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In questo capitolo è analizzato il rapporto tra la verità e la certezza della fede. I teologi riformati legavano la credenza, da un lato, alla chiarezza delle Scritture e delle prove della loro divinità, colte dall’intelletto illuminato, dall’altro al sentiment interiore con cui era percepito il témoignage dello Spirito: era questo elemento, si è visto, che, secondo la dottrina ortodossa sulla conversione, trasformava la persuasione circa le verità delle Scritture da una semplice opinione a un’assoluta certezza, producendo nel credente una vera trasformazione.

È nella controversia che i teologi di Sedan, Beaulieu e Jurieu, per rispondere alle obiezioni dei loro avversari - soprattutto di quei razionalisti di stampo cartesiano che erano i giansenisti - si sforzano di chiarire la particolare relazione che s’instaura tra il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto nella produzione della fede, in cui tuttavia interviene un terzo elemento, lo Spirito santo, il quale opera immediatamente. La credenza risulta una comprensione che non è quindi rapportata al solo contenuto di verità dell’oggetto conosciuto, ma attraverso i testi sacri e il loro contenuto si realizza in un rapporto vivo e presente con lo Spirito. Le Scritture, perciò, non sono il vero oggetto del credere, ma lo diventano in quanto la loro fruizione permette di incontrare la Verità, di cui esse sono l’immagine - una Verità che, manifestandosi immediatamente nel cuore del fedele, le anima e le vivifica.

Il sentiment si trova dunque in relazione agli effetti della fede, ma a detta di Arnauld esso era considerato dai riformati il principio in base a cui la fede era ritenuta giustificante, quindi vera e certa: il suo obiettivo polemico è perciò il sentiment interiore con cui l’anima percepisce se stessa e i propri pensieri. Mentre per Descartes ciò che l’anima coglie di se stessa attraverso il “senso interno”, come la propria libertà e la propria natura di res cogitans, è vero, per Arnauld l’affidabilità di questo senso ha dei limiti. L’amor proprio e le passioni sono capaci d’interferire con lo sguardo interiore, creando inganni. Il sentiment è, quindi, di per sé ambiguo e le conclusioni fondate solo su di esso sono facilmente frutto di autosuggestione. La fede ha bisogno di un fondamento più certo:

per i giansenisti e gli altri cattolici, esso non poteva essere che l’infallibilità della Chiesa di Roma.

Beaulieu e Jurieu raccoglieranno la sua sfida e cercheranno di difendere la capacità dell’individuo di fondare la certezza della propria fede su una conoscenza autentica e verificabile, ciascuno ricorrendo ad argomenti diversi.

2.1. La fede giustificante e il sentiment per Beaulieu

Per comprendere cosa sia la justification, una delle dottrine riformate che fanno l’oggetto della contestazione di Arnauld nel Renversement de la morale de Jésus-Christ (1672)1, possiamo richiamarci alla spiegazione datane da Pierre Jurieu nell’opera da lui scritta tre anni dopo, in risposta al giansenista. La justification, dice Jurieu, è l’annullamento dell’offesa fatta a Dio da Adamo ed è operata da Dio stesso, applicando al credente la soddisfazione di Cristo, il quale, morendo al posto di tutti gli uomini, ha scontato ciò che essi dovevano alla giustizia divina. La justification è concessa, però, a una condizione: la fede che fruttifica in buone opere. Fede e pentimento non sono perciò dei meriti, ma sono le «dispositions» e gli «instrumens d’application»

stabiliti dal Creatore2. Il peccato di Adamo, tuttavia, ha dato luogo anche a un secondo tipo di male, che ha allontanato l’uomo da Dio: in seguito alla Caduta, «soüillures internes» e abitudini viziose rendono gli uomini simili al diavolo, per cui essi sono diventati “suoi figli”, assoggettandosi completamente alla sua potenza3. Due sono, perciò, le operazioni che la grazia deve attuare per rimediare a questi due tipi di corruzione: la justification e la justice, le quali secondo Jurieu equivalgono a ciò che la Chiesa di Roma indica con il termine di “giustificazione”. Pur essendo distinte, justification e justice sono inseparabili: nel momento in cui Dio opera la remissione dei peccati attraverso l’imputazione della giustizia di Cristo, accorda anche la grazia della santificazione come rimedio ai mali che affettano le facoltà dell’uomo corrotto4. La differenza tra le due operazioni consiste nel fatto che, mentre la justification avviene in un solo momento e una volta per tutte, la seconda si realizza gradualmente, poiché deve eliminare delle abitudini profondamente radicate.

