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Un approccio semiotico alla traduzione: multimodalità e sincretismo nel romanzo Tree of Codes di Jonathan Safran Foer

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Academic year: 2022

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Un approccio semiotico alla traduzione: multimodalità e sincretismo nel romanzo Tree of Codes di Jonathan Safran Foer

VENTURINI, Alice

Abstract

Tree of Codes de Jonathan Safran Foer est publié en novembre 2010 par la maison d'édition Visual Edition. Sa genèse est tout à fait particulière. Il est le produit d'un processus qui modifie le travail littéraire d'un autre écrivain, à savoir le recueil de nouvelles The Street of Crocodiles de Bruno Schulz. À partir de ce texte Safran Foer procède à l'élimination de phrases et de mots aboutissant ainsi à une nouvelle histoire. Le résultat est une œuvre multimodale qui compte trois différentes dimensions sémiotiques : verbale, visuelle et tactile.

L'objectif de ce travail de recherche est d'identifier une méthode valable pour la traduction de cette œuvre. L'approche sémiotique a fourni les instruments d'analyse et a permis d'envisager des solutions de traduction reproduisant le geste créatif du texte de départ.

VENTURINI, Alice. Un approccio semiotico alla traduzione: multimodalità e

sincretismo nel romanzo Tree of Codes di Jonathan Safran Foer. Master : Univ. Genève, 2019

Available at:

http://archive-ouverte.unige.ch/unige:127499

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INDICE

Introduzione ... 3

Capitolo primo - Tree of codes – Le problematiche della traduzione ... 5

I.I Tree of Codes: il libro ritagliato ... 5

I.II. Jakobson – Una tipologia della traduzione ... 12

I.III. La critica a Jakobson ... 13

I.III.I. La centralità del linguaggio verbale ... 13

I.III.II. Interpretare non è tradurre ... 15

I.III.III. La traduzione avviene fra testi e non fra sistemi ... 17

I.IV. La glossematica di Hjelmslev ... 18

I.IV.I. Dal significato al contenuto ... 19

I.IV. II. Materia forma e sostanza ... 20

I.V. Eco – Tipi di interpretazione ... 23

I.V.I. L’interpretazione intrasistemica ... 24

I.V. II. Interpretazione intersistemica con mutazione di materia ... 25

I.V.III. Interpretazione intersistemica con sensibili variazioni della sostanza... 27

I.VI. La critica all’approccio sistemistico ... 29

I.VI.I. Calabrese e l’equivalenza imperfetta ... 29

I.VII. La svolta generativista ... 32

I.VII. I. Dal contenuto al senso ... 32

I.VII.II. Greimas e il percorso generativo ... 33

Il débrayage ... 35

L’embrayage ... 36

I.VIII. La prassi enunciativa di Fontanille ... 37

Capitolo secondo - Sincretismo e i piani del linguaggio ... 40

II.I. Tree of Codes – un testo sincretico ... 40

II.II. La dimensione visiva ... 42

II.III. La dimensione tangibile ... 45

II.IV. La dimensione verbale ... 51

II.IV.I. Visual Reading ... 52

II.IV.II. Linear Reading ... 54

IV.III. La relazione fra Schulz e Safran Foer ... 56

Capitolo terzo - Istanze enunciazionali e testualizzazione ... 61

III.I. Verso un approccio generativo a Tree of Codes ... 61

III.II. L’enunciazione in Tree of Codes ... 64

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III.II.I. Débrayage fondamentale ... 65

III.II. II. Débrayage interni ... 68

III.III. La questione della testualizzazione ... 73

III.III.I. La sémiotique du faire ... 74

III.IV. La prassi enunciativa di Tree of Codes ... 75

Capitolo quarto – Metodo e soluzione traduttiva ... 78

IV.I Per una traduzione di Tree of Codes ... 78

VI.II. La traduzione ... 81

IV.III. Commento alla traduzione ... 85

Conclusione ... 88

BIBLIOGRAFIA ... 90

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Introduzione

Nel novembre 2010 esce Tree of Codes, quarta opera dello scrittore statunitense Jonathan Safran Foer edita dalla casa editrice Visual Edition. La genesi dell’opera è del tutto peculiare:

Safran Foer parte da un testo di Bruno Schulz intitolato The Street of Crocodiles, e, mediante una singolare operazione di “sottrazione”, ovvero eliminando dal testo originale un numero considerevole di parole e frasi, dà vita a un testo nuovo, con una struttura narrativa propria e un diverso significato. Questa operazione è resa attraverso la tecnica di die cutting che conferisce al libro un aspetto unico dato appunto dalla presenza di buchi fisicamente riprodotti sulle pagine in corrispondenza dei punti in cui Safran Foer ha rimosso parole e frasi. Tree of Codes diventa così, oltre che un libro, un oggetto di design, in cui le dimensioni visiva e tattile incidono sull’esperienza del lettore tanto quanto il testo scritto.

Quest’opera, proprio in ragione della sua natura, rappresenta per il traduttore che vi si approccia una sfida avvincente, motivo per cui abbiamo deciso di designarla come oggetto di studi di questo travail. L’obiettivo primario che la nostra ricerca si pone è quello di rintracciare un metodo che prospetti una soluzione traduttiva efficace per un’opera che si presenta articolata su così tanti livelli.

Il primo capitolo è dedicato a introdurre il testo. Vi si illustrano i motivi della sua specificità e le problematiche connesse a una sua possibile traduzione. Dette problematiche derivano perlopiù dal carattere di multimodalità dell’opera, ovvero dalla pluralità dei sistemi semiotici di cui si avvale.

Per affrontare tale questione, ripercorreremo il dibattito sul rapporto esistente tra traduzione e semiotica ed esploreremo il concetto di traduzione intersemiotica. Partiremo dall’approccio sistemico alla traduzione, prendendo le mosse dalle posizioni del semiologo Jakobson e dalla glossematica di Hjelmslev per arrivare ai tipi di interpretazione (intrasistemica e intersistemica) proposti da Umberto Eco; successivamente ci sposteremo sulle posizioni della

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4 semiotica cosiddetta generativa, che trasla l’attenzione dal contenuto al senso, soffermandoci in particolare sulle teorie di Greimas.

Concluderemo questo excursus teorico con Fontanille, il cui concetto di prassi enunciativa ha il merito di aver portato l’attenzione sugli aspetti pratici dell’enunciazione.

Il secondo capitolo sarà dedicato all’analisi dei diversi livelli del testo di Safran Foer: quello visivo (la presenza di spazi vuoti e spazi bianchi), quello tangibile (l’aspetto fisico del libro e la sua tridimensionalità accentuata dalle parole ritagliate), e infine quello verbale, ossia quello attinente al testo scritto.

L’intersecarsi di queste tre dimensioni, oltre a conferire a Tree of Codes il suo carattere di sincretismo, apre la strada a due diverse possibilità di lettura che andremo ad esplorare: la visual reading e la linear reading. Considereremo infine il rapporto esistente tra la nostra opera e il testo base di Schulz.

Nel terzo capitolo riprenderemo alcuni concetti esposti nel primo capitolo per applicarli al testo oggetto della nostra analisi: in particolare applicheremo all’opera un approccio generativo e guarderemo alle istanze enunciazionali di Tree of Codes attraverso la lente del débrayage greimasiano e della prassi enunciativa di Fontanille.

Nel quarto e ultimo capitolo proveremo, alla luce dell’analisi condotta, a elaborare un metodo idoneo a soddisfare le esigenze traduttive del testo. Attraverso un tentativo concreto di traduzione di uno stralcio del testo, unitamente al suo commento, cercheremo di rendere il più possibile l’idea delle difficoltà di traduzione di questo testo, sottolineando però ancora una volta la possibilità di una sua traduzione, possibilità che si sostanzia in una fine operazione di negoziazione e che non potrà in alcun modo essere scissa dalla peculiare fisicità dell’opera.

