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Mentre Jurieu, nella controversia interconfessionale, si sforza di difendere la ragionevolezza della via d’esame, nella disputa sull’operazione della grazia nella confessione egli nega il fondamento razionale della fede, insistendo sulla necessità dell’intervento immediato dello Spirito. Per comprendere quindi l’origine della “teologia di Jurieu” occorre aver presente le questioni al centro della disputa sorta intorno alle dottrine sulla conversione avanzate da Pajon, poiché è appunto per contrastarle che Jurieu formula il suo “sistema” teologico-filosofico a supporto della dottrina ortodossa1.

Come si è detto, le obiezioni a tale dottrina nascevano dalle teorie concernenti i rapporti tra intelletto e volontà, questione che, pur essendo di competenza più propriamente filosofica, aveva tuttavia notevoli conseguenze in campo teologico. I teologi di Saumur assegnavano all’intelletto la capacità di cogliere la verità e il bene, ma anche di trascinare la volontà ad amarli e ad agire con virtù. Su questa base si erano, in parte, allontanati dal dettato di Dordrecht, che postulava la necessità di due interventi dello Spirito nella conversione, uno su ciascuna facoltà. John Cameron, in particolare, aveva contestato il secondo intervento sulla volontà, ritenendolo incompatibile con la necessità che Dio agisca in maniera rispettosa della natura razionale dell’uomo, necessità che era stata riconosciuta dallo stesso Sinodo di Dordrecht. A Sedan, Le Blanc de Beaulieu, invece, aveva cercato di mantenersi aderente al dettato di Dordrecht sulla conversione accogliendo la tesi, avanzata da Descartes, che faceva dell’assenso un atto volontario, stimolato dal giudizio formulato dall’intelletto ma non vincolato ad esso necessariamente. La dottrina cartesiana, pur lasciando ampio spazio alla libertà della volontà così da rischiare di cadere nel pelagianesimo, consentiva tuttavia di attribuire l’errore all’influsso delle passioni e dei pregiudizi sulla facoltà volitiva, fornendo argomenti utili a discolpare Dio dall’imputazione del male.

4.1. L’azione dello Spirito e la volontà di credere in Le Blanc de Beaulieu

L’innovazione nelle dottrine morali introdotta dai teologi di Sedan, prima Beaulieu e poi Jurieu, si fonda sulla ridefinizione delle attività dell’anima ispirata alla dottrina cartesiana che stabiliva la volontarietà dell’assenso. Secondo la dottrina aristotelico-tomistica le verità speculative erano conosciute dal solo intelletto e non chiamavano in causa alcun atto della volontà; Le Blanc de

1 Sui dettagli circa la preparazione e lo svolgimento della seconda controversia pajonista, cfr. O. Douen, La révocation de l’édit de Nantes à Paris, Paris 1894, I, p. 352-54 ; A. Gootjes, Claude Pajon, p. 192-217.

Beaulieu, invece, abbandonando la dottrina scolastica che inizialmente aveva accolto nelle tesi De Fide del 1645, nelle tesi De Authoritate Scripturæ del 1652 aveva attribuito alla volontà l’assenso di fede dato alla verità e autenticità delle Scritture. Questo fatto merita di essere preso in considerazione: la filosofia di Descartes, all’epoca in cui Beaulieu scriveva la sua tesi, era ben lontana dall’essere serenamente accolta in ambito teologico riformato. La grossa difficoltà che la filosofia di Cartesio poneva ai teologi calvinisti, e particolarmente ai seguaci del filosofo che erano numerosi nei Paesi Bassi, era il fatto che la sua antropologia e la sua epistemologia non tenevano conto del peccato originale. Già da metà del secolo, tuttavia, nel tentativo di conciliare il cartesianesimo con l’ortodossia riformata, alcuni teologi interpreti di Descartes avevano cominciato a sostenere che la dottrina sull’uso delle facoltà proposta dal filosofo fosse un modello teorico