Complessivamente, dunque, la rigenerazione attraverso la fede avviene attraverso tre operazioni della grazia: justification (la remissione dei peccati), justice (con cui le facoltà umane corrotte ricevono nuove disposizioni e mutate abitudini) e persévérance5. Giustificazione e perseveranza sono strettamente legate: se Dio ha deciso che alcuni debbano salvarsi, è impossibile che Egli non raggiunga il fine che si è proposto, e per fare ciò deve aver scelto dei mezzi infallibili. Gli eletti, dunque, non possono essere che giustificati, santificati e perseveranti6. Questo non significa che

1 A. Arnauld, Le renversement de la morale de Jésus-Christ par les erreurs des Calvinistes touchant la justification, J.

Desprez, Paris 1672.

2 P. Jurieu, Apologie pour la morale des reformez ou defense de leur doctrine touchant la Justification, la Persévérance des vrais Saint, et la Certitude que chaque fidéle peut et doit avoir de son Salut, J. Lucas, Quevilly 1675, p. 3-4.

3 Cfr. ivi, p. 3: «Ils [questi disordini] sont dans le cœur et dans l’ame : Ils comprennent les ténébres de l’entendement, les vices de la volonté, et le déréglement des passions ; et en general, toute cette turpitude inhérente du peché qui rend l’homme abominable devant Dieu, et le dispose à commettre des crimes».

4Cfr. ivi, p. 6: «Et par cette grace, la lumiére succede aux tenebres dans l’entendement, les vertus aux vices dans le cœur, et l’obeïssance des passions à leur révolte».

5Cfr. ivi, p. 30: «La justification qui n’est autre chose que la rémission des péchez : La justice par laquelle l’entendement, la volonté et les passions reçoivent de nouvelles dispositions et de nouvelles habitudes : Et enfin la persevérance, qui n’est autre chosequ’une constante et perpétuelle possession de cette justice qui va toûjours en augmentant jusques à ce que de la Grace elle nous ait conduit à la Gloire».

6Cfr. ivi, p. 30-31: «Dieu donc dans le dessein de sauver les êlûs, les appelle dans le temps, leur donne la foy et la repentance en les appellant, il les justifie après les avoir appelez ; il les sanctifie en les justifiant, et leur accorde le don

l’eletto sia salvato comunque, a prescindere da come si comporti: gli vengono dati via via dei doni che gli permettono di liberarsi dei suoi vizi (anche se non arriverà mai a liberarsene completamente, e per questo ha bisogno della continua assistenza della grazia); tali doni gli consentono di perseverare nella fede e nelle abitudini di virtù contratte al posto di quelle peccaminose.

Nelle sue tesi, Beaulieu aveva distinto due processi espistemologici e psicologici assistiti dalla grazia che davano luogo, il primo, alla fede propriamente detta, cioè l’assenso alle verità delle Scritture, il secondo, alla giustificazione. In entrambi i processi interviene il témoignage dello Spirito; ma, mentre gli oggetti della fede sono le verità divine contenute nei testi sacri ed esse sono per il credente assolutamente certe, la certezza che riguarda la giustificazione ottenuta in virtù di tale fede ha secondo Beaulieu uno statuto più ambiguo, perché dipende in parte dalla certezza soggettiva di nutrire la vera fede, condizione necessaria per ottenere la remissione dei peccati. Con il secondo témoignage interiore dello Spirito, per Beaulieu, il credente acquisisce la certezza di avere ricevuto la justification, cioè la remissione dei propri peccati grazie all’adozione e all’imputazione della giustizia di Cristo. Successiva alla formazione della vera fede è, infatti, l’application, con cui ciascun fedele riferisce a sé il contenuto delle promesse del Vangelo e l’adozione da parte di Dio.