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Capitolo primo - Tree of codes – Le problematiche della traduzione

In questo primo capitolo presentiamo la problematica di ricerca alla base di questo travail de mémoire. In un primo momento, tracceremo una breve panoramica volta a inquadrare il nostro corpus di testi costituito dal romanzo Tree of Codes. Ciò consentirà di presentare le problematiche connesse alla sua traduzione permettendoci di circoscrivere al meglio il nostro ambito di ricerca. Su tali premesse si baserà quindi la scelta dell’approccio teorico e metodologico adatto a soddisfare le esigenze analitiche della pratica traduttiva.

Ripercorreremo, infine, alcune riflessioni particolarmente utili ai fini dell’analisi e di un’eventuale traduzione del testo riponendo particolare enfasi sui concetti di traduzione, semiotica e traduzione intersemiotica.

I.I Tree of Codes: il libro ritagliato

“[A] unique project”, “stunning work of art”, “elegiac poem”, “sculptural object”, “altered book”, “a work of experimental literature”. Sono solo alcune delle espressioni con cui la critica si riferisce a Tree of Codes, il quarto libro dello scrittore Jonathan Safran Foer pubblicato nel 2010 dalla casa editrice londinese Visual Edition. Ma di cosa si tratta esattamente? Se la molteplicità di definizioni appena riportate rimanda a una vasta quanto suggestiva gamma di immagini, tradisce al contempo un qual certo impaccio nell’ascrivere l’opera a un genere definito all’interno del panorama letterario contemporaneo. Queste premesse introduttive aprono la strada a un ampio e a dir poco composito repertorio di campi di indagine che, per ragioni di sinteticità nonché di pertinenza all’ambito di ricerca proposto in questo travail, non potremmo passare al vaglio in questa sede. Nondimeno, ci sembra utile cominciare tracciando una breve panoramica volta a mettere in luce gli aspetti dell’opera suscettibili di sollevare problemi e interrogativi nei confronti della pratica traduttiva. In questo senso, ci limiteremo per il momento a ricostruire l’inconsueto processo creativo alla base della realizzazione di questo libro e a delinearne i tratti originali in termini di percezione estetica e di effetto riportato sul lettore che vi si approccia.

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“This is a book that remembers it has a body” (SAFRAN FOER in WAGNER, 2010). Tree of Codes a metà fra romanzo e opera di design, più che un libro è un oggetto scultoreo. Definito anche “il libro ritagliato” in ragione dei buchi fisicamente riprodotti sulla pagina, è il risultato di un’operazione di die cutting compiuta su quello che l’autore stesso indica come suo libro preferito, “I took my favourite book, Bruno Schulz’s Street of Crocodiles, and by removing words carved out a new story” (SAFRAN FOER in HELLER, 2010). Sulla base della raccolta di racconti dell’autore polacco, Safran Foer procede quindi a selezionare una serie di frasi, parole e talvolta finanche lettere, rimuovendo tutto quanto ritenga “superfluo” ai fini estetico-narrativi prepostosi. Con questa tecnica, senza mai aggiungere niente di proprio pugno, Safran Foer perviene a dare vita a una storia nuova. Il racconto a cui approda risulta infatti distinto sia in termini di narrazione che di personaggi da quello da cui concretamente prende forma. Il risultato è un libro che, esternamente appare come tanti altri, ma all’interno porta i segni della tecnica di produzione di die cutting. Le pagine si susseguono scritte solo sul fronte dove sporadiche parole sopravvissute all’atto di sottrazione dell’autore sono intervallate da veri e propri buchi, riprodotti sulla carta come a voler riempire lo spazio prima occupato dalle parole di Schulz. A corollario di quanto descritto la pagina si presenta al lettore con, per così dire, molti più vuoti che pieni. Alla luce di questa breve introduzione, tre sono gli elementi su cui è nostra intenzione mettere l’accento al fine di far emergere le problematiche traduttive da cui muove questo lavoro di ricerca. Una delle problematiche che per prima balza agli occhi del traduttore che si avvicini al romanzo di Safran Foer è senza dubbio la stretta relazione che, per via della sua stessa natura, “il libro ritagliato” intrattiene con il testo di Schulz. In un’intervista rilasciata al New York Times Safran Foer dichiara:

Working on this book was extraordinarily difficult. Unlike novel writing, which is the quintessence of freedom, here I had my hands tightly bound. Of course, 100 people would have come up with 100 different books using this same process of carving, but every choice I made was dependent on a choice Schulz had made. (Ibid.)

Queste parole non fanno che corroborare la già ferma convinzione che Tree of Codes sia da ritenersi inscindibile dall’opera da cui trae origine. Basti pensare infatti che ciascuna delle frasi che compone il testo scritto del romanzo altro non è che il risultato di una serie di soluzioni e compromessi operati sulla base di un ventaglio circoscritto di enunciati messi, a suo tempo,

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7 nero su bianco da un altro scrittore. Con un debito nei confronti della terminologia saussuriana e la promessa di approfondire la questione più avanti nel travail illustriamo, in maniera semplificata, questa stretta correlazione come un’appropriazione da parte di Safran Foer dei significanti di Schulz, con l’intento di dare vita a nuovi significati. Tuttavia, pur riconoscendo vincoli e costrizioni come elementi primigeni di Tree of Codes, riteniamo essenziale per la nostra analisi tenere a mente ciò che Safran Foer stesso si premura di rammentare, ovvero che, per quanti siano i vincoli concretamente imposti dal testo di partenza, il testo di arrivo resta comunque il prodotto di scelte individuali, traccia e manifestazione della voce dell’autore.

Naturalmente, nell’ottica di una traduzione, difficilmente si potrà non tenere conto del duplice aspetto di vincolo e correlazione sottesi a questa particolare tecnica di scrittura, né tantomeno degli effetti che essa produce in termini di testualizzazione. Uno dei primi nodi da sciogliere riguarderà pertanto la questione della traducibilità di un testo dalle caratteristiche artistico-letterarie così vincolanti. Se si considera l’atto del tradurre come mero trasferimento da un sistema linguistico a un altro, infatti, la traduzione di un’opera come Tree of Codes, che abbiamo visto essere frutto di un processo creativo che gioca con il significato e il significante delle parole, assume contorni chimerici. Con queste premesse è forte la tentazione di orientarsi verso nozioni quali intraducibilità e incommensurabilità dei sistemi. Tuttavia, l’obiettivo che questo travail si pone è proprio quello di individuare un metodo di analisi che prospetti una valida soluzione traduttiva applicabile a quest’opera che, forse, proprio per le problematiche che lascia trapelare a livello traduttologico, non è mai stata riprodotta in altre lingue.

Un ulteriore punto di interesse per l’analisi di Tree of Codes riguarda indubbiamente la questione della sua manifestazione tangibile. In un’ottica traduttiva, questo elemento, frutto della complessa e peculiare testualizzazione dell’opera, pone non pochi interrogativi. Tree of Codes sollecita infatti il lettore, e chiunque vi si approcci, a considerare il romanzo nella sua globalità. Si ha infatti la percezione che, accanto all’espressione verbale, elemento di interesse tipico del romanzo tradizionale, diventino preponderanti anche l’aspetto visivo e la fisicità dell’opera. In un’ottica traduttiva, questa compresenza di diverse dimensioni all’interno di uno stesso testo solleva interrogativi tali da rappresentare un’altra problematica da attenzionare.

Iniziamo col dire che la struttura tangibile di Tree of Codes è legata al carattere innovativo

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8 anche se non precursore dell’opera, che si inserisce in un movimento letterario incline a stravolgere l’immaginario comune del romanzo stampato su carta. A partire dagli articoli di Gibbons (GIBBONS, 2012) e Hallet (HALLET, 2009) che nei loro scritti si propongono di inquadrare questo recente fenomeno letterario, cercheremo di isolare alcuni elementi essenziali per la nostra analisi. Nel suo articolo, Alison Gibbons presenta questo nuovo filone letterario sotto il nome di multimodal literature e, oltre a fornirne una panoramica dei caratteri principali, propone una classificazione sistematica delle sue diverse declinazioni in sottogeneri, tra i quali, alle voci “tactile fictions” e “altered books and collage fictions” troviamo annoverato il nostro Tree of Codes. Come abbiamo già avuto occasione di ricordare, non siamo in questa sede interessati alla problematica della collocazione del libro nel panorama letterario contemporaneo, ciononostante ci sembra utile riportare la definizione che Gibbons suggerisce di multimodal literature in quanto pertinente allo sviluppo di una particolare problematica traduttiva.

