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In Portugal, when we refer to the catastrophes we use an anagram formed by the letters of the word H

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excellent technical preparation to treat those who are victims of the catastrophes; and spiritual preparation for accompanying all kinds of human suffering

5. In Portugal, when we refer to the catastrophes we use an anagram formed by the letters of the word H

E L P. The letter H to refer the expression Humanistic preparation; the letter E to refer the word bE – Être (French) in the sense of staying with who are affected; the letter L to refer the Links with the concerned persons and communities; and the letter P to refer Palliative care for those who we can merely mitigate their suffering.

H

umanistic preparation of the physicians and all sanitary personnel, meaning multicultural education for understanding other ways of life and privations;

meaning scientific knowledge and excellent technical preparation to treat those who are victims of the catastrophes; and spiritual preparation for accompanying all kinds of human suffering.

To b E (Être) with those involved in the catastrophes in the sense of solidarity with those in probation; paying attention to the specific threats to the integrity in the specific circumstances they are;

trying to find the adequate solutions.

To maintain the L inks with the affected persons, hearing and speaking to them with dignity, compassion and truth. To maintain L inks with the coordination entities in order to an integrated and permanent evaluation of all rescue works.

P

alliative care for to alleviate the suffering and supporting the persons of the patients; controlling the symptoms and maintaining the hope; integrating the personnel and social support; and to seek the adequate solutions in a very precarious context.

References

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Mr. Francesco Ognibene (Italia)

Giornalista ad Avvenire, Laureato in Scienze Politiche all’Università Cattolica di Milano

Mass Media e bioetica Mass media et Bioéthique Mass Media and bioethics

Venire a parlare di bioetica in una così autorevole assemblea di medici equivale, per un non medico come me, a rischiare una figuraccia. Il mio mestiere è il giornalista, dunque per definizione un professionista dalle tante competenze generalissime ma che con un sapere specialistico come la bioetica può incappare in più di un errore. Si vuole divulgare, si finisce per informare in modo sbrigativo e superficiale, distorcendo la coscienza della gente. Ma dopo aver confessato questa inadeguatezza genetica, cerco di portarvi sul mio terreno, quello dell’informazione. Perché la bioetica ha cessato di essere un sapere ignoto all’opinione pubblica, misterioso ed estraneo come l’astrofisica o la meccanica quantistica, da quando è entrato nel flusso della comunicazione di massa, e si è imposto all’attenzione dei consumatori di notizie, cioè di tutti. Nessuno che non fosse addetto ai lavori, volontariamente, se ne sarebbe interessato se non fosse stato costretto. Cos’è accaduto? Che i grandi interrogativi della bioetica – ovvero sulle frontiere della vita umana, sulla ricerca scientifica a essa applicata, sulla manipolazione dell’uomo nella sua

struttura biologica con estese connessioni con la sua stessa natura e dignità – sono entrati a far parte del menù dell’attualità fianco a fianco con la politica, l’economia, la cronaca nera e lo sport, ma sarebbe forse più corretto dire che hanno fatto irruzione, non invitati né richiesti, dentro la nostra “dieta mediatica”, la quotidiana dose di informazione che ci viene somministrata (per dirla con termini familiari alla vostra professione).

In Italia ciò è accaduto in una data ben precisa: il 15 gennaio 2005. Quel giorno infatti la Corte Costituzionale autorizzava lo svolgimento di 4 referendum per l’abrogazione di altrettanti punti decisivi della legge 40 che regola dal 2004 la procreazione medicalmente assistita. Dunque un evento politico, che ha trascinato nell’arena della comunicazione il tema dei confini da porre alla maternità in provetta, dell’uso degli embrioni e dello stesso istante d’inizio della vita umana, dati scientifici alla mano. Visto l’obiettivo – abrogare la legge oppure conservarla – su questi temi si sono creati due fronti contrapposti, con un terzo gruppo (certamente maggioritario all’inizio della campagna

referendaria) che non sapeva da che parte stare, considerata l’assoluta novità, la delicatezza e la complessità evidente della materia. Ma in sei mesi, fino allo svolgimento dei referendum nel giugno 2005, che poi fallirono nel loro obiettivo, tutta Italia dovette informarsi e familiarizzare con embrioni, cellule staminali, provette, fecondazione omologa ed eterologa, crioconservazione, selezione embrionale, stimolazione ormonale e impianto in utero. Questioni che per essere affrontate degnamente avrebbero richiesto lauree in medicina, biologia e diritto sono diventate da allora materia prima dell’informazione, della discussione pubblica, dei giudizi e delle scelte di ciascuno. Un

