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Ricordati che a questo mondo c’è sempre uno pronto a pugnalarti alla schiena” 31

Dans le document DELLA COMICITÀ DI (Page 66-74)

Bisogna star bene attenti... perché governare un successo è difficilissimo. Purtroppo l’Italia non è una famiglia, non c’è coesione, non è unita. In Francia ho visto un cantante di centotrent’anni che quasi non respirava più, portato a braccia sul palcoscenico e messo lì a cantare, e il pubblico a applaudirlo... Qui no, qui non ti sostiene nessuno. Qui, non

30 Livi Grazia, op. cit., pag. 16.

31 Lezione di vita data al figlio nel monicellano Un borghese piccolo, piccolo del 1977 (N. del A.).

appena hai raggiunto il successo, devi difenderti su tutti i fronti, perché ci sono i mediocri che ti spiano, che hanno inventato il declino. Oppure ci sono i consiglieri che spuntano fuori da tutte le parti e che ti vogliono indirizzare per forza, ti dicono: “Perché non fai una parte seria?” “Ah, per te è arrivato proprio il momento del ruolo drammatico!” “Insomma fanno di tutto per farti intraprendere una strada sbagliata e poi, quando l’hai intrapresa, non li vedi mica più, anzi son là che ti deridono e che sghignazzano come diavoli. No, governarsi è terribile, non si può mai distendersi un momentino e tantomeno fidarsi32.

Alberto Sordi, infatti, non si fidava, non si distraeva mai, e, raggiunta la celebrità, non ha mai smesso di rinunziare a tutti gli allettamenti che potevano distrarlo dal governo di sé. Non s’è mai innamorato sul serio, non ha avuto la passione per le automobili, per il gioco, per i viaggi. Come avviene con la maggior parte dei grandi attori, era naturalmente affetto da una certa dose d’egocentrismo che s’è venuta ad accentuare con il trascorrere del tempo, con le umiliazioni e le fatiche, con la tenace volontà di riuscire, con la consapevolezza di valere più degli altri. L’elevata autostima ha calpestato tutte le altre cose vitali come amore, abbandono, tenerezza e compassione:

a poco a poco s’è chiuso. Si è isolato in se stesso in perfetta accondiscendenza con la propria vocazione. Lavorava assiduamente con passione e cautela. Amministrava la mens sana in corpore sano concentrandosi nel rispetto duro e morboso delle proprie consuetudini, sopra indicate, perché aveva lucida coscienza del fatto che il mondo del cinema è feroce ed esige un impegno esclusivo. Era contento di non subire i richiami inquieti, dolorosi o gioiosi della mondanità, di potersi consegnare al cinema tutto intero, perché la sua grande carica d’estroversione, di vitalità e di naturale trasporto all’imitazione burlesca, trovava nella chiusa ritualità quotidiana, linfa vitale, nutrimento avvincente da invertire esclusivamente nei suoi personaggi, nella sua delega pubblica.

Chiuso nel fortino della sua villa, senza voci che possano interrompere il filo dei suoi monologhi o allentare la stretta dolorosa della solitudine (accettata ed esaltata come condizione di sublime egoismo) Sordi ha accumulato, in una filosofia quasi guicciardiniana, tutte le possibili varietà di un’autodifesa a oltranza dell’individuo:

32 Dichiarazione di Sordi in Livi Grazia, op. cit., pag. 16.

perfetta sineddoche del carattere dell’italiano che s’è indurito nell’egoismo, nel tradimento, nella viltà considerata la qualità del furbo più degli altri. Nel lungo, tenace e coerente isolamento artistico ha potuto esercitare con pienezza il lavoro stanisvlaskijano su se stesso, decifrando le enigmatiche caratteristiche di un popolo che non può ricordare la grandezza dell’impero romano se non nelle spettacolari ricostruzioni prima fasciste poi hollywoodiane.