The term multimodal literature refers to a body of literary texts that feature a multitude of semiotic modes in the communication and progression of their narratives. Such works are composed not only of words, type-set on the page in block fashion as has become publishing convention. As shall be seen in the course of this chapter, they experiment with the possibilities of book form, playing with the graphic dimensions of text, incorporating images, and testing the limits of the book as a physical and tactile object. (GIBBONS, 2012:420)

In questo paragrafo introduttivo, Gibbons si sofferma su quello che è il principale carattere comune a tutti i multimodal novels, ovvero la presenza di due o più sistemi semiotici che compartecipano alla formazione del tessuto narrativo e all’organizzazione profonda del testo.

A questo proposito, Hallet (HALLET, 2009:129) tiene a specificare che per poter effettivamente parlare di multimodal novels, la presenza di elementi non verbali non può limitarsi ad assumere funzioni di paratesto, tra le quali menziona a mo’ di esemplificazione l’“authorial framing” e i “complementary editorial elements” (HALLET, 2009:129-130). Afferma invece “it is the systematic and recurrent integration of non-verbal and non-narrative elements in novelistic narration that makes the difference” (HALLET, 2009:130). Sarebbe quindi il carattere di integrazione sistematica e non la semplice compresenza di diversi sistemi semiotici a

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9 contraddistinguere questo genere. Riassumiamo dunque le considerazioni a proposito di questa categoria letteraria in due elementi fondamentali che devono trovarsi riprodotti insieme:

• la compresenza di due o più sistemi semiotici all’interno di uno stesso testo1

• l’integrazione di questi diversi sistemi di significazione che, insieme, partecipano alla creazione e alla significazione del testo contribuendo allo sviluppo narrativo secondo le intenzioni di chi lo produce

Dopo questo breve excursus possiamo dirci maggiormente provvisti di strumenti che ci permettono di comprendere la complessità strutturale di quest’opera. Tree of Codes è chiaramente un testo che si avvale di diversi sistemi di significazione: verbale, visivo e tattile.

Il primo consta delle parole che, dopo aver superato l’accurata selezione dell’autore, vanno a formare lo scheletro verbale del testo. Il secondo si manifesta principalmente nell’esito del layout risultante dall’operazione di die cutting. Allo sguardo, i caratteri tipografici riportati sulla pagina costituiscono solo una minima parte della sua fisionomia, le parole stampate si susseguono infatti rare e discontinue, intervallate dai vuoti lasciati dai buchi. Ciò che ne consegue è che, anche quando ci si approccia al libro in maniera tradizionale, ovvero considerando l’oggetto come semplice mezzo atto a veicolare un contenuto (quello della parola stampata su carta), la percezione visiva che si ha esula dall’ordinario. Essa infatti non rimane circoscritta alla pagina che si ha aperta ma va oltre, offrendo un assaggio della profondità fisica del libro. I buchi dovuti all’operazione di ritaglio lasciano infatti intravedere le parole riportate nella pagina successiva, il che spinge il lettore a portare attenzione alla pertinenza di una terza dimensione, ovvero quella tattile. Quest’ultimo livello di significazione si invera nel carattere di fisicità del libro dovuto appunto alla tecnica di produzione che l’autore ha scelto di adottare. In quest’ottica, la pagina non si presenta più come semplice supporto votato unicamente alla valorizzazione dell’espressione verbale, così come il libro non è più un mero contenitore di storie messe nero su bianco; il libro e la pagina diventano invece, nella loro fisicità, elementi integranti della storia che Safran Foer intende raccontare. Per queste ragioni, maneggiare fisicamente il libro diventa momento essenziale della ricezione dell’opera, lasciando intuire, fra l’altro, quanto sia inverosimile pensare di poter sperimentare il

1Nell’utilizzare il termine testo ci riferiamo qui non solo a testi scritti e verbali ma più in generale a un “gruppo di enunciati emessi contemporaneamente sulla base di più sistemi semiotici” (ECO, 1984:64).

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10 medesimo effetto, ad esempio, leggendone la versione digitale o ascoltandone l’audio book.

Questo livello di significazione certamente inconsueto per la narrativa rappresenta un ulteriore strato sensoriale che arricchisce l’esperienza del lettore e incrementa l’effetto estetico. Ciò rappresenta, certo, un elemento di difficoltà aggiuntivo per la traduzione, ma, in un’ottica più pragmatica e ottimistica, potrebbe altresì indicare una possibile modalità da adottare per la trasposizione dell’opera in lingua italiana. Queste tre diverse manifestazioni testuali non sono entità separate ma contribuiscono in maniera concertata all’intentio operis generando una significazione profonda all’interno del sistema narrativo. Ciò detto, per una traduzione di Tree of Codes, bisognerà necessariamente intraprendere un ragionamento che tenga conto di questa compresenza cooperativa di diversi sistemi di significazione. Questo, lo anticipiamo, ci porterà a indagare la dimensione semiotica della traduzione con profondi risvolti all’interno dell’approccio traduttologico.

La terza ed ultima problematica che ci proponiamo di prendere in esame in questa sezione fa da corollario alle due che precedono nell’esposizione. Ci riferiamo infatti all’effetto che questa inusuale composizione del libro produce sul lettore. Accogliendo l’opinione di Safran Foer quando afferma

Well, ’Literature’ is so conservative about its form. ‘Literature’ is more protective than any other art form about its territory. For example, […] if a writer includes images in a novel then it becomes noteworthy, or it’s considered experimental, or gimmicky, or whatever. (SAFRAN FOER in DAWKINS, 2011)

rileviamo che sono proprio le distanze volutamente prese da questo libro nei confronti del romanzo “tradizionale” a produrre sul lettore gli effetti che ci accingiamo a descrivere. L’effetto globale si declina, a nostro avviso, in due forme distinte, lo straniamento da un lato e l’apertura a diverse interpretazioni dall’altro. Per quanto riguarda il primo, ci sembra che il lettore sperimenti una sensazione di straniamento2 sin dal primo approccio alla lettura. Ciò è dovuto al fatto che, aprendo il libro che all’esterno si presenta come tanti altri, le attese vengono largamente smentite, ci si trova infatti di fronte a qualcosa di estremamente diverso

2Dalla teoria drammatica elaborata da B.Brecht, effetto riprodotto dall’autore mediante strategie stilistico- espressive che, creando uno scarto tra la realtà familiare e quella riprodotta, spingono il lettore a cercare significati alternativi.

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11 dall’ordinario. Il sentimento di smarrimento colpisce il lettore proprio sugli aspetti basilari. Ci si interroga su come procedere nella lettura, se per esempio separando una pagina dall’altra, oppure leggendo attraverso i buchi. Tuttavia, quandanche il lettore riesca ad adottare un suo modus legendi, non perviene comunque a eliminare del tutto il senso di smarrimento che, anzi, si protrae e lo accompagna per l’intera durata della lettura. A questo senso di smarrimento e difficoltà concorrono principalmente due elementi: la sporadicità delle parole e le scelte enunciative dell’autore. Per quanto riguarda il primo elemento possiamo constatare che il susseguirsi discontinuo delle parole disposte a una distanza considerevole l’una dall’altra rispetto alla formattazione tradizionale dei romanzi impone un flusso di lettura discontinuo.

Questo, il più delle volte, rende difficile per il lettore seguire agilmente il discorso narrativo. Il secondo elemento ha a che fare con le tecniche enunciative adottate da Safran Foer. In particolare, la proiezione del discorso fuori dall’istanza enunciativa si presenta particolarmente ricca e complessa rivelando una stratificazione di situazioni che si inverano nella manifestazione di attori spazi e tempi diversi. Il lettore si trova quindi a saltare da una situazione enunciativa all’altra in un continuo andirivieni che rende difficile l’assunzione di un punto di vista unico.