“originario”, che non teneva conto dei cambiamenti avvenuti in seguito alla Caduta: dopo il peccato originale, l’uomo si trovava nell’impossibilità di riconoscere e seguire il vero e il bene senza l’aiuto sovrannaturale della grazia2. Tra questi teologi, soprattutto olandesi, desiderosi di conciliare la filosofia cartesiana con l’ortodossia riformata vi erano Clauberg e Wittich, che abbiamo visto citati da Beaulieu, il quale sembra conoscerli bene: all’incirca negli stessi anni in cui essi s’interessavano alla filosofia di Descartes3, pur non nominando Cartesio né accennando esplicitamente ai rapporti tra le facoltà dell’uomo, il teologo di Sedan accoglieva la dottrina che attribuiva l’assenso alla volontà, cercando di accordarla con quella tomista e con il dettato di Dordrecht sulla conversione.

Infatti, nelle sue tesi De authoritate Scripturæ Beaulieu descrive i due interventi necessari perché si generi la fede: l’illuminazione, che deve eliminare la cecità dell’intelletto e sollevarlo affinché colga le verità sublimi contenute nelle Scritture, e il témoignage dello Spirito, cui il teologo attribuisce il compito di “spingere” a dare a tali verità un assenso più certo di quanto potrebbe

2 Dagli anni Cinquanta del XVII secolo, con un crescendo probabilmente verso gli anni Settanta, si può notare un accentuato interesse, in ambito riformato, per la funzione della volontà nella filosofia cartesiana (ma non si dimentichino, nell’altro campo, Arnauld e Nicole, con La logique ou l’art de penser, del 1662, o S. Foucher, Critique de la « Recherche de la vérité » où l’on examine en même-tems une partie des principes de Mr. Descartes, lettre par un académicien, Paris, M. Coustelier, 1675; Idem, Réponse pour la critique à la préface du second volume de la

« Recherche de la vérité », où l’on examine le sentiment de M. Descartes touchant les idées, Paris, C. Angot, 1676): cfr.

ad esempio J. De Raei, Clavis philosophiæ naturalis Aristotelico-cartesiana (1654), editio secunda, Amstelodami, apud Danielem Elsevirium, 1677; S. Desmarets, De abusu philosophiæ cartesianæ…dissertatio theologica, Groningæ, apud Tierk Everts, 1670; Ch. Wittich, Consensus veritatis in Scriptura divina et infallibilis revelatæ cum veritate philosophica a Renato Descartes detecta, Neomagi, A. Wingaerden, 1659; Idem, Theologia Pacifica, in qua…Usus Philosophiæ Cartesianæ in diversis theologiæ partibus demonstratur, et ad Dissertationem Celeberrimi Viri Samuelis Maresii “De abusu philosophiæ Cartesianæ”… modeste respondetur (1671), 3a ed. Lugduni Batavorum, C.

Boutesteyn, 1683; P. van Mastricht, Novitatum cartesianorum Gangræna seu theologia cartesiana detecta, Amstelodami, Janssonio-Waesbergio, 1677; A. Heidanus, De origine erroris libri octo, Amstelodami, J. À Someren, 1678. Sull’argomento cfr. E. Scribano, Da Descartes a Spinoza, p. 122-143.

3 Ad esempio, J. Clauberg, Defensio cartesiana adversus Iacobum Revium theologum leidensem et Cyriacum Lentulum professorem herborensem, L. Elzevier, Amstelodami 1652; Ch. Wittich, Dissertationes duæ, quarum prior de S.

Scriptura in rebus philosophicis abusu… Altera dispositionem et ordinem totius universi et principalium ejus corporum tradit, sententiamque Nobilissimi Cartesii, de vera quiete et vero motu terræ defendit, L. Elzevier, Amsterdam 1653; J.