Nell’ultimo paragrafo della tesi De certitudine quæ fidei competit (non datata ma posteriore a quella sull’autorità delle Scritture, cui fa riferimento al suo interno7), Beaulieu afferma che il témoignage dello Spirito deve intervenire due volte: dapprima quando genera la persuasione che ha come oggetto le verità delle Scritture e, in seguito, quando rende note al credente l’adozione e l’elezione. Il primo témoignage, dunque, precede la presenza della fede nell’animo, l’altro invece è successivo:

Tuttavia bisogna distinguere questo testimonium dello Spirito santo, che testimonia interiormente della nostra adozione e della verità e divinità del verbo evangelico attraverso gli effetti vari e chiaramente divini che produce in noi, per mezzo della Parola di Dio accolta con fede e riconosciuta, dall’altra operazione con cui lo Spirito crea in noi la fede e l’infonde, e che pure suole essere comunemente chiamato testimonium interno dello Spirito. Infatti questo testimonium precede per natura la fede, quell’altro invece consegue alla fede, e la presuppone8.

de la persévérance après les avoir sanctifiez ; Et il y a une si êtroite liaison entre les parties de cette chaîne, que jamais elles ne sçauroient estre séparées ; car si l’êlû n’étoit justifié, et ne persévéroit après la justification, il périroit éternellement ; ce qui est autant impossible, comme il est impossible que Dieu mente».

7 Cfr. L. Le Blanc de Beaulieu, Theses theologicæ de certitudine quæ fidei competit, in Theses Theologicæ, p. 163-171 (collocate dopo la p. 132), xxx, p. 168: «Itaque summam illam fidei certitudinem referunt ad internum Spiritus testimonium, id est, ut jam explicuimus, ad occultam et potentissimam Spiritus Sancti operationem, qua immediatè certissimam illam de verbo Dei persuasionem mentibus fidelium indit. Quod et nos in aliis Thesibus secuti sumus».

8 Ivi, xlviii, p. 171: «Verùm hoc Spiritus Sancti testimonium, quod intus perhibet adoptioni nostræ et Evangelici verbi veritati et divinitati per effecta varia ac planè divina quæ in nobis producit, mediante Dei verbo fide suscepto et admisso, distinguendum est ab altera illius operatione, qua fidem in nobis creat et infundit, et quæ etiam vulgo testimonium internum Spiritus appellari solet. Etenim hoc testimonium fidem natura præcedit, ut patet, alterum verò illud fidem consequitur, et illam supponit».

Di queste due “fasi” che conducono alla rigenerazione Beaulieu dà una spiegazione in termini psicologici che chiama in causa i concetti di “pace dello spirito” e “consolazione” già presenti in Calvino: il verbo divino, riconosciuto in fede, dapprima suscita nella coscienza paura del peccato e del castigo divino; poi però mitiga tali sentimenti «con una dolcissima consolazione» e «crea in essa una pace che supera ogni intelletto e gaudio inenarrabile». Allora esso «muta le affezioni degli uomini, corregge quelle cattive, calma quelle turbate, purifica quelle impure», «libera l’animo dalla schiavitù dei vizi» e lo induce a servire e venerare Dio volentieri e con zelo: in tal modo «rinnova l’uomo per intero, dentro e fuori» così che, da quel momento, egli rinuncia «all’empietà e a tutti i piaceri mondani» e vive «sobriamente, con giustizia e piamente». Può perciò essere chiamato a buon diritto «una creatura nuova» 9.

La rigenerazione segue quindi la nascita della fede e la giustificazione: essa porta l’uomo non solo a mutare internamente, poiché le passioni non hanno più il dominio sull’anima, ma anche a compiere azioni giuste e a vivere in modo conforme al suo nuovo stato. Questo risponde alla disputa sulle opere con la Chiesa di Roma: non sono le azioni virtuose che procurano la salvezza, né esse testimoniano della fede, ma sono effetti dell’operazione della grazia, cui va il merito.

Tale trasformazione, il teologo di Sedan ne è convinto, non avviene in modo totalmente incosciente:

La parola di Dio non può invero compiere tutte queste operazioni negli animi degli uomini senza che essi sentano in sé il dito di Dio e riconoscano una divina efficacia che muove e influenza all’interno le loro anime in vari e mirabili modi10.

Ecco come Beaulieu pare interpretare il famoso passo in cui Calvino sostiene che il sentiment dell’eletto sia una conferma della verità della rivelazione: la sensazione di essere toccati da Dio e di sentirlo agire dentro di sé suscita nei rigenerati diverse reazioni e commozione. Più essi riflettono sulle sensazioni che provano meditando sui testi sacri, «più saldamente si confermano nella fede, e con un nuovo argomento inferiscono che è veramente divino quel verbo di cui sentono dentro di sé

