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Pratica e rituale: un caso di sospetto quietismo nel Piemonte del Settecento

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Academic year: 2021

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Submitted on 26 Jan 2018

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Piemonte del Settecento

Elisabetta Lurgo

To cite this version:

Elisabetta Lurgo. Pratica e rituale: un caso di sospetto quietismo nel Piemonte del Settecento . Quaderni Storici, Il Mulino, 2016, 3, p. 503-28. �hal-01694117�

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QUADERNI STORICI 151 / a. LI, n. 1, aprile 2016

UN CASO DI SOSPETTO QUIETISMO NEL PIEMONTE DEL SETTECENTO

titolo inglese

This article examines the trial against a small group of devotees, leaded by a visionary woman and belonging to the regular and secular clergy of Asti, all convicted of «quietism» by the Holy Office in Rome: through the anlysis of this episode, I propose to study the «quietism» not only as a doctrinal and theological issue, but also as a competition problem among religious practices. The essay offers some initial reflections, as a part of a larger study, about the relationship between devotional practices and jurisdictional conflicts in early modern Piedmont: rather than concen- trating on the examination of the relationship between Rome and political institutions in the State of Savoy, it focuses on local devotional practices and their role in both political and social conflicts.

Keywords: State of Savoy, religious studies, female mysticism, heresy, local devotional practices.

1. Nel 1687 la condanna di Miguel Molinos sancì il definitivo rifiuto, da parte dell’autorità cattolica, del quietismo, «l’ultima emergenza ere- ticale» affrontata dalla Chiesa alla fine del Seicento1. Esso si presentava come una corrente mistica che perseguiva il raggiungimento della per- fezione attraverso l’annullamento della volontà e l’assorbimento passivo nella contemplazione divina, fondata sulla cosiddetta orazione di quie- te. A suscitare il sospetto dell’autorità romana era l’idea di un percorso di perfezione basato sull’abbandono e la quiete dell’anima, sottraendo in questo modo l’esperienza mistica al controllo istituzionale2.

L’attenzione degli studiosi si è finora concentrata non tanto su pra- tiche considerate come quietiste, quanto sulla loro repressione, parten- do dalle definizioni elaborate dall’Inquisizione e dal rapporto fra giudici e accusati: in quest’ottica, gli inquisitori costruiscono il significato delle pratiche rituali e la cultura che esse esprimono3. Dietro alla diffusione di pratiche «quietiste» si è individuata la persistenza di un modello di santità mistico-carismatica nell’Italia della Controriforma: questo parti- colare tipo di esperienza mistica fu «congelato» dottrinalmente dall’au-

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torità romana, che lo declinò in eresie definite come santità affettata, pelaginismo o quietismo4.

La recente storiografia ha evidenziato il carattere estremamente va- rio del quietismo, che rende molto difficile darne una precisa definizio- ne; in Italia tendenze quietiste si legarono soprattutto a questioni con- nesse alle pratiche devozionali, mettendo in secondo piano problemi teologici e dottrinali. Ciò che sembra caratterizzare il quietismo italiano è, soprattutto, la destrutturazione in correnti sotterranee, che gli con- sentirono di penetrare nel mondo delle devozioni dei laici e del basso clero; molti imputati processati per sospetto quietismo, peraltro, si mo- strarono inconsapevoli della propria eterodossia, confermando la com- plessa realtà di molteplici devozioni celata sotto un’unica, omologante etichetta5. Si è parlato, a questo proposito, di «obliquità» del quietismo, rilevandone la natura pratica, in quanto scelta religiosa inserita nelle ordinarie espressioni di vita cristiana: la rielaborazione dottrinale ope- rata dall’Inquisizione fornì, in sostanza, un’interpretazione unitaria a un movimento multiforme, che attraversava «vissuti e condizioni culturali differenti»6.

Nei paragrafi seguenti, analizzerò un caso di sospetto quietismo ad Asti, che coinvolge un gruppo di ecclesiastici e laici, ispirati da alcune donne carismatiche: vorrei introdurre alcune ipotesi di ricerca, nell’am- bito di un più ampio studio sui rapporti fra pratiche devozionali e con- flitti giurisdizionali nel Piemonte di età moderna. Tenterò di leggere l’episodio non tanto in termini simbolici o nell’ottica delle relazioni fra istituzioni politiche e autorità romana, quanto sul piano della creazio- ne e gestione, a livello locale, di pratiche devozionali. La proposta che vorrei avanzare è quella di interpretare il quietismo non soltanto come questione dottrinale e teologica, ma anche come un problema di com- petizione fra pratiche religiose, basato sul potere legittimante del sacro7. Non partirò, quindi, dalle griglie concettuali elaborate dagli inquisito- ri, ma, rovesciando la prospettiva, dalla politica delle devozioni nelle comunità locali: l’obiettivo è comprendere il significato che le pratiche rituali assumevano per gli attori sociali, in quanto azioni simboliche esprimenti valori socialmente condivisi8.

Nell’ambito degli studi sul cosiddetto quietismo, lo Stato sabaudo e l’area piemontese sono finora rimasti in ombra. Eppure, tra la fine del Seicento e la prima metà del Settecento, essi conobbero una notevole diffusione di pratiche quietiste, in corrispondenza con le fasi più aspre del secolare conflitto fra autorità sabaude e curia romana sul governo ecclesiastico del territorio9. Tale conflitto culminò nella riforma tribu- taria avviata da Vittorio Amedeo II: esso si esaurì progressivamente solo negli anni Cinquanta del Settecento, dopo il Concordato del 174110.

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La difficoltà che si incontra nel definire un quietismo piemontese, e coloro che ne fanno parte, è dovuta alla sua natura di movimento de- clinato in comportamenti devozionali che esprimevano un insieme di norme adottate da comunità circoscritte, dal punto di vista territoriale, sociale e politico11. Per questo motivo, le pratiche esposte a sospetti di quietismo devono essere studiate nelle loro variazioni storicamente attestate, cogliendone gli aspetti comuni, a partire dalle reti di relazioni riscontrabili nelle configurazioni sociali in cui esse penetrarono.

La situazione dello Stato sabaudo era complicata dalla geografia giurisdizionale del Piemonte: esso era infatti caratterizzato dalla com- presenza di feudi imperiali e feudi ecclesiastici, a loro volta suddivisi in feudi monastici, pontifici e vescovili12. I conflitti interni al clero secolare e i contrasti fra quest’ultimo e i numerosi ordini regolari presenti sul territorio si inserivano in un quadro giurisdizionale fluido e comples- so: in tale contesto, non era raro che la pratica eterodossa finisse per esprimere l’ostilità verso l’azione centralizzatrice del governo, che, da un lato, esacerbava il conflitto giurisdizionale con Roma, ma dall’altro favoriva il programma di disciplinamento degli spazi religiosi proprio della Chiesa post-tridentina.

Nonostante la lunga e aspra fase di contrattazione, a partire dalla prima metà del Settecento la costruzione di una giurisdizione civile fornì all’alto e medio clero sabaudo un solido punto di riferimento isti- tuzionale per il governo delle diocesi: la giurisdizione episcopale sul territorio e sulle pratiche di culto ne uscì rafforzata13. A fare le spese di questa normalizzazione dei conflitti furono i soggetti e corpi devozio- nali che erano stati, fino ad allora, interlocutori del clero diocesano nel controllo delle pratiche sacramentali su scala locale. Di conseguenza, proprio la messa in atto, nelle comunità locali, di devozioni definibili come quietiste potrebbe essere spia di una contrapposizione fra sistemi di credenze. La pratica eterodossa si traduceva spesso, infatti, nell’ade- sione a devozioni promosse da congregazioni, Opere pie e oratori, non di rado ispirati da figure femminili che si richiamavano a un modello di santità mistico-carismatica. Non è forse un caso che la diffusione del quietismo sia parallela alla proliferazione decentrata e spontanea degli oratori di San Filippo Neri14. Nello Stato sabaudo, questi ultimi rappre- sentarono, in un primo tempo, un autentico focolaio di eterodossia: essi convogliarono pratiche religiose proprie del clero parrocchiale, fondate su un rapporto egualitario, a base familiare, fra i membri della comu- nità. L’azione centralizzatrice esercitata con sempre maggior forza dai vescovi, coadiuvati dalle autorità sabaude, finì tuttavia per trasformare gli oratoriani in strumento di controllo sociale sul clero secolare e di stabilizzazione delle relazioni sociali: il movimento oratoriano, infatti,

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rappresentava un utile compromesso fra le istituzioni sovralocali e cor- porative del clero regolare e l’organizzazione a base familiare propria del clero parrocchiale15.