“laboratorio mediatico” capitato all’improvviso che rivincita di chi nel fallito referendum vide sconfitta in modo bruciante e del tutto sorprendente la pretesa di lasciare la provetta a disposizione del libero mercato dei desideri e della fabbricazione di figli selezionati e costruiti a piacimento, in sprezzo a qualunque elementare rispetto per l’essere umano più debole. E oggi stesso la legge 40 è ancora sui giornali, per l’ordinanza di un tribunale che vuole imporre a un ospedale di scartare gli embrioni forse malati e salvare solo quello forse sano: il primo caso di un giudice che dice a un medico che per eliminare una malattia basta uccidere il malato. E la stampa? Approva, anzi, rilancia e sfida il Parlamento a eliminare le regole di legge che salvano il salvabile di ciò che è proprio dell’uomo in una pratica comunque moralmente e scientificamente più che discutibile con una percentuale di fallimenti spaventosamente elevata:

un nato su 10 tentativi. Più che una terapia, una lotteria. Ma questo non fa notizia.

Nel frattempo, sulla frontiera opposta della vita si era infiammata la questione mediatica dell’eutanasia con il caso di Eluana Englaro, la Terri Schiavo italiana, fatta morire dopo 17 anni di stato vegetativo in ossequio alla sentenza (datata 17 ottobre 2007) con la quale per la prima volta si consentiva di sospendere la nutrizione a un paziente privo di coscienza che solo di acqua e cibo aveva bisogno per vivere. Dunque non un malato cui sospendere le terapie, ma un disabile grave. Di questo però i media non parlarono mai. L’obiettivo era affermare il diritto di poter scegliere il momento della propria morte, e poco importava che lo si facesse sulla pelle di una persona impossibilitata a spiegare la sua volontà attuale. Anche questo argomento persino banale – cosa vorrebbe fare oggi

Eluana se potesse dire cosa vuole scegliere per sé – fu censurato. La morte di Eluana, il 9 febbraio 2009, dopo mesi di furiose discussioni sulla sua sorte ha segnato così un’altra data chiave per l’affermarsi dei grandi snodi della bioetica dentro il flusso inesausto dell’informazione generale.

In entrambi i casi – embrioni ed eutanasia – i mass media hanno aderito quasi unanimemente all’idea pragmatica secondo la quale la vita non ci precede ma è a nostra disposizione, un bene tra gli altri, come una casa, un’auto o un aspirapolvere, e anzi meno importante di un oggetto materiale sul cui riconosce principi condivisi ma afferma un passo dopo l’altro la libertà di ciascuno di agire come meglio crede sulla vita, ovvero ciò che il mondo contemporaneo aveva sottratto alla manipolazione e all’arbitrio, anche per effetto della tragica lezione dei totalitarismi del Novecento. Siamo tornati sui nostri passi, e nella legittimazione di questo ripensamento carico di incognite l’informazione ha precise responsabilità.

Il percorso che ha condotto a questo vero e proprio cedimento etico di dimensione – che è globale quanto è globale la sfera d’azione dei mass media – parte da relativamente lontano. Il buco nella diga infatti era già stato aperto, e ogni ospite non italiano in questa platea potrebbe indicarci le date che nel suo Paese hanno segnato il crollo di un bastione a difesa della vita umana, ovvero della dignità di tutti.

In molti Paesi occidentali sin dagli anni Sessanta-Settanta s’era infatti aperta la questione pubblica dell’aborto e della sua legalizzazione: una depenalizzazione parziale e condizionata, come pure accadde anni dopo per l’eutanasia in alcuni Paesi europei, ma si trattava della prima eccezione in epoca moderna al comandamento religioso e laico del “non uccidere” codificato in tutte le costituzioni del mondo. Fu quella la prima vicenda che impose all’opinione pubblica di farsi un’idea e di prendere posizione attingendo non più solo alla propria coscienza, alla cultura sedimentata lungo i millenni nella nostra civiltà, ma alle informazioni fornite dai mezzi di comunicazione: come se noi giornalisti ci fossimo arrogati il diritto di intervenire sulla struttura portante della società.

Nell’era della mediatizzazione di massa e della secolarizzazione, impegnata a sminuire tutto ciò che era considerato assoluto (Dio, l’uomo, la vita) nel nome dell’autonomia dell’individuo e della sua realizzazione, ciò che è umano è diventato

improvvisamente disponibile, un oggetto scambiato sul mercato pubblico dei valori e quotato sui giornali. La vita alla mercé di chiunque, esposta ai venti mutevoli delle opinioni, degli interessi, delle maggioranze. Se si fosse trattato della proprietà privata, il problema non si sarebbe neppure posto, tanto l’Occidente lo considera un principio non negoziabile, a differenza ormai della stessa vita umana.