Il secondo effetto fa, in un certo senso, da contrappunto ai vincoli del processo creativo. Se, come già discusso, il margine di manovra dello scrittore è circoscritto a una gamma di parole ed espressioni limitate, le possibilità interpretative del lettore aumentano proprio grazie alle scelte effettuate dall’autore durante il processo creativo. Gli spazi lasciati dall’operazione di die cutting, ad esempio, si possono pensare come spazi lasciati alla libera interpretazione del lettore. Ad allargare il ventaglio delle possibilità interpretative contribuiscono, inoltre, l’associazione delle parole e la maneggiabilità dell’opera, elementi, anche questi, in stretta correlazione con i vincoli che caratterizzano il processo creativo di Tree of Codes. Per quanto riguarda l’espressione verbale, la costruzione sintattica delle frasi così come l’associazione semantica delle parole ricorda molto il linguaggio poetico con la naturale conseguenza di richiedere al lettore di spostarsi su un livello figurativo. Quanto alla maneggiabilità dell’opera, Tree of Codes esplora gli aspetti fisici e materiali della lettura ricordando che anche il libro come oggetto può avere un suo valore artistico. Ebbene, queste osservazioni ci spingono a interrogarci su quali siano le strategie traduttive che si possono (oppure potrebbero) mettere in atto per riprodurli, tenuto conto anche di quanto espresso in precedenza.

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12 Date le problematiche elencate finora, l’approccio semiotico sembra fornire gli strumenti più adatti per l’analisi e l’eventuale traduzione dell’opera. Nel ripercorrere alcune teorie di questa disciplina riserveremo particolare attenzione a concetti quali traduzione, semiotica e traduzione intersemiotica. Il nostro scopo è quello di sciogliere i nodi relativi alla questione della traducibilità di Tree of Codes. Ciò richiederà di individuare preliminarmente il metodo più appropriato e proficuo per approcciarsi all’analisi e all’eventuale traduzione del testo. Nel fare ciò ci imbatteremo in questioni secondarie ma di evidente interesse. In particolare, a partire da alcune tipologie di fenomeni traduttivo-interpretativi, cercheremo di inquadrare, seguendo le categorie generali proposte dai diversi studiosi, i processi di produzione implicati nella creazione e nella possibile traduzione di questo testo.

I.II. Jakobson – Una tipologia della traduzione

La riflessione sulla traduzione e le problematiche connesse a una sua sistematizzazione sul piano scientifico (dovute in maniera predominante alla doppia valenza teorica e pratica della materia che per lungo tempo ha costituito una cesura incolmabile) è annosa. Basti pensare infatti che con il termine traduzione si fa alternamente riferimento a tre diversi scenari: il concetto di traduzione, il processo ovvero l’operazione del tradurre, e infine il prodotto di detto processo. La polisemia della parola, già di per sé indicativa di quanto sfaccettata e articolata sia la realtà dell’universo traduttivo, mette ancora più in evidenza le difficoltà che si riscontrano nel dare una sistematizzazione puntuale ai diversi processi traduttivi (e nel nostro caso semiotici) allo scopo di dare vita a una teoria unitaria.

Con il saggio del linguista e semiologo russo Roman Jakobson apparso nel 1959 Aspetti linguistici della traduzione (JAKOBSON, 2001) si apre di fatto il dibattito su traduzione, semiotica e traduzione intersemiotica. In questo saggio, Jakobson distingue tre diverse tipologie del fenomeno traduttivo:

• Traduzione endolinguistica o riformulazione

• Traduzione interlinguistica o traduzione propriamente detta

• Traduzione intersemiotica o trasmutazione

Esistono per Jakobson una traduzione endolinguistica, in altre parole un processo di riformulazione del significato tramite sinonimi e perifrasi; una traduzione interlinguistica che il linguista definisce anche come traduzione propriamente detta a indicare la trasposizione del

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13 significato da una lingua a un’altra; e una traduzione intersemiotica anche detta trasmutazione. Jakobson muove dall’idea che il significato di una parola altro non è che la trasposizione di questo stesso significato in un altro segno, in questo senso per lui “il senso delle parole è un fatto linguistico, o, più precisamente e comprensivamente, un fatto semiotico” (JAKOBSON, 2001:208). A seconda infatti che l’interpretazione del segno linguistico avvenga tramite segni della stessa lingua, di un’altra lingua o tramite sistemi di segni non linguistici, distingue rispettivamente tra traduzione endolinguistica, interlinguistica e intersemiotica. La ripartizione proposta da Jakobson segna una svolta e allo stesso tempo un punto di partenza per la ricerca successiva.

I.III. La critica a Jakobson

Nel suo saggio Dire quasi la stessa cosa Umberto Eco (ECO, 2003) riprende la tripartizione di Jakobson, ne individua limiti e meriti e da questi procede per presentare la sua teoria e una diversa ripartizione. È bene anticipare però che, a differenza di Jakobson, Eco, nella sua classificazione, si concentrerà maggiormente sui fenomeni interpretativi anziché su quelli traduttivi.

Due sono le principali critiche che Eco rivolge al lavoro del linguista russo: aver conferito eccessiva centralità al linguaggio verbale a discapito degli altri sistemi semiotici e aver posto come equivalenti i processi di traduzione e interpretazione.

I.III.I. La centralità del linguaggio verbale

Eco ammette che uno dei tratti più innovativi del lavoro di Jakobson è proprio quello di aver introdotto nella rosa dei fenomeni traduttivi il concetto di traduzione intersemiotica.

Purtuttavia, a suo avviso, ciò che paradossalmente difetta nel suo lavoro è proprio il fatto di aver relegato i sistemi semiotici diversi dal linguaggio naturale a un ruolo marginale. Secondo Eco, infatti, Jakobson, nonostante abbia compiuto evidenti passi avanti rispetto ai suoi predecessori e contemporanei, continua a conferire una posizione centrale alle lingue naturali a discapito degli altri sistemi semiotici. La definizione di traduzione endolinguistica come

“interpretazione dei segni linguistici per mezzo di altri segni della stessa lingua” (JAKOBSON, 2001:209) è per Eco riduttiva. Al di là delle forme di riformulazione che pertengono al

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14 linguaggio verbale, infatti, si potrebbe parlare di riformulazione anche all’interno di altri sistemi semiotici quando, ad esempio, si traspone la tonalità di una composizione musicale.

Uguale critica è rivolta alla traduzione intersemiotica che Jakobson spiega come

“un’interpretazione dei segni linguistici per mezzo di sistemi di segni non linguistici”

(JAKOBSON, 2001:209). Anche in questo caso, per Eco, si tratta di una definizione che tiene conto di una tipologia di casi insufficiente a coprire tutto quanto lo spettro dei fenomeni di traduzione intersemiotica. La trasmutazione, infatti, per Eco non è circoscrivibile alla sola trasposizione di un testo verbale in un altro sistema semiotico, ma può coinvolgere anche due sistemi altri dalla lingua verbale come, per citare un esempio, nel caso della versione in balletto dell’Après midi di Debussy.

A tale riguardo, secondo Fabbri (FABBRI, 2001:18) è evidente la netta contrapposizione di Eco rispetto all’eredità saussuriana3. Nel suo saggio “Una storia tendenziosa” il semiologo italiano traccia una breve storiografia volta a ricostruire il percorso e l’approdo della semiotica a disciplina autonoma. A partire da questo momento, attestabile secondo Fabbri intorno agli inizi degli anni sessanta, la semiotica praticata dagli studiosi assume due diverse sembianze le cui caratteristiche divergenti sono individuate e fatte risalire, ciascuna, al nome di uno studioso. Fabbri parla in primo luogo di semiologia e riassume questo primo complesso di caratteri attraverso le teorie dello studioso Roland Barthes. Si tratta, come indica il termine stesso semiologia, di una disciplina che non è ancora una vera e propria semiotica quanto piuttosto uno studio della significazione che si basa principalmente sul linguaggio verbale. Se infatti, per il semiologo resta assodato che esistono nel mondo della significazione diversi sistemi di segni, il problema, scrive Fabbri, è che per Barthes

questi sistemi di significazione sono tutti comprensibili e traducibili in quel supremo, estremo sistema di segni che è la lingua. […] A differenza di altri sistemi (visivo, gestuale, musicale, spaziale etc.), la lingua gode della possibilità di nominare sé stessa e gli altri segni della cultura. C’è insomma in Barthes un’irreversibilità tale per cui si può dire che, alla fine,

3Secondo la ricostruzione delle varie correnti di pensiero interne alla disciplina, Jakobson, così come Hjelmslev, apparterrebbero alla tradizione di linguistica strutturale inaugurata da Saussure. Questa si basa sullo studio della lingua come sistema autonomo e unitario di segni.