La vicenda che prenderò in esame è particolarmente significativa, perché pone in primo piano aspetti della socialità politica locale che devono essere adeguatamente studiati: da un lato, una diffusa tendenza a utilizzare l’idioma mistico per costruire legittimità e creare un conte- sto; dall’altro, il ruolo che il patriziato attribuiva all’autorità mistica e, quindi, il coinvolgimento delle famiglie nobili nella definizione di spazi sacri e pratiche devozionali16.

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2. Nello Stato sabaudo i più attivi centri di esperienze visionarie, esposte a sospetti di eterodossia, furono le aree a più densa frammenta- zione giurisdizionale: fra queste, il Piemonte meridionale e, soprattutto, i territori che gravitavano intorno alla città di Mondovì. Ciò sembra suggerire un nesso fra il ricorso al linguaggio mistico, che poteva tra- dursi nell’adozione di pratiche giudicate eterodosse, e strutture sociali caratterizzate da esplosivi conflitti giurisdizionali e politici. Tale rela- zione è ravvisabile, per esempio, nell’esperienza mistica di Anna Maria Faussone, appartenente a una delle più influenti casate di Mondovì.

Nell’area monregalese la contrapposizione con le autorità governa- tive scatenò, fra 1675 e 1676, la rivolta armata di una parte del clero.

La ribellione rappresentava l’esito di una frattura interna alla gerarchia del clero secolare, che si espresse anche in pratiche eterodosse: queste ultime, mettendo l’accento sulle norme di comportamento anziché sul libero arbitrio, esercitavano un forte richiamo in comunità caratteriz- zate da reti sociali e familiari fortemente coese, in cui giocavano un ruolo centrale le faide e i conflitti di ruolo17. Anna Maria Faussone, a cui erano attribuiti carismi profetici e taumaturgici, che scaturivano da una spiritualità visionaria, divenne punto di riferimento del patriziato locale: il suo sofferto itinerario spirituale traduceva nell’idioma mistico le drammatiche tensioni con l’autorità sabauda, che sfociarono, fra 1680 e 1699, nella «guerra del sale», particolarmente violenta nell’area mon- regalese. La donna, assistita spiritualmente dall’oratoriano Sebastiano Valfrè, fu accusata di «giansenismo», ma non fu mai processata: la sua prima biografia è probabilmente opera dell’agostiniano Giovanni Bat- tista Cordero, fortemente sospettato di pratiche eterodosse18.

Altre figure di mistiche, vissute tra la fine del Seicento e i primi anni del secolo successivo, a cui in questa sede si può solo accennare, sem- brano confermare il coinvolgimento di esperienze mistiche nella com- petizione per la gestione di ambiti devozionali e dei luoghi che questi circoscrivevano19. È il caso di Anna Maria Emmanueli, contadina di

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Sommariva Bosco, nelle campagne del Monferrato. Anna Maria dimo- stra una notevole abilità nel manipolare la cultura ecclesiastica, con i suoi simboli e rituali: il suo intervento fu decisivo in una lunga contro- versia fra il clero secolare e gli ordini regolari presenti a Sommariva Bosco, che si disputavano la gestione della parrocchia. In seguito, Anna Maria si guadagnò la protezione dei gesuiti torinesi e divenne direttrice dell’Ospizio di Carità nella capitale: eletta madrina di battesimo del futuro Vittorio Amedeo II, morì a Torino nel 1673; suo biografo fu Se- bastiano Valfrè, che ne descrisse dettagliatamente le visioni e profezie20. Il trattato mistico dell’orsolina francese Maria Bon dell’Incarnazio- ne, messo all’Indice nel 1676, fu invece riconosciuto come testo ispira- tore di gruppi di devoti riuniti a Cortemiglia e nel marchesato di Spi- gno, feudo imperiale degli Asinari del Carretto, dal medico francese Antonio Gigardi e dal conte Maurizio Scarampi, processato per quieti- smo nel 1675. L’iniziativa di Scarampi, che si pose quale punto di rife- rimento di nuove pratiche devozionali, basate sull’orazione mentale e di quiete, cela, in realtà, una competizione territoriale con le istituzioni ecclesiastiche locali. A denunciare il conte furono infatti i francescani di Spigno, i cui beni egli aveva cercato di ottenere in beneficio semplice, quando era arrivato l’ordine pontificio di soppressione del convento.

I terreni di proprietà dei francescani corrispondevano esattamente alle terre su cui gli Scarampi miravano a estendere la propria giurisdizione, per allargare la propria influenza sul Piemonte meridionale, in partico- lare sulle Langhe21.

Il tentativo di aggregazione territoriale operato da Scarampi, attra- verso la gestione di pratiche rituali che miravano a creare un contesto alternativo a quello gestito dai corpi ecclesiastici locali, fu stroncato dal processo per sospetto quietismo: tuttavia, come vedremo, Maurizio Scarampi non fu il solo nobile a tentare di raccogliere sotto la propria egida gruppi di devoti, ispirati da un modello di spiritualità carismatica e visionaria.

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3. Nel novembre 1716 il direttore dell’ospizio gestito dalla Com- pagnia di San Paolo a Torino, ricevette una visita del conte Giovanni Tommaso Roero Sanseverino di Revigliasco22. Questi gli rivolse una singolare richiesta: egli desiderava che gli fossero consegnate tre rico- verate, Marianna Muratore di Fenestrelle e le astigiane Clara Riboletta e Fancina Mayna. Queste ultime si trovavano rinchiuse nella struttura, in attesa di essere trasferite nelle carceri senatoriali di Porta Palazzo, con l’accusa di aver operato sortilegi per provocare la morte di Vittorio Amedeo II, tramite statuette di cera, che avevano già causato il decesso del figlio del sovrano23. Nei primi decenni del Settecento, in effetti, una

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vera e propria ossessione per congiure filofrancesi sembrò colpire lo Stato sabaudo, che vide una serie di processi a personaggi sospettati di tramare contro la famiglia reale: molti imputati furono accusati di aver tentato di provocare, tramite sortilegi, la morte del sovrano e della sua famiglia24.

L’analisi della documentazione superstite suggerisce la presenza di elementi comuni. In primo luogo, l’utilizzo di magia di vario genere per ottenere i propri scopi; in secondo luogo, l’anomala diffusione di un determinato tipo di sortilegio, mediante statuette di cera modellate con le fattezze delle persone che si vogliono colpire; in molti casi risultano coinvolte, a vario titolo, donne alle quali erano attribuiti doni carismati- ci, accusate di «invasamento»; infine, i personaggi implicati nelle con- giure provenivano quasi sempre da Asti e dintorni, come osservarono anche le autorità torinesi, affidando due imputati al governatore del carcere di Miolans25.

Marianna Muratore era già stata ospitata ad Asti, in una casa di proprietà del conte di Revigliasco, e messa sotto la direzione spiritua- le del confessore di quest’ultimo, il carmelitano Giuseppe Antonio di Sant’Elia; ora il conte chiedeva di condurre le tre donne ad Asti, perché il frate le esorcizzasse. Gli fu risposto che non si poteva liberarle senza il permesso del sovrano: il giorno seguente, dopo un incontro con l’in- quisitore di Torino, al direttore dell’ospizio giunse l’ordine di trasferi- re le donne nelle carceri di Porta Palazzo. Qui esse furono processate per sortilegi e magia contro la famiglia reale, insieme a un’altra «invasa- ta», Catterina Cuore, prelevata presso il convento dei minori riformati di Pinerolo26. Non si hanno notizie sulla sorte di Fancina Mayna; le sue compagne, invece, furono condannate al rogo: Marianna Muratore morì in carcere, prima che fosse eseguita la condanna, mentre Clara Ribolletta e Catterina Cuore furono arse vive a Torino nel 1718.

Clara Ribolletta, interrogata fra il dicembre 1716 e il gennaio 1717, raccontò molti particolari di una congiura a cui avrebbe partecipato.

Ella protestò di essere stata maleficiata da una certa Maria Maddalena Chiesa, soprannominata «Beata Zavatina», ospitata a Ivrea dal marche- se San Martino di Parella27. La donna fece i nomi dei suoi presunti complici e di coloro che avevano commissionato a un «mago» francese, residente ad Asti, le statuette di cera che avevano ucciso il principe di Piemonte; a suo dire, fra i congiurati figuravano i conti Massetto, Pelletta e Ponte, il conte di Antignano, la «contessa di San Michele»

e la marchesa «Riccia», il marchese Pallavicino, due abati, l’inquisitore di Asti e il notaio Ambrosio28.