Si può dire che i mass media hanno completato il processo di dissacrazione del mondo avviato dall’illuminismo, impegnandosi poi strenuamente per sbarazzarsi di qualsiasi resistenza culturale ed etica e dipingendo ogni opposizione come l’eredità di uno spirito religioso inadatto al mondo contemporaneo: ciascuno creda pure nel suo Dio, ma senza pretendere di farne il fondamento per l’inattaccabilità di qualche principio. Si è così deliberatamente confusa la religione con ciò che appartiene per natura a qualunque essere umano, la verità elementare e riconoscibile da tutti della propria appartenenza all’umanità che ci accomuna.

La vita dovrebbe essere come la luce, l’acqua o l’aria: un bene primario, un dono naturale, indiscutibile. Invece la comunicazione di massa ha persuaso i nostri contemporanei (e forse un poco anche noi credenti) che essa sia oggetto di trattativa, negoziato, compromesso, limite, accordo.

Si è cominciato a far credere che il diritto, prima che a vivere, è a decidere quando, se, e a quali condizioni vivere e far vivere. E che leggi e sentenze, parlamenti, governi e tribunali debbano codificare questa pretesa di sottomettere la vita alla volontà , sospinti con energia dai mass media.

Non voglio fare il filosofo o il sociologo, ma dobbiamo sapere che l’orizzonte nel quale il mio e il vostro servizio si pone oggi è questo. Questo è l’ambiente culturale che abitiamo, determinato e non più solo condizionato dai mezzi di comunicazione che a differenza di quaranta o cinquant’anni fa sono ovunque, anche nelle nostre tasche grazie agli smartphone e ai tablet dei quali molti di noi non possono (e non riescono) più a fare a meno, a cominciare da chi vi parla. Respiriamo informazione, che ci arriva addosso dal mattino alla sera attraverso i più diversi canali e non più solo per nostra scelta libera e attiva. Dentro la sovrabbondante offerta informativa nella quale ci muoviamo la bioetica ha ormai occupato un suo posto stabile, ma l’ha fatto costretta a snaturare la propria fisionomia. I media trasfigurano i contenuti, che non riescono quasi mai a imporre il loro alfabeto. Anzi, si può dire che quanto più i temi presentano aspetti problematici tanto più l’informazione li trasforma in qualcos’altro, piegandoli alle proprie esigenze. Un processo che si verifica ormai in modo sistematico, una volta che

un tema si trasferisce dal salotto degli specialisti alla piazza della comunicazione di massa.

La bioetica non poteva fare eccezione: quando passa attraverso la lente deformante dei mass media cessa di essere il terreno d’incontro tra scienze, medicina, diritto, politica, filosofia e antropologia, una frontiera delicata e impegnativa che esige un approccio rispettoso e serio, un punto certamente nevralgico ma destinato per sua natura al dialogo e al confronto, e tende a diventare un campo di battaglia sul quale si esercitano varie anime del giornalismo, purtroppo non tutte nobili. I giornalisti, noi giornalisti, usiamo sulla bioetica strumenti propri di altri racconti della realtà, senza prendere atto della assoluta, rilevantissima, decisiva specificità della materia. E’ come se per raccontare una partita di calcio venisse inviato allo stadio un esperto di finanza, o viceversa. In molti casi è quello che ancora accade: la bioetica viene letta come una continuazione della guerra politica con altre armi, e a occuparsene sono giornalisti politici, oppure cronisti con l’idea fissa di far entrare la bioetica nelle pagine dei giornali trasformandola nello spettacolo della lotta strenua tra due fazioni, di solito la luce della ragione contro l’ostinata oscurità della religione, un mondo vecchio che resiste all’inesorabile affermarsi del nuovo.

Comunque la si pensi in materia, una semplificazione volgare e deformante, nella quale c’è già un giudizio mescolato con la notizia.

Qui sta uno dei nodi centrali della riflessione su mass media e bioetica: l’inappropriatezza degli strumenti conoscitivi e narrativi usati per consegnare all’opinione pubblica i grandi interrogativi sollevati dal dilagare della tecnoscienza e della biomedicina nella vita della gente. Questi non sono più fattori estranei, propri di un mondo di super-scienziati che nulla hanno a che vedere con la quotidianità delle persone, ma temi, domande, dubbi, spunti, sollecitazioni con i quali molti devono fare i conti nelle esperienze più diverse, che con l’accendersi del confronto sulla piazza della comunicazione sociale non sono più relegati al privato personale ma hanno una rilevante dimensione pubblica. Si direbbe anzi che la coscienza interrogata su di essi per tentare una risposta sostenibile e coerente non attinge più solo alla propria riserva di princìpi e di riferimenti smarrimento, pigrizia o paura, si tende ad allineare il proprio giudizio, anche se l’istinto interiore suggerisce altre risposte forse troppo faticose da

sostenere pubblicamente, oppure semplicemente impossibili da argomentare a causa dell’oggettiva complessità della materia e dell’impreparazione specifica sui temi (come anche, purtroppo, sui inguaribili, del coma o dello stato vegetativo, della disabilità, dell’umanissimo desiderio a volte drammaticamente negato dalla natura di un figlio sano… Tutte questioni – ripeto – non più private ma scaraventate su una scena che non gli è confacente, e che chiama a una risposta protagonisti e spettatori (ovvero noi utenti della comunicazione quando casi legati a queste esperienze umane piuttosto comuni vengono chiamate alla ribalta dell’informazione, quasi sempre loro malgrado).