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15 la semiotica è una sorta di trans-linguistica, ossia una linguistica capace di parlare, oltre che della lingua, di tutti i sistemi dei segni. (FABBRI, 2001:16-17)

Ora, sembra che Eco, con le sue critiche relative alla primarietà del linguaggio conferita da Jakobson alla sua classificazione, confermi, in un certo senso, la teoria di Fabbri sulla duplice natura che, nel tempo, ha caratterizzato la ricerca semiotica. Se la posizione di Jakobson è secondo Eco più vicina a una semiologia che a una semiotica, lo studioso italiano valorizzerebbe invece una tradizione diversa (FABBRI, 2001:18-19): in contrapposizione alla semiologia di Barthes, Fabbri parla di un paradigma semiotico consolidatosi appunto attraverso la figura di Umberto Eco. Eco, afferma Fabbri, si inserisce nella tradizione inaugurata da Charles Sanders Pierce. “La semiotica di Peirce parte dall’idea di non valorizzare in modo particolare il linguaggio. Per Peirce la teoria del segno era una semiotica, ossia uno studio di tutti i tipi di segni, non soltanto una semiologia, ossia uno studio dei segni a partire dal linguaggio verbale e umano” (FABBRI, 2001:19). Si tratta di un approccio, quello di Eco e di Peirce, che non soltanto prende in considerazione tutti i tipi di segni ma che si propone altresì di studiarli e classificarli applicando un criterio di parità. Il paradigma semiotico descritto da Fabbri lascia intuire come la proposta di una classificazione dei fenomeni traduttivo- interpretativi di Eco si fondi su presupposti, almeno per quanto riguarda lo spettro di fenomeni presi in considerazione, piuttosto diversi da quelli che sottendono la ripartizione proposta da Jakobson. Come vedremo, infatti, la classificazione dei fenomeni interpretativi di Eco si presenta con uno sguardo sicuramente più attento ai sistemi di significazione diversi dal linguaggio verbale.

I.III.II. Interpretare non è tradurre

Al di là della centralità del linguaggio verbale, però, Eco rivolge l’osservazione di maggior rilievo sul lavoro di Jakobson alla questione relativa all’identificazione del concetto di traduzione con quello di interpretazione. Eco rileva come nel suo saggio Jakobson utilizzi il termine interpretazione per definire tutti e tre i diversi tipi di traduzione da lui listati. Così facendo, potrebbe sembrare che Jakobson stabilisca una corrispondenza tra interpretare e tradurre tale da lasciare l’impressione di concepire il complesso della funzione semiotica come fosse una continua operazione di traduzione (ECO, 2003:226). Secondo Eco, tuttavia,

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16 l’intenzione di Jakobson non sarebbe quella di sostenere la coincidenza assoluta tra i processi di traduzione e interpretazione quanto piuttosto di sottolineare, seguendo i precetti peirceiani, che per lui il significato può essere spiegato come una semplice traduzione di un segno in un altro o in un sistema di segni. In questo senso, stando a Eco, l’intenzione di Jakobson è quella di offrire una teoria della semiosi che superi tutte le diatribe precedenti su dove si collochi il significato, senza per questo affermare che interpretare e tradurre siano necessariamente la stessa cosa. Con le sue asserzioni Jakobson intenderebbe quindi allontanare la discussione da quelle concezioni metafisiche che focalizzavano la ricerca sulla relazione esistente tra segno e realtà. Tali concezioni sviluppavano la problematica in merito a cosa il segno identificasse nella realtà e al suo rapporto con il referente anziché concentrarsi sul segno stesso. Per dimostrare che ogni interpretazione non è necessariamente una traduzione, a meno che non si consideri in questi casi il termine traduzione come metafora, un “quasi come se” (ECO, 2003:243), Eco propone un esperimento di traduzione mediante riformulazione. In questo esperimento linguistico, a partire dalla traduzione in italiano di una scena dell’Amleto, Eco tenta di produrre un testo che si possa definire traduzione del precedente sostituendo alcuni dei termini originali con le diverse varianti di riformulazione; nel caso di specie, definizione, sinonimia e parafrasi.

Il risultato che ne scaturisce è maldestro e in alcuni casi sfiora la parodia. Di fatto, queste tre riformulazioni non possono essere considerate traduzioni in quanto, pur riportando lo stesso contenuto, non riproducono lo stesso effetto (ovvero il proposito dominante) del testo originale (Ibid.). Eco propone di classificarle, invece, tra i fenomeni interpretativi. In definitiva, l’esperimento linguistico appena citato induce Eco a concludere che l’universo dei fenomeni interpretativi è ben più vasto di quello della traduzione propriamente detta in quanto, così come abbiamo visto per la riformulazione, esistono forme di interpretazione che non sono assimilabili alla traduzione. Nondimeno, se è vero che tra traduzione e interpretazione non vi è coincidenza assoluta, è altrettanto vero secondo Eco che per tradurre è sempre necessaria una preliminare operazione di interpretazione. L’esempio più evidente di come per individuare il significato e quindi tradurre sia necessario interpretare rimane per Eco la traduzione interlinguistica. Ogni traduzione prevede necessariamente un’analisi critica del testo fonte, che implica, a sua volta, una personale interpretazione da parte del traduttore. In questo senso, la riformulazione così come qualsiasi operazione di interpretazione si presenta come un

“momento ancillare” (ECO, 2003:245) dell’operazione di traduzione. Quello di riformulazione

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17 del testo fonte è pertanto un passaggio indispensabile che si compie nella mente del traduttore al fine di disambiguare i termini secondo contesto e sulla base di ipotesi plausibili riguardo al mondo rappresentato. Solo successivamente alla decisione interpretativa all’interno della stessa lingua si potrà procedere con la traduzione da lingua a lingua. È per queste ragioni che, mentre Jakobson classifica la riformulazione come tipologia traduttiva4, Eco sceglie di ascriverlo all’universo dei fenomeni interpretativi.

I.III.III. La traduzione avviene fra testi e non fra sistemi

La ragione per cui Eco, a differenza di Jakobson, decide di formulare una tipologia delle interpretazioni è da rintracciarsi nella profonda convinzione che la traduzione sia troppo varia e legata alla peculiarità del testo per poter essere imbrigliata in categorie generali.

Approfondiremo la questione più avanti, dopo aver introdotto le nozioni di forma e sostanza legate ai piani del linguaggio. Per ora ci basti capire cosa intende Eco quando scrive: “la traduzione, ed è principio ormai ovvio in traduttologia, non avviene tra sistemi, bensì tra testi”

(ECO, 2003:37). Il sistema semiotico, a differenza del testo, ha per sua natura una struttura astratta. Se prendiamo ad esempio il sistema linguistico, esso si compone di elementi fonetici, morfologici, sintattici, lessicali e di segmentazione del pensiero che interagiscono fra loro seguendo una serie di regole e norme stabilite dalla grammatica di una data lingua e dalla cultura in cui essa si inserisce. Questi elementi sono da considerarsi un nucleo di potenzialità astratte che solo tramite il processo di enunciazione si trasformano in testo. Affermare che la traduzione possa avvenire tra due sistemi linguistici significherebbe pertanto accettare l’idea che il miglior esempio di traduzione sia da individuarsi nella realizzazione di un dizionario bilingue (Ibid.). Questo è invece, come noto, un semplice strumento che i linguisti mettono a disposizione dei traduttori. È solo nel momento in cui gli elementi di sistema si combinano tra loro e tramite il processo di enunciazione (sia esso fonico o grafico) prendono forma concretamente, che si ha formazione di un testo ed è quindi possibile parlare di traduzione.