9Cfr. ivi, xlv, p. 170: «Verùm adhuc alia ex parte certitudo quædam fidei accrescit. Postquam enim aliquis Dei verbum admisit vera et sincera fide, verbum istud potenter et efficaciter in eo operatur. Nam primò conscientiam terret atque percellit acutissimo peccati et iræ Dei sensu. Deinde illam consolatione suavissima mulcet, et creat in ea pacem quæ superat omnem intellectum et gaudium inenarrabile: Phil. 4.7.1 Petr. 1.8. Tum quoque hominum affectus immutat, pravos corrigit, turbatos componit, impuros mundat atque purificat: Et liberat animum à servitute vitiorum, ut libenter et alacriter Deum colat, et ipsi serviat: adeóque sic hominem totum intus et extra innovat, ut omni impietati et cupiditatibus mundanis renuncians, sobriè, justè et piè in hoc sæculo vivat, atque eo nomine nova creatura dici mereatur». Cfr. anche Idem, Theses theologicæ de certitudine quam quis habere possit et debeat de sua coram Deo justificatione, Pars Prima-Secunda, in Theses Theologicæ, p. 284-302, e Idem, Theses theologicæ de Fidei justificantis Natura et Essentia, cxliv, p. 221-222.

10L. Le Blanc de Beaulieu, Theses theologicæ de certitudine quæ fidei competit (non datate), in Theses Theologicæ, xlvi, p. 170: «Ista verò Dei verbum in hominum animis operari non potest, quin ipsi digitum Dei in se sentiant, et agnoscant divinam quandam efficaciam, quæ intus eorum animos miris et variis modis commovet et afficit».

tanta divina forza ed energia» 11. In questo modo la certezza dell’assenso di fede è rinforzato da quest’esperienza dell’azione di grazia:

alla fede si aggiunge una certezza, per così dire, sperimentale: anche in ciò è giusto notare una testimonianza interiore molto insigne e illustre dello Spirito santo, con cui il verbo di Dio è sigillato nel cuore dei fedeli e ne è sancita la divinità e verità 12.

Quest’operazione, secondo Beaulieu, è ciò che S. Paolo intende quando afferma, in Romani 8,17, che lo Spirito santo, insieme al nostro spirito, ci testimonia che siamo figli di Dio e che la sua Parola è rivolta a noi13.

Distinguere il secondo témoignage, con cui è confermata l’adoption, dal primo, con cui avviene l’infusione della fede, consente a Beaulieu di non attribuire all’assenso di fede la certezza

«sperimentale» dell’adoption e della justification, ma di fondarla invece sull’immediatezza (nel senso che egli dà al termine, cioè di conoscenza a priori, non passibile di dimostrazione, come i primi principi della logica14) con cui la Scrittura stessa notifica ed attesta la propria verità e autenticità.

Beaulieu aveva distinto, dunque, l’assenso alle verità di fede contenute nelle Scritture (prodotto dal duplice intervento dello Spirito sulle facoltà), dalla confiance, virtù che derivava dalla fede posseduta e da un ulteriore intervento dello Spirito. Per Beaulieu, insomma, il sentiment non veniva prima della fede, cioè dell’assenso dato alle Scritture: il primo témoignage dello Spirito interveniva solo dopo che la fede era nata nell’intelletto ed incitava ad esprimere un assenso assolutamente certo. Il secondo témoignage aveva per oggetto, invece, il possesso da parte del singolo credente della fede e delle altre virtù necessarie affinché tale fede potesse produrre la rigenerazione.

La certezza con cui il credente aderiva alle verità divine, perciò, non era identica alla certezza con cui esso era convinto di possedere la fede capace di giustificarlo: quest’ultima poteva variare d’intensità nel corso del tempo e poteva dipendere da principi e motivazioni diverse. Tale certezza, per quanto grande potesse essere, non era immune dal dubbio e non poteva quindi essere pari a quella attribuita agli oggetti di fede. La credenza nella propria giustificazione, infatti, era fondata

11 Cfr. ibidem: «Nec possunt mentem eo reflectere, quin inde validè in fide confirmentur, et novo quodam argumento colligant verè divinum esse verbum illud cujus tam divinam vim et ενεργειαν in se persentiscunt. Quo spectat Apostolus dum gratulatur Thessalonicensibus quod verbum auditus Dei accepissent, non ut verbum hominum, sed sicut verè est, ut verbum Dei; quod et, inquit, operatur in vobis qui credidistis, I Thess. 2.13». L’autorità cui il teologo direttamente si richiama, si noti, non è Calvino ma la Bibbia: sebbene il testo del Riformatore sia naturalmente ben presente a Beaulieu, egli è attento a mettere sempre al centro del proprio pensiero la Scrittura, che per lui costituisce il vero fondamento della fede.