Clauberg, Paraphrasis in Renati Des Cartes Meditationes de prima philosophia…, A. Wyngaerden, Duisburgi ad Rhenum 1658; Ch. Wittich, Consensus veritatis in Scriptura divina et infallibili revelatæ cum veritate philosophica a Renato Descartes detecta, A. Wingaerden, Neomagi 1659.

essere naturalmente dato solo sulla base di qualsiasi argomento4. Poiché il témoignage dello Spirito, per Calvino e i Canoni di Dordrecht, è l’operazione che agisce sulla volontà, il fatto che per Beaulieu esso contribuisca non solo a determinare l’azione moralmente buona, ma anche alla produzione dell’assenso di fede, permette di affermare che egli accoglie la dottrina di Descartes che attribuisce alla volontà il compito di esprimere l’assenso.

Nella dinamica dell’assenso descritta da Beaulieu, la volontà sembra muoversi naturalmente secondo quanto l’intelletto giudica essere vero, in armonia perciò con la dottrina scolastica, ma non appare vincolata necessariamente all’ultimo giudizio dell’intelletto pratico (come sosteneva, ad esempio, Cameron a Saumur). L’adesione del teologo di Sedan alla dottrina morale cartesiana potrebbe dipendere dal riconoscimento del fatto che l’intelletto, fondandosi sulle marques di verità contenute nelle Scritture, potrebbe riconoscere alle verità di fede una certezza solo morale. Sulla portata di quest’acquisizione da parte di uno dei teologi più illustri dell’Accademia di Sedan si è già parlato nei primi due capitoli di questa tesi. Successivamente, nelle Theses theologicæ de certitudine quæ fidei competit Beaulieu modifica la sua ipotesi sulla conversione senza cambiare, tuttavia, lo schema dinamico delle facoltà ad essa soggiacente: egli decide di abbandonare la tesi che aveva precedentemente formulato, poiché l’azione della grazia sulla volontà, se fosse un instinctus divino che induce a fornire alle Scritture un assenso più certo dei motivi su cui fosse fondato, risulterebbe una forza bruta e irrazionale. Egli ritiene dunque che l’intelletto debba porgere alla volontà altri motivi che, uniti ai caratteri di verità presenti nelle Scritture, giustifichino la sproporzione tra la certezza assoluta dell’assenso espresso e la certezza solo morale delle marques.

Beaulieu individua, perciò, nel sommo interesse che ciascuno nutre per la propria felicità e la propria salvezza il movente interno e soggettivo che spinge a dare alle Scritture un assenso sommamente certo5.

Beaulieu compie dunque un atto per così dire innovatore, attribuendo alla volontà un ruolo nella produzione dell’assenso e non considerandola solamente motore dell’azione morale, tanto più

4 Cfr. Le Blanc de Beaulieu, De authoritate Scripturæ, Pars Tertia, in Theses theologicæ, p. 31-32, ii: «Probavimus, ad hoc ut aliquis Scripturæ sacræ credat, illamque divinitùs inspiratam agnoscat, vera & legitima fide quæ sit alicujus ad salutem momenti, opus esse Spiritu sancto intus monente et illuminante. Illam autem Spiritus sancti operationem necessariam nobis esse, non tantum propter tenebras per peccatum inductas, quæ sunt veluti quoddam velum, mentis nostræ oculis oppansum, quod occultat nobis Scripturæ sacræ lucem, et obstat ne illam possimus aspicere ; sed etiam propter genium et naturam ipsius doctrinæ in Scriptura contentæ : quæ cùm mentem nostram in se, etiam citram peccatum consideratam, omnino superet, necesse est ut intellectus noster supra seipsum extollatur, ut ad illam possit assurgere. Adeoque, ut Scripturam et singulos ejus libris pro veris et divinis agnoscamus et recipiamus firmiter et indubitatè, et certitudine tanta quantum requirit fides, ad cujus objectum pertinent, opus esse non solùm ut Spiritus sanctus, mentis nostræ nativam cæcitatem sanet et dispellat tenebras per peccatum accersitas, quæ obstant ne Scripturæ lucem possimus percipere : sed etiam ut nos ad credendum compellat arcano quodam instinctu et impulsu, sive interna quadam efficacia, quæ sit omni argumento major».