Ora, è evidente che il processo di enunciazione così come descritto conferisce al testo

4In realtà, secondo Eco, Jakobson aveva utilizzato il termine traduzione per “strizzare l’occhio” alla raccolta di scritti On translation a cui il suo saggio era destinato. Nel suo scritto, Jakobson si poneva come obiettivo quello di proporre una distinzione tra i vari tipi di traduzione. Nel fare ciò, aveva però semplicemente omesso di classificarli quali forme di interpretazione, cosa che avrebbe inevitabilmente condotto a definire la traduzione come una specie del genere interpretazione (ECO, 2003:226).

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18 caratteristiche di originalità dovute alla specificità delle condizioni in cui si realizza l’enunciazione (contesto, enunciante, scopo…) e sono proprio queste caratteristiche a definire la peculiarità del processo di traduzione che, secondo Eco, è difficilmente generalizzabile e richiede di essere valutato caso per caso.

Eco propone dunque un prospetto delle diverse forme di interpretazione. Esso si presenta suddiviso in tre macrocategorie a loro volta comprensivi di varietà e suddivisioni interne. Dette macrocategorie sono: l’interpretazione per trascrizione, l’interpretazione intrasistemica e l’interpretazione intersistemica.

L’analisi di queste tipologie di interpretazione e delle loro sottocategorie è affrontata facendo ampio riferimento al pensiero di uno dei fondatori della glossematica, il filosofo e linguista danese Louis Trolle Hjelmslev.

I.IV. La glossematica di Hjelmslev

Per Hjelmslev il segno è “un’entità a due facce generata dalla connessione fra un’espressione e un contenuto” (HJELMSLEV, 2001:68). Questi sono i terminali (o funtivi) della funzione segnica rappresentante la relazione fra i due. Funzione segnica e funtivi sono in necessaria presupposizione reciproca. Questo significa che non può esistere funzione segnica se non in compresenza dei suoi funtivi e, viceversa, espressione e contenuto non possono esistere insieme senza generare una funzione segnica. Ugualmente, anche i due funtivi si trovano in presupposizione reciproca fra loro e l’uno non è concepibile senza l’altro. A questo proposito Fabbri rileva che la teoria di Hjelmslev si inserisce nella tradizione saussuriana prendendo debita distanza dalla semiotica di Pierce che considera invece il segno nella sua globalità. Già per Saussure infatti il segno è un’entità a due facce: il significato e il significante.

Quando parla di funtivi in necessaria presupposizione reciproca Hjelmslev attinge a piene mani dal pensiero saussuriano (FABBRI, 2001:23-25).

La lingua è ancora paragonabile a un foglio di carta: il pensiero è il recto ed il suono è il verso;

non si può ritagliare il recto senza ritagliare nello stesso tempo il verso; similmente nella lingua, non si potrebbe isolare né il suono dal pensiero né il pensiero dal suono; non vi si potrebbe giungere che per un’astrazione il cui risultato sarebbe fare della psicologia pura o della fonologia pura.

(MARRONE, 2001:62)

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19 Eppure, a questo proposito, Hjelmslev nel suo saggio osserva che, in un’occasione, Saussure incappa nel tranello da lui stesso anticipato, ovvero cercare di analizzare i due funtivi singolarmente nel tentativo di chiarire il significato di funzione segnica. Si tratta di un evidente paradosso. Se infatti accettiamo l’idea che “un’espressione è espressione solo grazie al fatto che è espressione di un contenuto, e il contenuto è un contenuto solo grazie al fatto che è contenuto di un’espressione” (MARRONE 2001:69) e che, solo congiuntamente, espressione e contenuto possono generare una funzione segnica, è chiaro che ricorrere alla separazione dei due proprio per spiegare il concetto di funzione segnica risulta un ragionamento privo di senso.

I.IV.I. Dal significato al contenuto

Gianfranco Marrone in “Significato, contenuto, senso” (MARRONE, 2001) individua la teoria di Hjelmslev come uno dei momenti spartiacque nello studio della semantica semiotica.

Marrone (Ibid.) propone un’analisi delle fasi che hanno portato il senso al centro dell’interesse della semantica semiotica. A questo risultato si sarebbe arrivati tramite un duplice movimento che avrebbe spostato l’interesse in prima battuta dal significato al contenuto, poi dal contenuto al senso. Si tratta secondo Marrone di un rapporto, quello che la semiotica intrattiene con la semantica, che si costruisce “in negativo” ovvero prendendo le distanze rispettivamente prima dalla logica poi dalla linguistica (MARRONE, 2001:29). La glossematica di Hjelmslev sancisce per Marrone il primo movimento. In Hjelmslev Il significato non è più concepito come entità congiunta al suo referente extrasistemico, viceversa, assume un valore relazionale nella sua inscindibilità con il significante. Marrone puntualizza che certo, già Saussure aveva in parte espresso nell’elaborazione delle sue tesi questa nuova visione di significato e referente tra loro irrelati affrancando definitivamente il significato da ogni relazione di riferimento al mondo extralinguistico. Tuttavia, non era ancora riuscito, sostiene Marrone, a svincolarlo dalla visione più psicologica che linguistica di «immagine mentale» e

“rappresentazione psichica” (MARRONE, 2001:30). È solo con la glossematica di Hjelmslev (Hjelmslev, 1943) che si compie il totale superamento della dimensione psicologica saussuriana. In questa fase, la semantica semiotica si interessa principalmente al contenuto e

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20 più precisamente alle possibili relazioni che, a seconda dei casi, tale contenuto intrattiene con la sua espressione. La riflessione muove quindi in direzione della funzione segnica, ovvero della relazione di solidarietà tra il piano dell’espressione e il piano del contenuto. Il passaggio dal significato al contenuto trascende la mera questione terminologica rivelando uno sviluppo della teoria del linguaggio che esclude definitivamente qualsiasi entità psicologica o meno di carattere extralinguistico. L’idea del significato inteso come messaggio veicolato dall’enunciante e quindi estrinseco alla struttura semiotica è superato in favore di un più vivo interesse per il contenuto, categoria intrinseca al segno e svincolata da ogni connessione con l’esterno. Ma a Hjelmslev va anche il merito di avere proposto una ripartizione delle componenti del segno più meticolosa rispetto alla bivalenza saussuriana. Egli infatti approfondisce la struttura segnica elaborando il modello della stratificazione del linguaggio.

I.IV. II. Materia forma e sostanza

Nel modello presentato da Hjelmslev ciascuno dei piani del linguaggio consta di una forma e di una sostanza. A monte di questa stratificazione vi è il materiale primo grazie al quale ogni linguaggio (in quanto forma) si trova manifestato. Si tratta di quella che Hjelmslev definisce materia o continuo. La materia è per Hjelmslev una massa amorfa che comprende idealmente tutto ciò di cui si può avere esperienza. Tuttavia, fintanto che non viene articolata in una forma essa non è di per sé né conoscibile né esprimibile. “A determinare la sua forma sono soltanto le funzioni della lingua, la funzione segnica e le altre da essa deducibili. La materia rimane, ogni volta, sostanza per una nuova forma, e non ha altra esistenza possibile al di là del suo essere sostanza per questa o quella forma” (HJELMSLEV, 2001:71). Se prendiamo in esame i sistemi linguistici la cui analisi è al centro dell’indagine di Hjelmslev, la materia è il fattore che accomuna tutte le lingue; esse si differenziano invece proprio per il fatto che articolano questa stessa materia in forme differenti. A partire dalle segmentazioni che ogni lingua opera sulla materia, questa si delinea poi, nel momento della manifestazione del processo linguistico, in sostanza. Restando nell’ambito del sistema verbale vediamo come Hjelmslev descrive nello specifico forma e sostanza per ognuno dei due piani del linguaggio. Per quanto riguarda il piano dell’espressione lo studioso prende in esame quella zona della materia che costituisce l’insieme fonico-acustico percepibile dell’apparato umano. All’interno di questa massa amorfa

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21 di suoni, la forma linguistica opera una segmentazione che si rivela specifica ad ogni lingua.