12 Ibidem, xlvii, p. 170: «Unde fidei accedit certitudo quædam, ut sic dicam, experimentalis: et in eo quoque notare est internum quoddam Spiritus Sancti testimonium insigne valde et illustre, quo Dei verbum in cordibus fidelium obsignatur, ejusque divinitas et veritas sancitur».

13 Cfr. ibidem.

14 Cfr. supra, p. 70-71.

solo in parte sul testo sacro, ma in parte dipendeva dal sentiment con cui il fedele poteva accertarsi di possedere una fede salda e sincera, in virtù della quale era giustificato.

2.2. Certezza ed evidenza: Anauld, Beaulieu e lo “scandaloso” sillogismo di Daillé

Il dibattito sul rapporto tra certezza ed evidenza in riferimento alla fede era già stato aperto in ambito riformato: il pastore Jean Daillé aveva sostenuto, nella sua celebre replica a Cottiby (1662)15, che per il credente la persuasione di avere la vera fede fosse più evidente delle verità delle Scritture. Tale persuasione, infatti, era fondata sul sentiment interiore, che permetteva di percepire le proprie idee: «Ho appreso dal mio proprio sentiment e dalle mie esperienze che ho la fede»16. Daillé distingueva, tuttavia, l’evidenza di una conoscenza dalla sua certezza: le verità di fede, pur essendo per il credente meno evidenti dal punto di vista percettivo, erano comunque più certe a causa dell’autorità da cui esse promanavano.

La tesi di Daillé aveva suscitato lo scandalo di Arnauld, in quanto il pastore di Charenton definiva

«de foy divine» entrambe le certezze, non solo quella attribuita agli oggetti di fede, ma anche quella rivolta alla propria fede, fondata sul sentiment interiore. Jurieu difese tale tesi, sostenendo che si fondava sulla distinzione tra evidenza e certezza che era stata accolta da tutte le scuole riformate17. La certezza della propria giustificazione era considerata da Daillé «de foy divine» come risultato di un sillogismo, costituito da una premessa maggiore «de foy divine», in quanto fondata direttamente sulle Scritture («Chi crede in Gesù Cristo avrà rimessi i suoi peccati e sarà salvato»), e da una minore «de foy humaine», che era però più evidente per il soggetto («Io, Paolo, credo in Gesù Cristo e nelle sue promesse»). La conclusione di un sillogismo, di regola, seguiva la più debole

15 Cfr. [J. Daillé], Réplique de Jean Daillé aux deux livres que Messieurs Adam et Cottiby ont publiez contre luy, Jean Antoine et Samuel De Tournes, Genève 1662, in particolare cap. xxvii, p. 333-347. A proposito, cfr. A. Arnauld, Le renversement de la morale de Jésus-Christ, p. 886-888. Jean Daillé (1594-1670), celebre teologo riformato, fu precettore dei due nipoti di Philippe Duplessis-Mornay e ministro a Saumur, nel 1625, e a Charenton, dal 1626 alla sua morte. Samuel Cottiby (1630-1689) fu un ministro protestante di Poitiers che nel 1660 decise di convertirsi al cattolicesimo dopo aver discusso con il gesuita Jean Adam (1608-1684); egli inviò una lettera al consistoire di Poitiers per spiegare le motivazioni della sua abiura, cui rispose per via epistolare Jean Daillé, dando così il via alla controversia con Cottiby: cfr. E. Haag, La France protestante, v. 4, p. 77-78; 180-186; J. Solé, Le débat entre protestants et chatoliques français de 1598 à 1685, Lille 1985, p. 80-83, 894-895.

16 Cfr. [J. Daillé], Réplique de Jean Daillé aux deux livres, p. 345 : «[…] encore que les veritez enseignées par l’Ecriture, soyent en elles mesmes dans le plus haut degrè d’évidence et de certitude, néantmoins une veritè, que nous apprenons du sens ou de la raison nous est plus evidente, a nous dis-je en l’état de voyageurs, où nous sommes, que

16 Cfr. [J. Daillé], Réplique de Jean Daillé aux deux livres, p. 345 : «[…] encore que les veritez enseignées par l’Ecriture, soyent en elles mesmes dans le plus haut degrè d’évidence et de certitude, néantmoins une veritè, que nous apprenons du sens ou de la raison nous est plus evidente, a nous dis-je en l’état de voyageurs, où nous sommes, que