5 Cfr. Le Blanc de Beaulieu, Theses theologicæ de certitudine quæ fidei competit, p. 169, xli (cfr. supra, cap. 1, p. 69, n.157).

applicando tale teoria all’assenso rivolto al contenuto dei testi sacri6. Egli limita, tuttavia, la libertà che Cartesio concedeva alla volontà e ammette, secondo il dettato tomista, che la volontà segua l’ultimo dictamen dell’intelletto pratico7.

Questo mutamento apparentemente minimo nella definizione dei rapporti intelletto-volontà nella formulazione dell’assenso di fede comporta per Beaulieu alcuni vantaggi. Egli distingue il processo ordinario, naturale, con cui l’anima giunge a esprimere un giudizio di verità o falsità, da quello

“soprannaturale” con cui è concepita la fede: quest’ultima è data da un concorso di ragione e volontà umane (su questo punto si gioca la distanza dal modello scolastico, su cui si basavano le dottrine di Dordrecht e quelle di Saumur8) insieme con l’operazione della grazia. Ciò gli consente di riferire i due interventi divini riconosciuti da Calvino e dai Canoni di Dordrecht (illuminazione e témoignage dello Spirito) alla sola formazione dell’assenso con cui il fedele riconosce la verità e autenticità dei testi sacri e ne accoglie i contenuti. Quest’assenso è ciò che Beaulieu ritiene sia propriamente la vera fede, che egli distingue dalla confiance9. In tal modo, come si è visto, egli non identifica la certezza con cui sono credute le verità di fede, con la certezza che ciascun fedele può e deve avere della propria elezione: Beaulieu “declassa” quest’ultima a “verità di sentiment ed esperienza”, negandole lo statuto di “verità di fede”. Ora, nonostante Beaulieu ammetta un duplice intervento dello Spirito nella formazione della fede e sottragga l’assenso all’intelletto per attribuirlo alla volontà, la fede così concepita non perde comunque il suo fondamento razionale: essa, infatti, si basa in parte sull’evidenza delle marques presenti nei testi sacri, le quali consentono all’intelletto umano, se illuminato, di riconoscere con certezza la divinità delle Scritture - una certezza indubitabile, però solo morale10. Per il teologo di Sedan l’evidenza (morale) resta così una proprietà dell’oggetto di fede, come per altri saperi certi, come la storia. Nel caso specifico della materia

6 Ad esempio, un altro celebre teologo di Sedan, Pierre du Moulin, si dimostra più aderente al dettato aristotelico-tomista sostenendo che la conoscenza della verità appartiene all’intelletto, mentre il desiderio del bene e il comportamento morale dipendono dalla volontà: «L’ame raisonnable a deux facultés, à sçavoir l’entendement, et la Volonté. L’entendement qu’on appelle aussi intellect est celuy qui connoist et entend : La volonté est celle qui appete et se meut vers les choses connuës : Car la volonté est l’appetit raisonnable : La perfection de l’entendement est la connoissance de la verité. La perfection de la volonté gist en la jouïssance du vray bien , par lequel l’homme devient meilleur. Par l’entendement nous sommes sçavans ou ignorans : Mais par la volonté nous sommes bons ou mauvais, Ce qu’est en l’entendement l’affirmation et negation en la volonté est le desir et la fuite ou aversion » (P. du Moulin, La philosophie divisée en trois parties, I. et D. Berthelin, Rouen 1655, La physique ou science Naturelle, p. 238).

7 Accogliere la dottrina cartesiana che attribuiva l’assenso alla volontà non implicava per forza cadere nel pelagianesimo, né tale dottrina era incompatibile con la necessità dell’efficacia dell’operazione divina: M. E. Scribano, in Da Descartes a Spinoza, p. 58, n. 3, osserva infatti che nei Principia (I, 40) Cartesio «faceva proprio il classico invito a non tentare di comprendere come potenza divina e libertà umana, entrambe indubitabili, potessero conciliarsi tra loro».