Per quanto riguarda il continuo costituito dal profilo trasversale del palato Hjelmslev spiega che, ad esempio, il lettone e l’eschimese “distinguono due aree k, la cui delimitazione non è la stessa nelle due lingue: l’eschimese distingue una zona uvulare e una velare, il lettone una velare e una velopalatale” (HJELMSLEV, 2001:72). È evidente dunque che la diversità dei sistemi fonici delle due lingue affonda le sue radici proprio in questa segmentazione difforme della materia. Solo grazie a questo processo di segmentazione che pertinentizza la materia secondo schemi fonici noi siamo in grado di produrre suoni (vocalici o consonantici) che, per il fatto di essere riconducibili ad un sistema circoscritto, rappresentano la sostanza dell’espressione. Riassumendo, la forma dell’espressione, risultato della selezione di suoni che la lingua individua come propri, è identificabile con il suo sistema fonico; la sostanza invece, in quanto materia assunta dalla forma in vista della significazione, è rappresentata, nel caso di specie, dalla produzione fisica dei suoni vocalici o consonantici così come segmentati dalla forma.

In merito al piano del contenuto, il materiale primo che costituisce la massa amorfa consta di tutte le possibili esperienze e pensieri relativi al mondo. Così come per il piano dell’espressione, anche per il contenuto, lingue diverse articolano diversamente una stessa zona di materia. Ogni lingua pertinentizza la materia secondo schemi semantici e di pensiero propri, generando così, nell’atto della significazione, sostanze diverse. Per chiarificare il concetto, Hjelmslev propone l’esempio dei diversi paradigmi offerti dalla designazione dei colori nelle varie lingue. Confrontando il gallese e l’inglese Hjelmslev mostra come all’inglese green corrispondano in gallese due diverse designazioni ovvero glas o llwyd. Questo è indicativo di come le due lingue segmentino in maniera diversa una stessa zona della materia.

Nello specifico, mentre l’inglese ritaglia all’interno del continuo dei colori un’unica zona che verbalizza con il termine green, il gallese suddivide invece questa stessa zona in due ulteriori aree a cui assegna altrettante designazioni. La sostanza del contenuto si realizza allora nel processo di enunciazione, momento nel quale è generato il senso che tale forma del contenuto assume. Riproponiamo di seguito lo schema presentato da Hjelmslev che illustra in un confronto schematico la mancanza di corrispondenza tra le designazioni dello spettro dei colori risultato di una diversa segmentazione di uno stesso continuo.

(24)

22 Per quanto riguarda il sistema verbale possiamo quindi definire la forma del contenuto come il sistema semantico proprio ad ogni lingua e la sostanza del contenuto come il modo di percepire il mondo sulla base del singolo sistema semantico. Rifacendosi ai due esempi appena offerti si potrebbe spiegare l’interazione fra piano del contenuto e piano dell’espressione come l’organizzazione di una parte di materia, quella relativa al sistema fonico (piano dell’espressione), al fine di poter esprimere altre parti della stessa materia facenti riferimento a un ventaglio di colori (piano del contenuto). A proposito di questa correlazione tra elementi della forma dell’espressione e del contenuto, Umberto Eco5 riflette sul carattere di possibilità astratta della forma. Nel momento in cui vengono designate le forme dell’espressione e del contenuto, la materia cessa di essere una massa amorfa e diventa formata; tuttavia, fintanto che le sostanze non vengono prodotte, queste forme rappresentano solo un nucleo di potenzialità astratte offerto da un dato sistema (nel nostro caso quello linguistico). Solo

“quando, sfruttando le possibilità offerte da un sistema linguistico, viene prodotta una qualsiasi emissione (fonica o grafica) non abbiamo più a che fare col sistema, ma con un processo che ha portato alla formazione di un testo” (ECO, 2003:49). Tornando alla distinzione fra testo e sistema già accennata in precedenza, possiamo ora riprenderne le definizioni alla luce dei concetti di forma e sostanza appena esposti. Se i testi si presentano essenzialmente come sostanze attuate, i sistemi rappresentano invece un insieme di articolazioni della materia in una data forma. A questo punto, se, come sostenuto da Eco, la traduzione si opera fra testi e non fra sistemi, possiamo facilmente intuire quanta rilevanza assuma per il processo traduttivo la questione delle sostanze. Per giunta, nella sua analisi, Eco propone un’ulteriore stratificazione delle sostanze dei due piani del linguaggio. Senso e Manifestazione Lineare (termini con i quali Eco si riferisce rispettivamente alla sostanza del contenuto e a quella

(fonte immagine HJELMSLEV, 2001:71)

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23 dell’espressione) non sono, a suo avviso, da considerarsi come blocchi omogenei di sostanza.

Esistono infatti sia per l’espressione che per il contenuto diversi livelli della sostanza ed è proprio nella scelta di quali tra questi livelli privilegiare che si gioca la scommessa interpretativa del traduttore.

I.V. Eco – Tipi di interpretazione

Riportiamo di seguito la classificazione delle diverse forme di interpretazione proposta da Umberto Eco (ECO, 2003:236).

1. Interpretazione per trascrizione 2. Interpretazione intrasistemica

a) Intrasemiotica, all’interno di altri sistemi semiotici b) Intralinguistica, all’interno della stessa lingua naturale c) Esecuzione

3. Interpretazione intersistemica

a) Con sensibili variazioni della sostanza

• Interpretazione intersemiotica

• Interpretazione interlinguistica, o traduzione tra lingue naturali

• Rifacimento

b) Con mutazione di materia

• Parasinonimia

• Adattamento o trasmutazione

Dopo aver contrassegnato l’interpretazione per trascrizione6 come non rilevante ai fini del discorso, Eco passa al vaglio le altre due macrocategorie ovvero l’interpretazione intrasistemica e l’interpretazione intersistemica che ritiene invece di maggiore interesse per quanto riguarda l’indagine volta a definire la traduzione e i suoi contorni. In questa analisi, particolare attenzione è riservata alle differenze di sostanza dell’espressione che Eco considera di importanza capitale nei processi di traduzione. Vedremo che in tutte le forme di interpretazione descritte da Eco vi è inevitabilmente mutamento di sostanza. Tuttavia, solo in

6Si tratta di un processo di sostituzione automatica. Essa ubbidisce a stretta codifica svuotando così il processo interpretativo di ogni decisione e ricorso al contesto.

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24 taluni casi tale mutamento risulta effettivamente rilevante. In tal senso, la discriminazione è dettata dallo scopo o effetto che il testo si prepone.

Nel suo prospetto Eco sembra fissare i confini della traduzione delimitandola da un lato con l’interpretazione intrasistemica e dall’altro con l’interpretazione intersistemica con mutazione di materia.

I.V.I. L’interpretazione intrasistemica

L’interpretazione intrasistemica di Eco corrisponde grosso modo a quello che Jakobson chiamava traduzione endolinguistica o riformulazione. La differenza sostanziale, come già accennato, è che Eco estende il concetto di riformulazione anche ai sistemi non verbali.

Abbiamo già avuto modo di constatare che per lui l’interpretazione intrasistemica, sia essa all’interno della stessa lingua naturale o di altri sistemi semiotici, è una forma di interpretazione che, seppur necessaria al processo di traduzione, non coincide con quest’ultimo. Tale processo è definito da Eco interpretativo in quanto tenta di spiegare meglio uno stesso contenuto attraverso segni diversi di uno stesso sistema semiotico. In termini di piani del linguaggio si parlerà quindi di generare, a partire dalla stessa materia e forma dell’espressione, una sostanza diversa allo scopo di delimitare la forma del contenuto7. E questo, Eco tiene a precisarlo, è valido sia per i sistemi verbali che per gli altri. Si noti inoltre, come, in queste forme di interpretazione, il cambiamento della sostanza dell’espressione risulti non pertinente in relazione al fine pratico preposto al processo di riformulazione.