In quasi sessant’anni di attività, infatti, il Nostro non ha fatto altro che interpretare se stesso, non si è mai truccato da qualcuno che non gli assomigliasse profondamente. Sempre autopsicografico, nei suoi personaggi egli riproduce la mentalità, le ideologie, gli impulsi privati, il carattere di chi prima, con sottobraccio codici della lex romana e la pretesa universalità del latino, ha ingenuamente creduto nella chimera della pomposa costruzione civica della Terza Roma, poi offeso e sconfitto, ha imparato a guardare vicende alterne della storia come uno spettacolo che si accetta con un senso di fatalità. Intuitivamente, proprio in questo chiamarsi fuori, nell’osservare le catastrofi come meri spettacoli, sospendendo qualunque sentimento di responsabilità, Sordi individua la peculiarità del carattere italiano. Distruggendo tutti quei luoghi comuni sulla figura dell’attore e sulla scissione attore e uomo (il comico che è di natura triste; il pagliaccio che ride con la morte nel cuore; il cattivo sulla scena che possiede un animo delicato; il genio e sregolatezza dell’attore istrionico alla Kean, dedito agli eccessi droga alcool donne). Ma, con un’interpretazione personalissima dell’ammirato distacco aristocratico, Sordi inventa un meccanismo di narcisismo rovesciato: crudele con sé come nell’osservazione degli altri, si ingoffisce si avvilisce si deturpa fino a ottenere un autoritratto estremo, al limite del sostenibile, in una combinazione apparentemente antinomica di grottesco e di realistico.

Bevo un goccettino di vino e poi arranco pian pianino verso la solitudine della camera da letto. Mi spoglio, mi lavo un po’, mi prendo la mia mezza pilloletta d’aspirina, poi aggredisco il letto ed è la gioia d’una giornata finita. Sto un po’ sdraiato, con gli occhi mezzi chiusi, e intanto faccio il mio riepilogo, una specie di esamino di coscienza. Penso alla giornata che avrò domani, i contatti, i rapporti con gli sceneggiatori, le correzioni che dovrò fare al personaggio, gli appuntamenti. Già sono tutto

pieno di torpore, ma seguito a pensare un momentino alle cose mie, questo mi serve molto. Perché se anche gli altri ti aiutano e collaborano, sei sempre tu che devi eseguire, e se non t’applichi, se sei indolente, puoi anche portarti dietro un insuccesso che dura tutta la vita33.

Nella tranquilla quiete del privato ha perfezionato un gratificante meccanismo d’osservazione del pubblico compiuta attraverso una lente deformata dalla cattiveria, in modo che ne riflettesse solo le qualità negative. Ha potuto così isolare le inconfessabili aspirazioni dei suoi concittadini, che con intensissima complicità hanno proiettato in lui il desiderio di identificazione con l’unico protagonista possibile della cronaca italiana del novecento. Vale a dire l’italiano medio, cioè uno sgorbio psicologico (per dirla con le parole di Ettore Scola34) un compagnuccio della parrocchietta, un americano a Roma, un manipolatore che si arrangia, detentore del benessere, un cinquantenne in crisi o padre giustiziere, che, tra farsa, commedia e tragedia, ha percorso la guerra, il dopoguerra, l’era della plastica e dell’automobile, il modello americano, il boom e il crac.

2.6. “Sono libero docente e doceo quando mi pare!” 35

La produttiva sintonia tra otium e nec-otium affonda le proprie radici nella perfetta assunzione dell’altro da sé compiuta già nell’infanzia:

Rassicurato nei bisogni e nei sentimenti primari, rotellina d’un orologio che sembrava perfetto nelle opere e i giorni del mito borghese che l’aveva cosi calorosamente accolto nel suo seno, il piccolo Sordi poteva tranquillamente diventare un “commediante”, imitando e ripetendo

33 Ibidem, pag. 17.

34 Cfr. Borelli Sauro, “Sordi secondo Scola: un narciso alla rovescia”, in Bruzzichelli Pia (curatrice), Alberto Sordi: un italiano allo specchio, Assisi, Associazione Nazionale Circoli Cinematografici Italiani, 1995, pagg. 23-25.