8 Beaulieu sembra cercare una conciliazione con il modello scolastico attraverso il concetto di certitudo adhesionis formulato da Bonaventura, sostenendo che, diversamente dall’assenso dalle verità puramente teoretiche che era espresso dal solo intelletto (certitudo speculationis), le verità morali richiedevano l’intervento della volontà: cfr. Le Blanc de Beaulieu, Theses theologicæ de certitudine quæ fidei competit, in Theses Theologicæ, xiii, p. 165; xxxii, p.

168 (cfr. supra, cap. 1, p. 67).

9 Cfr. supra, cap. 2, p. 99-101.

10 Le Blanc de Beaulieu, Theses theologicæ de certitudine quæ fidei competit, in Theses Theologicæ, p. 169, xxxvii (cfr.

supra, cap. 1, p. 68, n. 153).

religiosa, tuttavia, la natura stessa dell’oggetto supera le capacità di comprensione del soggetto e vi è, dunque, un limite intrinseco invalicabile per la ragione umana. Inoltre l’uomo, nonostante l’evidenza delle marques presenti nelle Scritture, non sarebbe capace di riconoscerle e di giudicarle correttamente a causa delle conseguenze del peccato originale: i pregiudizi e gli affectus pravi oscurano la mente di ciascun individuo. Pertanto occorre che, preliminarmente, la grazia elimini questi “veli” per consentire all’intelletto la visione dei segni di verità chiaramente impressi nei testi sacri e delle verità sublimi che superano le capacità della ragione. Quando la mente può chiaramente distinguere la divinità della Bibbia e le sue verità, la volontà formula un assenso sulla base dell’ultimo giudizio che l’intelletto le porge, assenso la cui certezza tuttavia non è proporzionata all’evidenza con cui gli oggetti di fede appaiono all’intelletto, bensì è superiore.

Beaulieu attribuisce questa sproporzione tra il grado di evidenza delle marques contenute nella Bibbia e la certezza che è attribuita dal credente alle verità divine, da una parte, all’operazione interiore dello Spirito (il témoignage) che porta ad accoglierle con gioia e obbedienza come verità assolute e, dall’altra, all’interesse che l’uomo ha ad aderire fortemente e senza incertezze a delle verità capaci di donargli la salvezza11.

Anche in questo caso, attribuire non all’intelletto ma alla volontà il compito di dare l’assenso alle verità di fede comporta per Beaulieu dei vantaggi: da un lato, fare del credere una scelta gli consente di imputare esclusivamente all’uomo la responsabilità nel caso di errore o di fede imperfetta (storica o temporanea). Allo stesso tempo, tuttavia, l’adesione salvifica alle verità di fede non è un merito dell’uomo, poiché non potrebbe prodursi senza l’ausilio della grazia.

Beaulieu, a mio parere, sembra concepire le due azioni dello Spirito come una persuasione che quest’ultimo opera attraverso la Parola, per mezzo delle ragioni che essa stessa fornisce per essere creduta e accolta. Lo Spirito non obbliga l’uomo ad assentire alle verità di fede, ma agisce internamente facendo sì che l’uomo voglia credere ciò che Dio vuole che egli creda. La spiegazione che Beaulieu dà del processo psicologico con cui si concepisce la fede fa leva sulle ragioni che portano l’uomo a credere: le marques che testimoniano della verità della Bibbia sono definite evidenti; l’importanza di onorare e rispettare la volontà di quell’Essere da cui dipende la sua felicità eterna si fa chiara alla mente del fedele quanto più egli riflette e tale considerazione lo induce a dare un assenso dotato della massima certezza12. L’assenso di fede non appare dunque irragionevole e determinato da un impulso affine a un entusiasmo: al contrario, affinché l’assenso possa essere dato, occorre che la grazia rimuova gli ostacoli costituiti dai pravi affectus che oscurano e pervertono la mente “impedendole di ragionare correttamente”13.

