, l’autostima, la socialità, l’autonomia.

Il dolore è “disumanizzante”; mentre una malattia può distruggere il corpo, il dolore distrugge l’anima. Infatti quanto più il dolore è grave , tanto più oscura l’intelligenza del paziente. E nello stesso codice deontologico infermieristico questo aspetto viene messo ben in risalto: La responsabilità dell’infermiere consiste nel CURARE e PRENDERSI CURA della persona, nel rispetto della vita, della salute, della libertà e dalla DIGNITA’ dell’individuo[…].

L’infermiere ASCOLTA, INFORMA, COINVOLGE la persona e VALUTA con la stessa i bisogni assistenziali, anche al fine di esplicitare il

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livello di assistenza garantito e consentire all’assistito di esprimere le proprie scelte.

La sofferenza non ha senso quando un grido d’aiuto non viene ascoltato ed accolto, quando malgrado la possibilità tecnica di agire per lenire il dolore, nulla viene fatto, o viene fatto male, quando manca qualsiasi conforto, quando uno sguardo che cerca viene lasciato cadere o evitato, quando viene negato un atteggiamento empatico nella relazione di cura. La sofferenza non ha senso quando l’uomo è lasciato solo nello smarrimento di un dolore…

Nel secondo versante la relazione infermiere/paziente rientra nella situazione che l’operatore sanitario, in quanto uomo o donna, si trova a vivere senza che esso si configuri come un dovere deontologico, ma piuttosto sociale, umano, nel quadro della solidarietà alla quale ogni essere umano è chiamato per la sua stessa natura.

In questo tipo di relazione si riescono a trasmettere volontariamente e involontariamente, messaggi di tipo prettamente umano, come la

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L’esperienza della sofferenza induce ad intraprendere un dialogo interpersonale ad un livello molto più profondo di quanto normalmente accade: proprio la necessità di comunicare ciò che appare incomunicabile può spiegare e trovare risorse comunicative insospettate ed a intrecciare legami di solidarietà molto più stabilmente fondati.

Un’esperienza condivisa da molti, è quella per cui, anche nei casi di malattie terminale, una comunicazione reale e partecipata è in grado di rendere vivibile la sofferenza.

La lotta contro il dolore, o se si preferisce, l’aiuto e l’assistenza all’uomo che si trova nel dolore, non può ridursi alla somministrazione di analgesici o di stupefacenti, oppure ad altri tipi di interventi esclusivamente medici, perché questi possono solo calmare temporaneamente il dolore fisico, ma non toccano la sofferenza interiore.

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La valutazione del paziente con dolore

L’accertamento del dolore costituisce il primo passo per comprendere in che modo lo percepisce il paziente, e rappresenta la premessa per una positiva alleanza tra il paziente e l’infermiere. Il processo di accertamento, nei casi di dolore, è difficile spesso molto scrupoloso, in quanto il dolore comunica in modi diversi, avendo tuttavia come fattore comune la sofferenza fisica dell’uomo.

Poiché l’esperienza del dolore è così altamente soggettiva, l’infermiere deve essere un bravo esercente l’arte dell’accertamento. E “I pazienti devono essere sottoposti ad una valutazione professionale non ad un giudizio morale”

Il primo gradino da compiere nella valutazione del paziente con dolore è quello della raccolta dei dati.

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