35 Secca risposta del maestro Ubaldo Impallato (interpretato da Sordi) alle madri dei suoi alunni, nel film del 1955 di Luigi Filippo D’Amico, Bravissimo (N. del A.).

all’infinito quel sistema di persone e di valori che introiettava cosi bene anche dal suo inconscio in fieri di bambino. Il piccolo Sordi faceva il buffone, amava essere al centro dell’attenzione degli adulti, tesseva la trama del suo grande gioco usufruendo di ogni occasione possibile36.

Se la santificazione religiosa dopo il mancato investimento stradale e quella laica del concorso fotografico erano stati sintomi occasionali della sua potenza esibitoria, la scuola, la parrocchia e lo stesso quartiere di Trastevere ne rappresentavano i primi ambiti esterni di sperimentazione. Quando viene iscritto alle scuole elementari (prima alla Niccolò Tommaseo, in via della Cisterna, poi alla Lamarmora), dal punto di vista del profitto, Alberto Sordi si inserisce nella classe con maggiori competenze rispetto ai suoi coetanei, poiché la madre gli aveva già insegnato a leggere e a scrivere. Da buona maestra la signora Righetti aveva voluto rendere meno traumatico l’inserimento nella vita pubblica del figlio che, da parte sua, già la sapeva molto lunga:

Ero un bimbo sveglio, capivo in pochissimo tempo ciò che mi spiegavano, ma nei banchi di scuola ci stavo stretto e preferivo far volare la mia fantasia altrove. Gli insegnanti di allora erano severissimi e se non rigavi dritto ti pigliavano a calci in culo, senza problemi. Ma le botte erano meno dolorose dello studio che ritenevo inutile per i miei progetti.

Ogni tanto mi impegnavo e in quei casi riuscivo perfino a eccellere37.

Insomma per lui che in casa era sempre e comunque un autentico protagonista, il fatto di dover adattare il proprio ego a schemi regolari, ripetitivi e prestabiliti rappresentava una vera tortura. Inoltre le forse eccessive attenzioni domestiche non facilitano nemmeno la relazione con i suoi compagni di classe. Essi, infatti, all’inizio mal sopportavano la vena bellicosa e perfino un po’ atroce del giovane Sordi che accompagnava quella predisposizione alla beffa ed allo scherno di chi si sente protetto come in una botte di ferro. Quasi in un prolegomeno delle vicende alterne della sua

36 Porro Maurizio, Alberto Sordi, Milano, Il Formichiere, 1971, pag. 9.

37 Schiavina Maria Antonietta, op. cit., pag. 15.

futura carriera Augusto Borselli, in una delle prime biografie sordiane pubblicate racconta:

... gli atroci scherzi del più giovane dei Sordi ai danni dei suoi coetanei sortirono l’effetto di far coalizzare la scolaresca contro di lui. Fu così che egli divenne “er ciccione” della Tommaseo, in quanto i compagni furono certi di colpirlo nel vivo, mettendo in berlina il suo volto paffuto, il suo colorito roseo e la sua consistenza fisica. Costretto alla controffensiva l’alunno Alberto Sordi cominciò a coltivare i1 suo acuto spirito di osservazione: studiò i compagni, i contegni, i gesti, le piccole manie di ognuno di essi esibendosi quindi, fuori della classe e nelle ore di lezione, nelle primissime parodie ed imitazioni della sua carriera38.