11 Cfr. ibidem, xxxviii e xli (cfr. supra, cap. 1, p. 68, n. 154 e p. 69, n. 157).

12 Cfr. ivi, xxxviii-xliii, p. 169-170 (cfr. supra, cap. 1, p. 68-69 e 77).

13 Cfr. ivi, xliii, p. 170 (cfr. supra, cap. 1, p. 78, n. 184).

Il teologo non spiega se l’operazione interna della grazia sia di natura fisica o morale. Tuttavia, egli nega che lo Spirito possa agire «per modum raptus sive enthusiasmi»: il modo in cui esso muove e spinge gli uomini è «il più conforme alla loro natura, e quale si addice a una creatura razionale e libera» 14. Ciò lascia ipotizzare che egli la ritenga di tipo morale: la percezione dell’importanza delle verità divine e la visione dei motivi di credere sarebbero non tanto preceduti, quanto accompagnati da un mutamento delle inclinazioni che la lettura stessa della Parola provoca nell’anima del fedele. Sarebbe la Parola stessa, insomma, vivificata dallo Spirito che agisce internamente, a trasformare la prospettiva dell’uomo, facendogli scorgere un orizzonte spirituale che prima gli era celato: l’anima allora, cambiando progressivamente le sue idee, cambia anche l’oggetto del suo amore. In questo, l’eletto si distinguerebbe dal temporaire 15: nonostante quest’ultimo capisca e creda le verità della Bibbia, l’oggetto del suo amore resta invariato, il suo principio di fede è egoistico, poiché anche nell’adorare Dio egli non ha in vista che se stesso, il proprio utile e il proprio vantaggio.

4.2. Pajon e Amyraut: le obiezioni all’ “azione iperfisica”

Amyraut, come si è detto, non aveva contribuito a dissipare il mistero intorno alla natura dell’operazione della grazia nella conversione: il teologo di Saumur parlava di un’azione

«iperfisica» dello Spirito che induce l’uomo a credere, senza però spiegare cosa intendesse con tale termine. È Claude Pajon a rimarcare l’ambiguità e le incoerenze di Amyraut su questo argomento durante il terzo dei colloqui che ebbe con Jean Claude a Parigi nell’estate del 1676. Pajon e Lenfant, infatti, avendo appreso che alcuni proposants che si recavano a Charenton avevano denigrato le loro dottrine e avevano affermato che sarebbero stati trascinati ben presto davanti alle autorità sinodali, il 16 luglio si erano recati da Claude per protestare e chiedere che fossero presi dei provvedimenti.

Claude, insieme a Marc-Antoine de La Bastide16 che gli aveva reso visita ed era in buoni rapporti anche con Pajon e Lenfant, aveva ricevuto benevolmente i due colleghi. Egli ne aveva approfittato per chiedere a Pajon dei chiarimenti sulle sue opinioni, poiché aveva ricevuto da Étienne de Brais, teologo di Saumur, una lettera in cui chiedeva di agire per fermare la diffusione di dottrine pelagiane e sociniane da parte di Lenfant e Pajon. Nel primo incontro, Pajon aveva cominciato a spiegare a Claude il nodo della questione, cioè la natura della corruzione umana e quella

14 Cfr. ibidem, xliv (cfr. supra, cap. 1, p. 78, n. 185).

15 Cfr. supra, cap. 1, p. 42-44.

16 A. Gootjes, nel suo libro Claude Pajon, cita l’altro interlocutore di Pajon come Antoine Crosaz de La Bastide.

Ritengo probabile che possa trattarsi di Marc-Antoine de La Bastide (1624-1704), ancien di Charenton, che aveva pubblicato una refutazione del libro di d’Huisseau, Remarques sur le livre de la Reünion du Christianisme, s.n. s.l. [R.

Ritengo probabile che possa trattarsi di Marc-Antoine de La Bastide (1624-1704), ancien di Charenton, che aveva pubblicato una refutazione del libro di d’Huisseau, Remarques sur le livre de la Reünion du Christianisme, s.n. s.l. [R.