I nobili citati dalla Ribolletta appartenevano all’aristocrazia dei feu- di monferrini e delle Langhe, gravitanti intorno ad Asti29; il notaio Am-

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brosio è da identificare, invece, con il cancelliere vescovile Scipione Ambrosio. Quest’ultimo giocò un ruolo di primo piano nella trascrizio- ne e diffusione di un miracolo eucaristico che provocò scalpore ad Asti.

Il 10 maggio del 1718, infatti, un’ostia cominciò a sanguinare fra le mani del sacerdote che stava celebrando messa nella cappella di un’Opera pia destinata all’accoglienza delle giovani nubili di buona condizione sociale, fondata nel 1712 grazie a un lascito del vescovo Innocenzo Mil- liavacca30.

La vicenda è nota attraverso le relazioni dei testimoni, raccolte dal prefetto della provincia, incaricato dalle autorità torinesi di indagare sulla questione: le testimonianze provengono dal prete celebrante, l’a- stigiano Giovanni Scotto, la cui sorella era ospite dell’Opera, dal pro- vicario della diocesi, Urbano Isnardi, e da Scipione Ambrosio31. Come è stato rilevato, ciascuna delle relazioni tenta di costruire un differente modello di località. Il prete Scotto colloca il prodigio eucaristico entro un quadro profetico, strutturato secondo una precisa tradizione reto- rica; Isnardi, invece, sembra più interessato al riconoscimento giuridi- co del prodigio. Egli sottolinea l’inesperienza e incompetenza del cele- brante e ribadisce la legittimità probatoria dell’autorità episcopale32. Il notaio Ambrosio, da parte sua, evidenzia i vantaggi che potrebbero de- rivare all’Opera dalla diffusione del miracolo e sembra voler sottolinea- re come il prodigio sia un segno del successo della nuova fondazione:

egli, insomma, tenta di legittimare il nuovo contesto creato dall’Opera.

Intorno al 1720, l’intendente della provincia di Asti stese un’altra relazione: egli cercò di ricostruire un contesto locale, sottolineando in primo luogo le difficoltà incontrate dall’Opera Milliavacca in città. Il suo bersaglio principale, tuttavia, è il celebrante, Scotto.

Mentre Isnardi si limitava a sottolineare l’inesperienza del giova- ne prete, le critiche dell’intendente sono molto più dettagliate. Egli, infatti, accusa Scotto di aver inviato lettere anonime a Roma, in cui descriveva le profezie e visioni rivelategli da un angelo; di essere in contatto con il carmelitano Giuseppe Antonio di Sant’Elia e con una certa «Dorotea del luogo di San Damiano, detta la Santa», ospitata dal conte di Revigliasco, della quale aveva divulgato «continue rivela- zioni e visioni»; di avere, in definitiva, una forte tendenza alla «melan- conia»33. Rilevando i contatti fra Scotto, Dorotea di San Damiano e il conte di Revigliasco, l’intendente sembra voler alludere a un conte- sto locale in cui una tradizione di misticismo carismatico e visionario rappresentava il tessuto connettivo di atteggiamenti anti-torinesi e fi- lofrancesi. Tuttavia, egli stigmatizza anche la condotta di Ambrosio, che appare come il convinto sostenitore dell’Opera e della realtà del prodigio.

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L’esito del miracolo eucaristico conferma che, come suggeriva an- che l’intendente, esso era espressione di tensioni intorno alla questio- ne dell’immunità ecclesiastica: poco dopo, infatti, l’Opera Milliavacca statuto giuridico, diventando luogo pubblico dotato di immunità, me- diante l’apposizione di una lampada nella cappella, che segnalava la presenza del sacramento eucaristico, sacralizzando il luogo e sottraen- dolo al controllo sovrano34.

Accusando Scotto e, indirettamente, Ambrosio di condividere un utilizzo dell’idioma profetico e, più in generale, mistico, che poteva convogliare tendenze antisabaude, l’intendente sapeva esattamente di cosa stava parlando: egli, infatti, era verosimilmente al corrente del processo istruito contro Clara Ribolletta e le sue complici. L’intendente si basava su solide informazioni anche quando accusava Scotto di aver inviato lettere a Roma, contenenti le rivelazioni di un angelo, e di aver diffuso «molte visioni di questo genere». Ancora nel 1726, infatti, il prete scrisse al segretario sabaudo per gli affari interni: egli insisteva per essere introdotto alla presenza del re, al quale doveva consegnare una lettera di un misterioso «Personaggio», contenente profezie che avrebbero liberato il re da «ogni mala sorte»35.

L’intendente e il provicario Isnardi sembrano, in sostanza, concor- di nel criticare Scotto, per difendere le prerogative del clero cittadino, e soprattutto della curia vescovile, in materia giurisdizionale e dottri- nale. Ma l’intendente aggiunge un particolare su cui occorre fermare l’attenzione: anche Isnardi, egli scrive, aveva ascoltato le profezie di Dorotea, che l’aveva convinto a recarsi a Roma, insieme a Giuseppe Antonio di Sant’Elia, dove «son stati tutti reinchiusi per ondeci mesi nell’Inquisitione»36. Come vedremo, in effetti, Isnardi non era affatto un testimone disinteressato: anch’egli era, come Scotto, un acceso de- voto della «Santa» Dorotea, con cui progettava di fondare un’Opera in palese concorrenza con l’istituto Milliavacca; e, come sostiene l’inten- dente, anche Isnardi e Dorotea, pochi mesi dopo il miracolo, furono processati per sospetto quietismo.

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4. I personaggi coinvolti in questa complessa vicenda, nonostante cerchino di prendere reciprocamente le distanze, si muovono in realtà come gruppo coeso, sia pure nella disparità di itinerari culturali e con- dizioni sociali: è necessario illuminarne meglio i profili, per cercare di comprendere le intenzioni che li muovono e per fare scaturire dalle loro azioni il progetto che essi perseguono.

In primo luogo, fermiamo l’attenzione sull’ispiratrice delle azioni di Scotto, di Isnardi e, probabilmente, anche di Ambrosio: la «Santa»

Dorotea.

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Si tratta di Dorotea Quaglia, entrata fra le terziarie carmelitane con il nome di Cristina di Gesù. Nata nel 1673 a San Damiano, nei pressi di Asti, Dorotea era stata inviata dai genitori a Pianezza e poi a Magliano, in diocesi di Mondovì, come tessitrice di lino: lì aveva cominciato a radunare parecchie persone presso la piccola chiesa delle Umiliate, do- ve insegnava l’orazione mentale, esortando alla quotidiana pratica eu- caristica. In seguito, la donna si trasferì a Costigliole d’Asti, dove pro- babilmente entrò in contatto con Giovanni Scotto37. Introdotta presso i carmelitani scalzi di Asti, si guadagnò, grazie a loro, la fiducia del conte Alberto Roero Sanseverino: quest’ultimo la ospitò presso di sé, assegnandole una stanza nel proprio castello. Il conte Roero le chiese, inoltre, di assistere spiritualmente una donna ritenuta indemoniata, an- ch’essa sua ospite: Marianna Muratore.

Dorotea andò a convivere con Marianna, presso la chiesa della Ma- donna del Portone, gestita dai minori osservanti: direttore spirituale delle due donne divenne il carmelitano Giuseppe Antonio di Sant’E- lia. Dopo qualche mese, tuttavia, Dorotea chiese di essere separata dal- la Muratore, che, a suo dire, intratteneva soldati in camera; Giovanni Tommaso Roero, succeduto al defunto Alberto, le procurò un altro al- loggio in città e, in seguito, la sistemò nel proprio palazzo di Reviglia- sco, dove, come abbiamo visto, egli tentò di trasferire anche Marianna Muratore e le altre donne «invasate».

Nello stesso periodo, Giuseppe Antonio di Sant’Elia mise in con- tatto Dorotea con Urbano Isnardi, parroco della chiesa di San Paolo in Asti e provicario capitolare: Dorotea, infatti, aveva raccontato al frate parecchie visioni, in cui Dio la incitava a recarsi dal sovrano e poi a Ro- ma, accompagnata da Isnardi, per appianare i contrasti con il pontefice.