Per quanto riguarda l’esecuzione, Eco le riserva un posto particolare come anello di congiunzione tra le interpretazioni intrasistemiche e quelle intersistemiche. Si tratta infatti di una forma di interpretazione che, di fatto, comporta materialmente il passaggio da un sistema ad un altro. Solitamente infatti si ha esecuzione quando una partitura scritta viene realizzata a livello fonico, sonoro, visivo o gestuale a seconda che si tratti, per fare qualche esempio, di una messa in scena di una pièce teatrale, dell’esecuzione di una partitura musicale o della realizzazione di un balletto (ECO, 2003:251). Ad eliminare la distanza fra i due diversi sistemi

7Parlando di interpretazione intrasistemica all’interno di sistemi semiotici altri da quelli verbali Eco propone l’esempio di quando si aumenta o diminuisce la scala di riduzione di una mappa. Anche in questo caso si rimane all’interno della stessa materia e forma dell’espressione ma si genera una sostanza dell’espressione diversa al fine di delimitare meglio un aspetto della forma del contenuto (ECO 2003:238).

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25 interviene però l’idea alla base di qualsiasi partitura destinata ad esecuzione che tale forma di scrittura sia ancillare rispetto al sistema semiotico a cui rinvia. Basti pensare, infatti, che al suo interno vengono fornite una serie di istruzioni per l’esecuzione che, fra le altre, prescrivono anche la materia in cui si assume il testo debba essere realizzato. Ciò sottintende che anche quando la partitura viene semplicemente letta, senza essere eseguita, vi sono al suo interno elementi che rendono possibile figurarsi come si presenterebbe se venisse realizzata. È proprio questa serie di istruzioni che lega a doppio filo testo scritto e sistema semiotico “di arrivo” a ridurre la distanza fra i due sistemi e, quindi, a indurre Eco a parlare di interpretazione intrasemiotica. In termini di piani del linguaggio, si riscontra indubbiamente cambiamento di sostanza (ma anche di forma) dell’espressione. Tuttavia, se si tratta di ricondurre una data esecuzione al suo testo tipo, il cambiamento di sostanza può essere considerato come non pertinente. Assume invece un ruolo importante là dove si facciano intervenire criteri di gusto estetico. In questo caso la diversa sostanza dell’espressione che si manifesta nelle varie interpretazioni diventa rilevante, spiegando, fra l’altro, che si possa prediligere l’una o l’altra esecuzione (ECO, 2003:253).

I.V. II. Interpretazione intersistemica con mutazione di materia

Un altro limite che marca il confine tra traduzione e interpretazione è rintracciabile, secondo Eco, nella diversità di materia. Corrisponde, a grandi linee, a ciò che Jakobson chiamava trasmutazione, ovvero quel processo che nel passare da un sistema semiotico ad un altro implica non solamente un mutamento della forma dell’espressione (come avviene già nella traduzione interlinguistica) ma anche un cambiamento di materia. Secondo Eco, in questo caso, non si può parlare di traduzione in quanto due sistemi di materia diversa, per natura, non riusciranno mai ad esprimere le stesse cose. Questo è riconducibile al fatto che ogni dato sistema, in base al tipo di materia entro cui si esprime, rende pertinenti taluni o altri elementi. In tal modo, un sistema semiotico che si sviluppa a partire da una data materia può esprimere di più o di meno di un sistema che si realizza in una materia diversa. Poniamo l’esempio di un poema che si voglia riprodurre a livello figurativo. È possibile che nella mutazione di materia dal verbale al visivo l’artista riesca a trasmettere sensazioni simili a quelle che si provano leggendo il testo originale, tuttavia, è molto probabile che nel passare al sistema

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26 visivo vengano persi o aggiunti alcuni significati rispetto al testo originale. Si pensi ad esempio alla riproduzione figurale che si possa fare di una donna evocata in una poesia i cui versi, però, non lasciano trapelare niente riguardo il suo aspetto fisico. Nel passaggio ad un sistema visivo è inevitabile conferire alla donna un aspetto fisico che comprenda la scelta del colore dei capelli, degli occhi, della statura etc. Così facendo, però, il testo di arrivo dice indubbiamente di più di quanto detto nel testo fonte. Questo è dovuto al fatto che nella trasmutazione di materia si rendono pertinenti alcune connotazioni che nel sistema di origine non erano rilevanti. Eco ne consegue che, nel rendere esplicito qualcosa che in origine era implicito, si è compiuta un’operazione di interpretazione e non di traduzione dal momento che “una traduzione non deve dire più di quanto non dica l’originale, ovvero deve rispettare le reticenze del testo fonte” (ECO, 2003:238). Questo fenomeno di trasmutazione di materia come descritto finora è indicato da Eco con il termine adattamento. Eco sostiene che ogni adattamento prevede, alla base, una presa di posizione critica. Ciò che distinguerebbe allora l’adattamento dalla traduzione, che pure come abbiamo visto implica anche essa una presa di posizione da parte del traduttore, sta nel fatto che nella traduzione le scelte interpretative tendono a non mostrarsi e a risultare impercettibili rispetto a quanto avviene nell’adattamento, dove diventano invece preponderanti (ECO, 2003:336). Esistono addirittura casi di adattamento in cui, secondo Eco, si dovrebbe parlare in modo più specifico di uso creativo del testo fonte piuttosto che di interpretazione. L’idea alla base di questo processo sarebbe quella di “partire da un testo stimolo per trarne idee e ispirazioni onde produrne poi il proprio testo” (ECO, 2003:341).

Per concludere la rassegna sulle interpretazioni intersistemiche con mutazione di materia bisogna parlare di parasinonimia che Eco definisce

“casi specifici di interpretazione in cui, per chiarire il significato di una parola o di un enunciato, si fa ricorso a un interpretante espresso in diversa materia semiotica (o viceversa). Si pensi per esempio all’ostensione di un oggetto per interpretare una espressione verbale che lo nomina, o di converso a quella che chiamerei ostensione verbale, come quando un bambino punta il dito verso un’automobile e io gli dico che si chiama macchina.” (ECO 2003:316)

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27 Trattandosi di un processo innescato al fine di chiarire meglio un contenuto, si può constatare che questa forma di interpretazione risulta molto simile alla riformulazione dei linguaggi verbali. In termini di piano del linguaggio, ciò che lo differenzia però dalla riformulazione di Jakobson è che oltre al cambiamento di sostanze dell’espressione si ha anche mutazione di materia.

I.V.III. Interpretazione intersistemica con sensibili variazioni della sostanza

Per quanto riguarda quest’ultima categoria si noti che Eco non si sofferma a lungo sulle forme di interpretazione intersemiotica concentrando invece la maggior parte delle sue attenzioni sull’interpretazione anche detta traduzione tra lingue naturali. In questa categoria, secondo Eco, il mutamento di sostanza dell’espressione, che finora abbiamo visto essere trascurabile, nel passaggio da una lingua all’altra diventa invece particolarmente rilevante. Sul piano dell’espressione, spiega Eco (ECO 2003:260), si manifestano tipi di sostanza di varia natura che non sempre coincidono con fenomeni linguistici. La linguistica da sola rappresenta infatti solo una piccola parte dei fenomeni che si devono tenere in considerazione nel processo di traduzione interlinguistica. In un testo, esistono tratti stilistici che non rientrano nella sfera della sostanza linguistica e che per questo sono detti soprasegmentali o paralinguistici. In generale, è possibile riscontrare elementi stilistici in qualsiasi frase scritta o pronunciata (anche senza scopo estetico); tuttavia, quando l’interesse si concentra prevalentemente sul piano del contenuto, la sostanza dell’espressione puramente linguistica risulta insensibile alle variazioni soprasegmentali. La loro presenza, sostiene Eco (ECO, 2003:277), è puramente funzionale, essa serve esclusivamente a colpire i sensi e solo successivamente si innesca il processo di interpretazione del contenuto. È invece nei testi a cui si riconoscono finalità estetiche “e in ogni arte, là dove non conta solo che si vedano, per esempio in un quadro, una bocca o un occhio su di un volto, ma che si valutino il tratto, la pennellata, […]” (ECO, 2003:276) che le differenze di sostanza, soprattutto quelle soprasegmentali, si rivelano particolarmente rilevanti. In realtà, tiene a precisare Eco, la rilevanza dei tratti stilistici diventa fondamentale non soltanto per quanto riguarda la traduzione di testi con finalità estetiche ma anche quella

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