Questa risposta oggi è pesantemente condizionata dal giudizio che i mass media consegnano già confezionato ai cittadini, nella forma di editoriali, storie, notizie enfatizzate, censurate oppure raccontate solo in parte. E’ come se i formidabili interrogativi aperti dai fatti che toccano le frontiere della vita umana fossero entrati in un reality show che senza alcun pudore pretende di trasformare le scelte sulla nascita e la morte in casi di gossip, illudendo che i criteri di giudizio siano gli stessi.

Il caso della diagnosi pre-impianto in questo nostro discorso mi pare esemplare. La vicenda che riassumo è stata ampiamente enfatizzata e commentata dai media italiani alla fine di agosto, occupando improvvisamente le prime pagine per alcuni giorni. Una coppia portatrice di fibrosi cistica desidera evitare che, al figlio già nato e gravemente malato, si aggiunga un fratellino con lo stesso handicap. La legge italiana vieta l’accesso alla procreazione artificiale alle coppie fertili, e lo fa proprio per evitare che si crei un’industria del figlio costruito in laboratorio, con le conseguenze incontrollabili di una proliferazione di embrioni parcheggiati nei congelatori o semplicemente scartati. Ma la coppia non si arrende e si rivolge alla Corte europea dei diritti dell’uomo argomentando che è inutile e crudele vietare la selezione preimpianto visto che, una volta concepito in modo naturale un figlio malato, questo sarebbe destinato all’aborto. La legge italiana che depenalizza l’aborto in alcuni casi non prevede in

realtà l’aborto selettivo, ma la Corte di Strasburgo prende per buona la tesi della coppia e condanna l’Italia. Anzitutto una domanda: perché s’è acceso un così vibrante interesse nella stampa su una vicenda privatissima come quella della coppia? La risposta mi pare vada cercata in un aspetto decisivo dell’intreccio che si è creato in questi ultimi anni tra comunicazione e bioetica. Un’ideologia scettica e relativista che non riconosce alcun principio primo, quale quella che caratterizza la cultura dominante nei mass media e da questi spalmata sulla nostra società come una melassa che tutto uniforma, è allergica per sua stessa natura ai principi assoluti, a cominciare naturalmente dalla religione. E’ un pregiudizio sostanzialmente anti-cristiano che ha radici molto profonde ed estese, ma che nella cultura contemporanea ha trovato terreno fertile nella comunicazione di massa che esalta il punto di vista e si mostra sempre più ostile a qualsiasi premessa di verità condivisa nel nome della tolleranza e del pluralismo. Questa laicizzazione progressiva della scena pubblica non poteva non fare i conti, presto o tardi, con il valore assoluto per eccellenza, il fondamento certo e vero per definizione: la vita umana. Non è vita ciò che conosciamo per esperienza e che accomuna tutti, cioè che è reale e vero, la nostra natura umana, ma quello su cui ci mettiamo d’accordo, o semplicemente ciò che ciascuno di noi crede sia tale. La natura non c’è più, simbolicamente rimpiazzata dal potere del telecomando, dalla tv multicanale, dall’infinito menù proposto dal web, ora anche dall’inesauribile chiacchiera dei social network dove ognuno è maitre-a-penser di se stesso. Nel tempo in cui l’informazione è ubiqua e le fonti sono illimitate, tutte potenzialmente equivalenti, pare persino temerario dire che c’è qualcosa che ci precede e che non dovremmo permetterci di manipolare, selezionare, usare, assoggettare alla nostra volontà quando non al capriccio individuale. L’autodeterminazione esaltata dai mass media, nell’illusione consumistica che tutto sia permesso e possibile, pone l’individuo in assoluta solitudine al centro dell’universo, incapace di vedere il suo limite: onnipotente perché gli viene fatto credere che non ci siano “verità prime” delle quali non può fare mercato. Viene allo scoperto un’antropologia inoculata nelle coscienze

E’ del tutto evidente che è anzitutto a noi giornalisti e a voi medici spetta la responsabilità di mostrare

quanto sia falsa e distruttiva questa mentalità nichilista che vuole convincere la gente del dovere di “fare quel che si vuole” e di “lasciar fare” nel nome di una presunta neutralità etica.

Conclusione

Vorrei concludere con una frase tra le tante

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