Le vicende biografiche di Dorotea Quaglia furono trascritte proprio da Isnardi, che raccolse per diversi anni le sue visioni e profezie, fino alla morte di Dorotea, nel 174938.

Un altro personaggio coinvolto in prima persona nella vicenda che stiamo analizzando è, dunque, Urbano Isnardi, esponente di primo pia- no del clero cittadino. Nativo di Guarene, feudo della famiglia Roero, egli apparteneva alla collegiata di San Secondo in Asti ed era stato eletto provicario generale nel 1714, quando la sede vescovile era rimasta va- cante, affidata a Francesco Bernardino Icardi. Nel 1716 Isnardi assunse la cura della parrocchia di San Paolo; dopo l’episcopato di Giovanni Todone, dal 1727 al 1739, ci fu un nuovo periodo di vacanza, fino al- l’elezione dell’oratoriano Giuseppe Felissano, che nel 1741 riconfermò Isnardi nella carica di provicario e, infine, lo nominò vicario capitolare nel 1755. Urbano Isnardi morì nel 1761, dopo aver svolto le funzioni di vicario fino al 175739.

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L’anello di collegamento fra il conte di Revigliasco, Dorotea Qua- glia e Urbano Isnardi fu Giuseppe Antonio di Sant’Elia: almeno in un primo tempo, quest’ultimo sembra avere giocato il ruolo più rilevante nel gruppo riunito intorno a Dorotea. Egli era stato certamente coinvol- to nella fondazione dell’Opera Milliavacca e nella genesi del miracolo eucaristico. Secondo lo stesso Isnardi, infatti, era stata una penitente del frate a convincere Innocenzo Milliavacca a disporre nel testamento un lascito per la fondazione di un ricovero, destinato a giovani nubili, «fi- glie di gentiluomini e di nascita distinta»40. Si tratta della misconosciuta visionaria Maria Angela Lomellini, giunta da Genova, dove viveva sotto la direzione spirituale dei gesuiti41.

Il vescovo affidò la gestione dell’Opera ai suoi esecutori testamen- tari, tra i quali c’erano Ambrosio e lo stesso Alberto Roero Sanseve- rino42. I carmelitani di Asti erano profondamente legati alla famiglia Roero, che esercitava un diritto di patronato sul convento del Carmi- ne, fondato nel 1396 da Tommaso Roero: i signori detenevano il di- ritto di eleggere il cappellano dell’altare maggiore43. Nel convento di San Giuseppe, gestito dai carmelitani scalzi, invece, la famiglia Roe- ro aveva fondato l’altare maggiore e la cappella di Sant’Anna44. Sem- pre secondo Isnardi, la visionaria genovese fu un’attiva collaboratrice di Giuseppe Antonio, assistendolo «co’ suoi interni lumi»45. Il frate aveva un passato turbolento. Nato a Cherasco, nella provincia di Fos- sano, si era arruolato nelle armate imperiali: diventato segretario di un capitano spagnolo, acquartierato a Milano, aveva seguito quest’ul- timo a Barcellona, dove era rimasto tre anni, prima di disertare per raggiungere a Marsiglia l’esercito francese, nel quale si era arruolato.

Anche la sua permanenza tra i francesi era stata breve: circa un anno dopo, mentre si trovava a Bruxelles, aveva nuovamente disertato e si era unito alle truppe sabaude, entrando nel reggimento delle guardie di Torino. Disertore per la terza volta, era fuggito ad Asti, dove era stato accolto nel convento del Carmine. In brevissimo tempo, egli era diventato priore del convento di Cherasco, poi priore ad Asti e pro- vinciale dell’ordine; infine, dopo un breve priorato a Torino e di nuo- vo a Cherasco, fu eletto per la seconda volta priore del convento di Asti. Egli era, inoltre, direttore spirituale di Alberto Roero Sanseve- rino46.

4. Nel resoconto sul miracolo eucaristico, Ambrosio e Isnardi, in quanto rappresentanti dell’autorità episcopale, ostentano indifferenza, se non ostilità, verso l’entusiasmo profetico di Scotto, che risuscita ad- dirittura la tradizione profetica filoimperiale sull’avvento di un principe cristiano, portatore di una pace universale47. La prudenza di Ambrosio risulta del tutto comprensibile: egli, infatti, a seguito della denuncia

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della Ribolletta, era stato effettivamente incarcerato per diversi mesi, con l’accusa di aver tramato la morte del sovrano48.

L’atteggiamento cauto di Isnardi, che affida ogni definitiva valuta- zione all’autorità vescovile e pontificia, evitando qualsiasi allusione ai propri rapporti con Dorotea Quaglia, potrebbe, invece, celare un’esita- zione nel sancire la sacralizzazione della nuova Opera: egli stesso, infat- ti, stava pensando di proporsi quale fondatore di una nuova istituzione, meramente laica e, nel contempo, alternativa ai corpi ecclesiastici locali, sacralizzata dalla pratica rituale promossa da Dorotea e dai carmelitani delle due osservanze49. Secondo quanto scrisse lo stesso Isnardi nelle sue memorie, proprio nel 1718 egli sentì la definitiva «ispirazione» a fondare una di quelle «opere nuove» che Dio vedeva con tanto favore50. Due anni dopo aver ottenuto la cura della parrocchia di San Paolo, in effetti, Isnardi cominciò le trattative per rinunciarvi in favore degli oratoriani, che però vi si insediarono soltanto nel 173351.

Comincia, a questo punto, a delinearsi il contesto che i patroni del- l’Opera Milliavacca, fra i quali spiccano i Roero Sanseverino, intende- vano creare, mediante la promozione del miracolo eucaristico: una nuo- va istituzione caritativa, sottoposta a immunità ecclesiastica, ma gestita da un gruppo di chierici e laici, la cui autorità, grazie all’intervento di membri degli ordini regolari, risulta legittimata dal carisma di profetes- se come Dorotea, le quali insegnavano l’orazione mentale e predicavano la quotidiana pratica dell’Eucaristia.

Allo stato attuale della ricerca, non è possibile affermare che i Roe- ro Sanseverino stessero cercando di radunare presso il loro castello di Revigliasco una conventicola in cui si promuovevano rituali eterodossi, accentrando nelle loro mani la gestione di una nuova pratica rituale, come aveva fatto Maurizio Scarampi: la questione può soltanto essere posta. Certamente, però, intorno al conte di Revigliasco si muovevano profetesse, visionarie e importanti membri del clero astigiano, come Ur- bano Isnardi e Giuseppe Antonio di Sant’Elia, oltre a preti come Scot- to, il quale, peraltro, possedeva un beneficio nella cattedrale di Asti52. Le azioni dei Roero Sanseverino, di Isnardi e di Giuseppe Antonio di Sant’Elia si inscrivono, comunque, nell’ambito di una tradizione locale che sembra utilizzare l’idioma mistico-estatico come linguaggio politi- co, in funzione legittimante: che attraverso questa pratica, promossa in modo particolare da ordini regolari, soprattutto oratoriani e carme- litani53, si esprimessero anche atteggiamenti anti-torinesi è un’ipotesi che andrà approfondita54. Per ora mi limito a osservare che la famiglia Ponte, menzionata come complice dalla Ribolletta, compare in un elen- co, trasmesso al Senato, di sospettati di «intelligenza con i Francesi»

durante l’assedio di Asti del 1746; quanto ai Pelletta di Cossombrato e

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ai Malabaila di Antignano, essi furono fra i principali oppositori delle famiglie che avevano avuto accesso ai ranghi dell’aristocrazia, grazie all’editto del gennaio 1720, con cui Vittorio Amedeo aveva avocato al demanio numerosi feudi55. E si noti che, proprio nel 1718, Giuseppe Antonio Malabaila di Antignano fu processato dal Sant’Uffizio di Asti, per sospette pratiche eterodosse56.

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5. Qualunque fossero i moventi che avevano spinto i Roero Sanse- verino a riunire eminenti personaggi sotto l’egida carismatica di Doro- tea Quaglia, la conventicola subì un duro colpo quando la profetessa, Urbano Isnardi e Giuseppe Antonio di Sant’Elia furono processati dal Sant’Uffizio. Insieme a loro fu arrestato un carmelitano scalzo di Asti, Eugenio di Gesù, il quale, tuttavia, sembra essere una figura del tutto marginale57.

Nelle memorie che cominciò a scrivere alcuni anni dopo, rielabo- randole nel tempo, Isnardi evitò accuratamente ogni allusione al pro- cesso che lo vide coinvolto: egli parla solo di un viaggio a Roma com- piuto nel 1719, insieme a ai due frati e a Dorotea, per mostrare al papa gli scritti contenenti le visioni e profezie della donna, in seguito a cui essi dovettero rimanere in città alcuni mesi, per attendere il giudizio della curia pontificia.

Secondo Isnardi, era stata Dorotea a insistere per recarsi a Roma, perché Dio desiderava placare il conflitto fra la curia romana e le auto- rità sabaude. Egli si era recato più di una volta da Vittorio Amedeo, per ottenerne il consenso: alla fine, scrive Isnardi, grazie alle parole suggeritegli da Dorotea, era riuscito a persuadere il re, che gli aveva dato i denari per affrontare il viaggio, mentre la donna aveva ricevuto un grossa somma dal conte di Revigliasco.

Nonostante l’opposizione di alcuni ministri del sovrano, afferma Isnardi, i quattro partirono da Asti all’inizio di giugno 1719: arrivati a Roma, alloggiarono insieme in una locanda. Il giorno successivo, Isnar- di fu ammesso in udienza da papa Clemente XII, che lo accolse «con somma benignità»: egli presentò gli scritti in cui aveva raccolto le rive- lazioni di Dorotea. Terminata l’udienza, a lui e ai suoi due compagni furono affidati alloggi separati, mentre Dorotea si trasferì nel monastero delle carmelitane scalze di Sant’Egidio. Secondo Isnardi, alcuni cardi- nali vennero a visitarli e, «con portamento austero», posero loro molte domande; essi esaminarono a lungo gli scritti sulle «interne locuzioni»

di Dorotea, senza trovare di che imputarli. Isnardi e i due carmelitani tornarono ad Asti, provvisti di denari per ordine dello stesso pontefice, mentre Dorotea si trattenne tre anni a Roma, dapprima ospite di «un particolare di qualità distinta», poi presso una casa di terziarie. Isnardi

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attribuisce l’ostilità di cui essi furono oggetto, da parte di alcuni cardi- nali e patrizi romani, alle dicerie fatte circolare alla corte torinese dai suoi nemici: questi ultimi avevano avvertito le autorità romane che i quattro piemontesi erano venuti a Roma «per fare la spia» e senza il permesso del Senato58.

Il racconto di Isnardi, che allude a un esame a cui furono sottoposti i suoi scritti, è confermato solo in parte da ciò che egli e i suoi compagni raccontarono davanti al tribunale del Sant’Uffizio.

Urbano Isnardi fu arrestato a Roma il 30 agosto 1719 e condotto nelle carceri del Sant’Uffizio, insieme a Dorotea Quaglia, Giuseppe Antonio di Sant’Elia ed Eugenio di Gesù. Clemente XII, che secondo Isnardi l’aveva accolto con benevolenza, aveva immediatamente ordi- nato di sequestrare i suoi scritti e di separarlo da Dorotea, per poterlo interrogare. Dopo un accurato esame, il Sant’Uffizio aveva trovato le opere di Isnardi e di Giuseppe Antonio di Sant’Elia piene di proposi- zioni «inette, fantastiche, presuntuose, temerarie, superbe, male sonan- ti e false, offensive delle pie orecchie, scandalose, erronee, che sanno eresia»: per cui si era proceduto all’incarcerazione di Dorotea Quaglia, come «rea di santità affettata», dei due carmelitani e di Isnardi, in quan- to «fomentatori di essa»59.

Sotto accusa erano non soltanto le visioni e profezie di Dorotea, ma anche le pratiche devozionali promosse da quest’ultima, da Isnardi e da Giuseppe Antonio di Sant’Elia, nelle quali gli inquisitori individuavano un insieme di comportamenti riconoscibili come quietisti. La questione centrale era il modo in cui Dorotea raggiungeva e manteneva lo stato di immobilità, durante il quale, rilevarono gli inquisitori, ella rifiutava ogni pratica religiosa che la distraesse dall’orazione interiore e dal man- tenimento di un assoluto stato di quiete. L’orazione mentale insegnata da mistiche come Dorotea, infatti, non era considerata pericolosa né eterodossa fino a quando consentiva di partecipare comunque a prati- che devozionali, individuali e comunitarie, basate sull’orazione vocale.

Se essa, però, si poneva come obiettivo esclusivo il raggiungimento del silenzio interiore, diventava orazione di quiete, perpetua unione con Dio che rifiutava ogni altra orazione e pratica rituale: proprio questo era rimproverato a Dorotea e ad altre donne, processate per quietismo e affettata santità60.

I sospetti dei giudici si appuntarono in particolare su Giuseppe Antonio di Sant’Elia. Il vicario capitolare di Asti, Francesco Icardi, e il vice-curato della parrocchia di San Paolo, chiamati a testimoniare, cercarono di far apparire il frate come solo responsabile degli errori di Dorotea, con l’evidente intento di difendere l’ortodossia di Isnardi, appartenente all’élite del clero secolare astigiano. Essi accusarono il

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carmelitano di essere «facile a credere alle visioni»; secondo loro, era stato Giuseppe Antonio di Sant’Elia a insegnare a Dorotea che «la via imobilativa è quando il corpo per virtù mia non può muoversi, perché l’anima all’hora sta meglio unita con me»: proposizione che, sottolinearono i giudici, era «pericolosa, perniciosa e coincidente colla proposizione del padre Molinos»61.

Gli inquisitori interrogarono a lungo Giuseppe Antonio di Sant’E- lia, chiedendogli di spiegare molte affermazioni ritrovate nei suoi scritti riguardanti Dorotea, in particolare nel Libro delle minacce, nel Libro dell’itinerario e nel Libro dell’immobilità62. Essi osservarono che molte tesi sostenute nei tre libri coincidevano con quelle di Molinos: fra que- ste, l’idea che la contemplazione fosse formata dalla «via unitiva, la via attiva e la via revelativa», affermazione che implicava il rifiuto dei primi livelli del tradizionale itinerario mistico di perfezione, la via purgativa e la via illuminativa63. Il frate era, inoltre, accusato di aver letto insieme a Dorotea una Vita di «suor Maria Villani», fondatrice del monastero domenicano del Divino Amore a Napoli64.

Giuseppe Antonio di Sant’Elia si difese insistendo che le estasi e le immobilità di Dorotea erano state esaminate da Isnardi e da Icardi, i quali avevano approvato «il suo spirito»65. Secondo lui, peraltro, il viaggio a Roma era stato un’idea di Isnardi, che aveva deciso di recarsi dal papa per difendersi dai sospetti che gravavano su di lui. Poco dopo il miracolo eucaristico del 1718, spiegò il frate, il vicario capitolare lo aveva convocato in segreto, insieme a Isnardi: Icardi li aveva informati di aver ricevuto lettere da Roma, con l’ordine di non parlare più del prodigio e di consegnare tutti gli scritti riguardanti Dorotea, intimando a quest’ultima il silenzio. Isnardi aveva ottenuto dal sovrano il permesso di andare a Roma, ma Vittorio Amedeo si era rifiutato di dargli del denaro per pagare il viaggio66. Il frate concluse la propria difesa assicu- rando ai giudici che egli considerava autentiche soltanto le rivelazioni di Dorotea «che senza offesa di questo Santo Officio si ponno sostenere»:

con un moto di impazienza, in cui riaffiora la praticità tipica del soldato, egli protestò che sarebbe stato sufficiente che i giudici gli spiegassero un metodo semplice per distinguere i suoi errori dottrinali, «perché le cose non andassero tanto in lungo»67.

Urbano Isnardi, al momento dell’arresto, fu trovato in possesso di numerosi scritti, che furono minuziosamente esaminati. Si trattava in gran parte di libretti contenenti le «locuzioni interiori fatte da Dio»

a Dorotea; ma c’erano anche alcune lettere attestanti la santità della donna, «un memoriale diretto al Papa delli motivi della loro venuta a Roma», una relazione inviata da Icardi, «una memoria di quello che doveva esso Isnardi parlare al duca di Savoia che chiama con nome di

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Re», infine un carteggio di mano di Giuseppe Antonio di Sant’Elia, in cui il frate si difendeva, davanti ai superiori carmelitani, da accuse di

«maneggio» con alcune monache68.

Isnardi affermò che il viaggio a Roma gli era stato suggerito da Do- rotea, in quanto Dio «voleva che il Re si riunisse col Papa, per mezzo della qual riunione s’unirebbon assieme i prencipi christiani e si fareb- be l’universal penitenza e riforma de’ costumi, specie delli ecclesiastici, quale seguita [il Signore] voleva si andasse contro il Turco e gli avrebbe dato grandi vittorie et acquisto de’ luoghi santi»69. Quanto affermato da Isnardi è in sintonia con la speranza in una pace universale espressa da Scotto: non c’è dubbio che la fonte di queste attese di tono escatologico fossero le profezie di donne come Dorotea. Nelle parole di Scotto e di Isnardi il sovrano sabaudo assume un ruolo messianico, accompagnan- dosi al papa nelle vesti di pastore angelico, per portare un’era di pace e rinnovamento nella cristianità: si tratta di un antico tema millenari- stico, ripreso anche da altri personaggi processati per quietismo, come Antonio e Simone Leoni, nella diocesi di Como, la profetessa Filippa Porzi di Forlì e i seguaci del marchigiano Giacomo Lambardi70.

Dorotea Quaglia fu interrogata più a lungo di tutti gli altri: ella rima- se per oltre un anno nelle carceri del Sant’Uffizio. I giudici le chiesero di descrivere con precisione le sue visioni e la sottoposero più di una volta alla tortura. La donna confessò di aver appreso la pratica dell’orazione mentale dal curato di San Damiano e da una certa «Maria Boara»71.

L’avvocato dei rei, chiamato a difendere gli imputati, si preoccupò soprattutto di evidenziarne l’ignoranza e inesperienza: tutta la vicenda era da attribuire «ad un errore passivo della povera donna illusa o da effetti naturali o da opera diabolica», oltre che «all’ignoranza e inespe- rienza delli istessi direttori»72. La radice dell’errore fu identificata nella

«semplicità» di Giuseppe Antonio di Sant’Elia, «che fu in causa dell’er- rore passivo nel detto religioso e cagionò ancora l’errori negl’altri»73.

Tutti gli imputati si dichiararono inconsapevoli della loro eterodos- sia, pronti a sottomettersi all’autorità ecclesiastica74. Ciò sembra con- fermare le riflessioni sulla natura ambigua di un’eresia codificata dal- la riflessione dogmatica inquisitoriale, che in realtà si configura come pratica religiosa declinata in diverse modalità, secondo i contesti locali che vuole creare. In tale prospettiva, una questione che attrasse l’atten- zione degli inquisitori riveste un’importanza centrale: il rapporto fra la spiritualità di Maria Villani, il misticismo di Dorotea Quaglia e gli insegnamenti di Giuseppe Antonio di Sant’Elia.

La monaca napoletana era un personaggio controverso, ma, almeno ufficialmente, non era mai stata accusata di tendenze eterodosse, né i suoi scritti, molto numerosi, erano mai stati condannati75. Cionono-

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stante, la sola lettura di una biografia della Villani risulta fortemente sospetta ai giudici che interrogano il frate carmelitano76. Anche il libro di Maria Bon dell’Incarnazione, ispiratrice di pratiche quietiste a Spi- gno, aveva inizialmente ottenuto l’autorizzazione del Sant’Uffizio: esso fu proibito solo nel 1676, non per ragioni teologiche, ma a seguito dei disordini di cui era stato origine in diocesi di Savona.77. Le autorità romane, insomma, sembrano avvertire la riflessione mistica di Maria Villani e di Maria Bon come eterodossa solo nel momento in cui essa è tradotta nell’ambito di una pratica religiosa che tende a svincolare i fedeli dalle devozioni ordinarie e, di conseguenza, dagli spazi sacri che esse costruiscono e dai soggetti ai quali ne è affidato il controllo.

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6. Dopo aver dichiarato piena sottomissione all’autorità ecclesiasti- ca, Isnardi e i due carmelitani tornarono ad Asti; Dorotea Quaglia rima- se invece nelle carceri del Sant’Uffizio, prima di essere sottoposta alle penitenze comminateli. La donna fu poi ospitata per un certo periodo presso una famiglia romana, infine in una casa di terziarie, dove, secon- do Isnardi, patì la fame per l’ostilità delle consorelle, che trattenevano per sé i «molti regali di vini squisiti e commestibili» che ella riceveva78. Giuseppe Antonio di Sant’Elia, rientrato ad Asti, fu trasferito dai superiori: ma la sua carriera rimase comunque brillante, perché fu eletto priore a Vercelli. Dopo il processo, tuttavia, i carmelitani scompaiono completamente dall’esperienza mistica di Dorotea Quaglia e dalla stra- tegia di azione di Urbano Isnardi, così come i Roero Sanseverino.

Intorno al 1722, grazie alla mediazione di un prete piemontese, ospite del collegio Nardini a Roma79, Dorotea poté fare ritorno ad Asti:

qui, scrive Isnardi, Dio la voleva «per fondare quell’Opera già da tanto tempo ispiratale prima della sua andata a Roma»80. L’Opera in questio- ne era un istituto laico per ragazze nubili, «di condizione ordinaria ma non vile»81, che Isnardi intendeva fondare in città, sotto patronato reale, riservandosene l’amministrazione. Il convitto, intitolato alla Sacra Fa- miglia, vide ufficialmente la luce nel 1744, quando Carlo Emanuele III emanò le patenti di approvazione82. Tuttavia, già dal 1732 Isnardi aveva rassegnato agli oratoriani la parrocchia di San Paolo, riservandosene i redditi certi: egli viveva con Dorotea Quaglia in una casa di sua pro- prietà, insieme a cinque ragazze, occupate principalmente nella filatura di tele e nella manutenzione di alcune sue terre83.

Urbano Isnardi non rinunciò affatto al tentativo di gestire pratiche devozionali attraverso l’idioma mistico ed estatico. Non è possibile qui approfondire le controverse vicende che accompagnarono la fondazio- ne e i primi anni di vita dell’Opera della Sacra Famiglia84. Ciò che, per ora, preme rilevare è la persistenza del ricorso a un’autorità carismatica,

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alternativa a quella istituzionale, per rivendicare diritti e riorganizzare spazi giurisdizionali. Nel convitto, Isnardi radunò una comunità in cui il misticismo estatico giocava ancora una volta un ruolo chiave85: tutta- via, nonostante le violente opposizioni incontrate dall’Opera, negli anni successivi né Isnardi né Dorotea furono accusati di pratiche eterodosse.

Nel 1752 Isnardi e la nuova direttrice, erede del carisma di Dorotea, furono accusati di compiere esorcismi all’interno dell’Opera: il vescovo di Asti, l’oratoriano Giuseppe Felissano, fu allora tra i loro più strenui difensori. Le pratiche di devozione promosse da Isnardi, e dalla diret- trice Anna Mattea Ricolfi, non costituivano più una pericolosa alterna- tiva a quelle gestite dalle istituzioni diocesane. Era infatti soprattutto l’intervento degli ordini regolari, non di rado sostenuti dalla nobiltà locale, a costituire un fattore destabilizzante per le autorità diocesane86: il ricorso all’idioma mistico e visionario da parte di esponenti dell’éli- te del clero diocesano, come Isnardi, poteva invece essere tollerato, in quanto consentiva di utilizzare un elemento profondamente radicato nella cultura locale per riaffermare la legittimità probatoria del vescovo.

Guidate dall’esponente di un clero diocesano ormai riconciliato con il potere civile, le visionarie profetesse ospitate nell’Opera della Sacra Famiglia contribuirono, come era avvenuto per l’Opera Milliavacca, al tentativo – questa volta fallito – di sottrarre l’Opera alla giurisdizio- ne laica, trasformandola in luogo pubblico dotato di immunità. Non a caso, i principali oppositori dell’istituto divennero gli ordini regolari presenti ad Asti, in particolare i serviti, mentre le autorità diocesane lo appoggiarono con forza.

L’esito della vicenda che ho sommariamente presentato sembra sug- gerire, in conclusione, che pratiche rituali alternative a quelle control- late dalle istituzioni diocesane, come devozioni genericamente definite

«quietiste», potessero risultare destabilizzanti non solo sul piano disci- plinare e dottrinale: esse paiono esprimere, infatti, anche strategie po- litiche e istanze giurisdizionali che devono ancora essere indagate.

ELISABETTA LURGO

Université Savoie Mont-Blanc Laboratoire Langages, Littératures, Sociétés, Etudes Transfrontalières et Internationales elisabetta-giuseppina.lurgo@univ-smb.fr Note al testo

1 M. MODICA, Infetta dottrina. Inquisizione e quietismo nel Seicento, Roma 2009, p. 7. Su Miguel de Molinos rimane imprescindibile P. DUDON, Le quiétiste espagnol Michel Molinos (1628-1698), Paris 1921; ma cfr. ora A. MALENA, in A. PROSPERI (dir.), Dizionario storico

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dell’Inquisizione, Pisa 2010, vol. 2, pp. 1059-60; P. ZITO, Il veleno della quiete. Mistica ereticale e potere dell’ordine nella vicenda di Miguel Molinos, Napoli 1997.

2 Sulla diffusione del quietismo si veda, in generale, J. ARMOGATHE, Le quiétisme, Paris 1973. Per l’area italiana, cfr. A. MALENA, Quietismo, in Dizionario storico dell’Inquisizione, vol.

3, pp. 1288-94; EAD., La costruzione di un’eresia. Note sul quietismo italiano del Seicento, in R.

MICHETTI, G. ZARRI (a cura di), Ordini religiosi, santi e culti tra Europa, Mediterraneo e Nuovo Mondo (secoli XV-XVII), 1, Galatina 2009, pp. 165-84; EAD., L’eresia dei perfetti. Inquisizione romana ed esperienze mistiche nel Seicento italiano, Roma 2003; S. STROPPA, Sic arescit. Letteratura mistica del Seicento italiano, Firenze 1998, pp. 79-125; G. SIGNOROTTO, Inquisitori e mistici nel Seicento italiano. L’eresia di Santa Pelagia, Bologna 1989; M. PETROCCHI, Il Quietismo italiano del Seicento, Roma 1948. Per lo studio di singole regioni, cfr. P. FONTANA, L’orazione mentale a Genova tra la fine del secolo XVI e la prima metà del XVII, «Rivista Teologica», 5/1 (1994), pp.

67-77; G. SIGNOROTTO, Il quietismo nella diocesi di Como, in Como e Aquileia. Per una storia della società comasca (612-1751), Como 1991, pp. 239-56; R. CANOSA, I. COLONNELLO, L’ultima eresia. Quietisti e Inquisizione in Sicilia tra Seicento e Settecento, Palermo 1986.

3 MALENA, L’eresia dei perfetti cit., pp. 6-8, ha sottolineato la difficoltà di definire l’eresia quietista senza adottare, come paradigmi di analisi storica, le categorie adottate dagli inquisitori:

la studiosa ha proposto di utilizzare il termine «misticismo» in riferimento a esperienze religiose definite come quietiste in un determinato periodo storico, il cui denominatore comune è la ricerca di un rapporto diretto con il divino.

4 Cfr. ivi. Sui pelagini cfr. L. ROSCIONI, «Una storia così strana». Anomalie procedurali ed emergenza mistica ai Pelagini e a Francesco Giuseppe Borri (1655-1671), in «Quaderni storici», 134 (2011), pp. 697-727. Sulla simulazione di santità o «santità affettata» cfr. A. SCHUTTE, Pretense of Holiness in Italy: Investigations and Persecutions (1581-1876), in «Rivista di Storia e Letteratura religiosa», 37 (2001), pp. 299-321; G. ZARRI (a cura di), Finzione e santità tra medioevo ed età moderna, Torino 1991.

5 Cfr. PETROCCHI, Il Quietismo italiano cit.

6 MODICA, Infetta dottrina cit., pp. 209-17, p. 213.

7 Sul contesto e il rituale che generano una località, e sono da quest’ultima generati, cfr. A.

TORRE, Luoghi. La produzione di località in età moderna e contemporanea, Roma 2011; sulla natura giurisdizionale delle pratiche rituali in Antico Regime, cfr. E. GRENDI, In altri termini. Etnografia e storia di una società di antico regime, a cura di O. RAGGIO, A. TORRE, Milano 2004; A. TORRE, Il consumo di devozioni. Religione e società nelle campagne dell’Ancien Régime, Venezia 1995.

8 Cfr. R. AGO, Cambio di prospettiva: dagli attori alle azioni e viceversa, in J. REVEL (a cura di), Giochi di scala. La microstoria alla prova dell’esperienza, Roma 2006, pp. 239-50.

9 Sul quietismo in Piemonte e nello Stato sabaudo mancano ancora sia uno studio com- plessivo, sia contributi critici su singole figure. Un primo approccio in S. LOMBARDINI, Aspetti della religiosità popolare nel Monregalese del Seicento, in G. Galante Garrone et al. (a cura di), Le risorse culturali delle valli monregalesi e la loro storia, Savigliano 1999, pp. 212-46.

10 I conflitti con Roma scaturivano dalla presenza, nello Stato sabaudo, di territori con pratiche e usi diversi: alcune province aderivano agli «usi d’Italia», mentre altre seguivano quelli gallicani, sulla base dell’indulto di Niccolò V. I conflitti giurisdizionali con Roma furono regolati mediante il Concordato del 1727, annullato da Clemente XII nel 1731, ma riconfermato da Benedetto XIV nel 1741: cfr. M. SILVESTRINI, La politica della religione. Il governo ecclesiastico nello Stato sabaudo del XVIII secolo, Firenze 1997; sul governo di Vittorio Amedeo II (1675-1730) cfr. C. STORRS, War, Diplomacy and the rise of Savoy, 1690-1720, Cambridge 1999; G. SYMCOX, Victor Amadeus II: absolutism in the Savoyard state, 1675-1730, London 1988.

11 Cfr. LOMBARDINI, Aspetti della religiosità popolare cit.

12 Sulla complessa geografia giurisdizionale del Piemonte sabaudo, cfr. SYMCOX, Victor Amadeus II cit., pp. 18-53; P. COZZO, Il confine fra geografia politica e geografia ecclesiastica nel Piemonte di età moderna: una complessa evoluzione, in B. RAVIOLA (a cura di), Lo spazio sabaudo. Intersezioni, frontiere e confini in età moderna, Milano 2007, pp. 195-206. Sui feudi

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imperiali, cfr. V. TIGRINO, Istituzioni imperiali per lo Stato sabaudo tra fine dell’Antico Regime e Restaurazione, in M. SCHNETTGER, M. VERGA (a cura di), L’Impero e l’Italia nella prima età moderna, Bologna-Berlino 2006, pp. 179-240; A. TORRE, Idioma giurisdizionale e transiti commerciali. Spunti di riflessione sulla cultura politica dei feudi imperiali delle Langhe in età moderna, in C. CREMONINI, R. MUSSO (a cura di), I feudi imperiali in Italia tra XV e XVIII secolo, Roma 2010, pp. 121-36; ID., Faide, fazioni e partiti, ovvero la ridefinizione della politica nei feudi imperiali della Langhe tra Sei e Settecento, in «Quaderni Storici», 63 (1986), pp. 775-810.

13 Cfr. SILVESTRINI, La politica della religione cit., pp. 293-375.

14 La connessione fra la diffusione di pratiche «quietiste» e l’espansione oratoriana è osservata già da SIGNOROTTO, Inquisitori e mistici cit.

15 La straordinaria diffusione degli oratori di San Filippo Neri, tra la fine del Seicento e i primi decenni del Settecento, non è stata adeguatamente studiata. Cfr. F. DANIELI, San Filippo Neri: la nascita dell’oratorio e lo sviluppo dell’arte cristiana al tempo della Riforma, Cinisello Balsamo 2009. Sulla progressiva collaborazione fra governo sabaudo e autorità vescovile, cfr.

SILVESTRINI, La politica della religione cit., pp. 200-32.

16 Un caso di autorità carismatica, costruita attraverso reti di relazioni sociali, è quello del parroco ed esorcista piemontese Giovanni Battista Chiesa: cfr. G. LEVI, L’eredità immateriale.

Carriera di un esorcista nel Piemonte del Seicento, Torino 1985.

17 La presenza di un forte malcontento in una parte del clero, alimentato da una satura- zione nella costituzione di benefici ecclesiastici, è rilevabile anche nella Valcamonica studiata da SIGNOROTTO, Inquisitori e mistici cit.: cfr. LOMBARDINI, Aspetti della religiosità popolare cit.

Su Mondovì, cfr. G. COMINO, scheda Mondovì, in «Schedario Storico Territoriale dei Comuni Piemontesi» (d’ora in poi SSTCP) (http://www.centrocasalis.it/localized-install/content/sche- dario-storico-territoriale-dei-comuni-piemontesi)

18 Su Anna Maria Faussone (1637-1697), cfr. R. DAVICO, L’anonimo mondovita e la sua storia: la «Relazione dei successi seguiti nella città e mandamento di Mondovì», in G. LOMBARDI

(a cura di), La guerra del sale (1680-1699). Rivolte e frontiere del Piemonte Barocco, III, Milano 1986, pp. 123-39. Dal manoscritto di Cordero, incamerato dal Sant’Uffizio, dipende la biografia scritta da FRANCESCO DE SIMONE, Vita della serva di Dio Anna Maria Faussone, Roma 1731.

Sulla «guerra del sale», una serie di rivolte che si scatenarono con particolare forza nei territori che gravitavano intorno a Mondovì, cfr. Lombardi, La guerra del sale cit., voll. I-III. Sebastiano Valfrè (1629-1710), in stretto contatto con la corte sabauda e direttore spirituale di monache e laiche non scevre da sospetti di eterodossia, giocò un ruolo chiave nella promozione di pratiche devozionali sotto l’egida oratoriana: cfr. G. GAUNA, F. BOLGIANI (a cura di), Oratorio e laboratorio: l’intuizione di san Filippo Neri e la figura di Sebastiano Valfrè, Bologna 2008; A.

DORDONI, Un maestro di spirito nel Piemonte tra Sei e Settecento. Il padre Sebastiano Valfrè dell’Oratorio di Torino, Milano 1992.

19 Su questo mi permetto di rinviare a E. LURGO, Profetesse e visionarie nel ducato sabaudo fra XVII e XVIII secolo. Appunti da una ricerca, in «Ricerche di Storia Sociale e Religiosa», 79 (2011), pp. 351-71.

20 Su Anna Maria Emmanueli (1615-1673) manca uno studio complessivo: cfr. LURGO, Profetesse e visionarie cit., pp. 360-3. Sui rapporti fra la Emmanueli e Valfrè, cfr. P. LONGO, La vita religiosa nel XVII secolo, in Storia di Torino, 4, La città fra crisi e ripresa (1630-1730), a cura di G. RICUPERATI, Torino 2002, pp. 681-710; DORDONI, Un maestro di spirito cit., pp.

94-5; cfr. anche il modesto saggio di R. GREMMO, Streghe e magia. Episodi di opposizione religiosa popolare sulle Alpi del Seicento, Biella 1994, pp. 190-205. L’unica agiografia a stampa di Anna Maria è opera di un anonimo oratoriano, identificato da Dordoni con Giovanni Vacca (Un maestro di spirito cit., p. 94, n. 79): Vita della serva di Dio Anna Maria Emmanueli nata Buonamici di Sommariva Bosco in Piemonte, Torino 1772, che si basa sugli scritti di Valfrè, conservati a Torino, Archivio Provinciale della Congregazione di S. Filippo Neri, Fondo Sebastiano Valfrè - Scritti del beato Sebastiano Valfrè, vol. 19: Manoscritto del beato Sebastiano Valfrè che contiene molte memorie della serva di Dio Anna Maria Emanuelli di Sommariva Bosco e Vita della Serva

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di Dio Anna Maria Emanuelli; ivi, Scritti diversi, s.n., Manoscritto frammentario sulla vita della serva di Dio Anna Maria Emanuelli.

21 Al processo contro Scarampi accennano Malena, L’eresia dei perfetti cit., pp. 245-50;

SIGNOROTTO, Inquisitori e mistici cit., pp. 266-7; PETROCCHI, Il Quietismo cit., pp. 46-51.

Un’approfondita analisi del gruppo di Spigno è condotta da L. GIANA, Pratiche e ambiti giurisdizionali. Analisi del quietismo a Spigno nel XVII secolo, Tesi di laurea in Storia moderna, rel. A. Torre, Università di Genova, a.a. 1998-1999. Sui possedimenti degli Scarampi, coinvolti a più riprese nella competizione per la gestione di feudi imperiali, cfr. TORRE, Le terre degli Scarampi: appunti per una lettura della Langa astigiana nell’età moderna, in E. RAGUSA, A. TORRE

(a cura di), Tra Belbo e Bormida: luoghi e itinerari di un patrimonio culturale, Asti 2003, pp. 33-46;

sul marchesato di Spigno, cfr. GIANA, Giustizia e istituzioni. La definizione di un feudo imperiale nel XVII secolo, in «Quaderni Storici», 135 (2012), pp. 125-60; ID., La pratica delle istituzioni:

procedure e ambiti giurisdizionali a Spigno nella prima metà del XVII secolo, in «Quaderni Storici», 103 (2000), pp. 11-48. Il libro di Maria Bon è la traduzione italiana di un manoscritto francese, Stati dell’orazione mentale per arrivare in breve tempo a Dio, Torino 1674; su Maria Bon (1636-1680) cfr. F. VERNET, Bon, Marie de l’Incarnation, in Dictionnaire de Spiritualité: ascétique et mystique, doctrine et histoire, I, Paris 1937, coll. 17-62.

22 Si tratta di Revigliasco d’Asti: cfr. E. DADONE, Ricerche storico-giuridiche sul feudo e la comunità di Revigliasco d’Asti, Tesi di laurea in Storia del diritto italiano, rel. M. Benedetto, Università di Torino, a.a. 1982-1983; R. LEGGERO, scheda Revigliasco d’Asti, in SSTCP. L’archivio dei Roero Sanseverino si trova a Torino, presso l’Archivio Storico dell’Opera Pia Barolo: ho potuto consultarlo in fase di inventariazione, ma non risulta documentazione posteriore alla metà del Seicento.

23 Archivio di Stato di Torino (d’ora in poi AST), Materie giuridiche, Materie criminali, Polizia, m. 13, Atti criminali sovra li malefici e calunnie gravissime date da Gerolama Catterina Core e Clara Maria Ribollet condannate alla morte. Informationi prese in Torino, 15 febbraio 1717.

24 Cfr. S. LORIGA, «Un secreto per far morire la persona del re». Magia e protezione nel Piemonte del ’700, in «Quaderni Storici», 53 (1983), pp. 529-52. Il fondo esaminato dall’Autrice è conservato in AST, Materie Giuridiche, Materie Criminali, Polizia, mm. 4, 10, 12, 14-16, 23. Per un’analisi del maleficio in Liguria, regione limitrofa al Piemonte, cfr. P. FONTANA, Il maleficio nella Genova e nella Liguria di età moderna (secoli XVI-XVIII), in «Ricerche Teologiche», 20 (2009), pp. 383-427.

25 AST, Materie Giuridiche, Materie Criminali, Polizia, m. 16, f. 20, Copie di biglietti del conte Mellarede al cavaliere Le Blanc: il detenuto Fraylino non deve comunicare con nessuno perché «son cas est d’avoir accepté de faire baptiser une statue couronée toute de cire sous le nom de S.A.R. par un prêtre pour s’en servir à des arts magiques. Et comme ces sortes de statues étoient l’entretien de plusieurs, principalement du côté d’Ast, il a fallu en faire perdre l’idée» [corsivo mio].

26 Ivi, m. 13, Atti criminali sovra li malefici e calunnie gravissime… Informationi prese in Torino; m. 14, Relazione, lettere e memorie sul processo criminale formato contro Girolama Cattarina Core e Clara Maria Ribollet accusate di diversi sortilegi.

27 Cfr. AST, Materie giuridiche, Materie criminali, Polizia, m. 13: Responses en langue italienne, 17 dicembre 1716, c. 10r e § 157-159, 188. Il marchese di Parella è Carlo Emilio San Martino, nel 1682 ispiratore di una congiura filo-imperiale ai danni della reggente Maria Giovanna di Nemours: egli, inoltre, giocò un ruolo chiave nell’opera di mediazione fra le città di Mondovì e Torino dopo la «guerra del sale». Cfr. C. CONTESSA, La congiura del marchese di Parella (1682), in «Bollettino Storico Bibliografico Subalpino», 38 (1936), pp. 73-101; STORRS, War, Diplomacy and the rise of Savoy cit., pp. 267-76. Sul processo alle quattro «streghe» cfr.

R. CANOSA, I. COLONNELLO, Gli ultimi roghi. La fine della caccia alle streghe in Italia, Roma 1983, pp. 58-69.

28 AST, Materie giuridiche, Materie criminali, Polizia, m. 13: Responses en langue italienne, 17 dicembre 1716, cc. 32v-35r.

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