Quindi il precoce perfezionamento d’una tecnica d’imitazione caricaturesca avviene come meccanismo di difesa dal trauma dell’entrata nel gruppo, dalla percezione della prima incrinatura della sua onnipotenza infantile. Malauguratamente le iperboliche smorfie spesso erano anche indirizzate ai maestri, i quali, d’altro canto, si mostravano già insofferenti alla vivacità e alla improntitudine del loro discepolo irrequieto, tanto che veniva frequentemente penalizzato nella nota di condotta e costretto ad affrontare esami di riparazione o nel peggiore dei casi a ripetere l’anno. Nel tentativo di circoscrivere e ricondurre in termini decorosamente accettabili la straripante vitalità del giovanissimo Sordi, in genitori pensano in un primo momento di rinchiuderlo in collegio. La decisione viene, successivamente, modificata in seguito alla promessa d’Albertone, di occupare il doposcuola con lezioni di canto per diventare un basso: un proposito che aveva profondamente intenerito il professor Sordi, l’allora titolare bassotuba dell’Accademia di Santa Cecilia. Così parallelamente agli impegnativi esercizi canori, senza infamie, né lodi frequenta successivamente le scuole medie all’Armando Diaz e l’Istituto d’Avviamento Commerciale Giulio Romano, a Porta Portese. La sua insegnante di italiano Maria Amendola se lo ricordava come un allievo poco volenteroso, irrequieto, indisciplinato:

38 Borselli Augusto, “I compagni di scuola lo chiamavano er ciccione”, in La Settimana Incom Illustrata, anno VII, Numero 31, 31 luglio 1954, pag. 24.

Concludeva pochino, anzi pochissimo. Era la negligenza in persona, per di più vivacissimo. Ma era buono, corretto, non ebbi mai motivo di farlo punire... Era simpaticissimo anche allora e mi ricordo che quando entrava in classe tutti ridevano al solo vederlo. Forse perché portava sempre pochissimi libri, magari uno solo, e sopra c’era scritto a grandi caratteri GEOGRAFIA. I compitini d’italiano, però, me li faceva benino, garbati. Ogni tanto veniva la madre a chieder notizie, tanto una brava signora, di quelle religiose e preoccupate per i figli. Era un bel ragazzo, Sordi, aveva un bel faccione e lo mandavano a scuola sempre molto in ordine. Me lo ricordo ancora con un bel vestito marrone...39.

Poco impegnato, quasi allergico allo studio, ma pronto a trasformare le noiose ore di lezione in un personale palcoscenico, dopo la prima impasse delle scuole elementari, era riuscito a riscuotere grande popolarità tra i suoi compagni di classe.

Giacché, ormai, tutti conoscevano la sua acuta allergia allo studio, ogni volta che esibiva un’iperbolica deferenza verso gli insegnanti riusciva a costruire delle esilaranti performance per contrasto e spiazzamento. Aveva fatto tesoro degli spiacevoli imprevisti capitatigli alla scuola Tommaseo di modo che sapeva mostrarsi ossequioso e zelante con quegli stessi insegnanti che aveva appena finito di sbeffeggiare. Dotato naturalmente d’acuto spirito d’osservazione, viveva l’esperienza scolastica come una passeggiata in un microcosmo, dove poteva sortire stimolante nutrimento all’irrefrenabile desiderio d’esibirsi. Lo spirito d’osservazione poggiava su un memoria ferrea che gli conferiva un senso di sicurezza e di superiorità nei confronti dei programmi scolastici che pensava di poter imparare nel tempo massimo d’una settimana...

... il fatto di studiare, l’ho sempre rifiutato per un mio innato senso di indolenza. Non mi sono mai impegnato a perfezionarmi: ho sempre rappresentato tutto in modo istintivo... Mi mancava la volontà di studiare;

la scuola era un sacrificio immenso, tutto quello che insegnavano per me

39 Livi Grazia, op. cit., pagg. 26-27.

era inutile e l’ho sempre saputo. Andavo a scuola per forza di inerzia, perché era obbligatorio, per non dispiacere ai genitori40.

Secondo i canoni di quel modello piccolo borghese che in quegli anni si veniva consolidando (rispettato sopra ogni altra cosa all’interno della famiglia Sordi dove solo lo studio e la cultura avevano fornito i mezzi di sostentamento) tutti i figli, sia maschi che femmine, avrebbero dovuto raggiungere il diploma. La signora Maria in equilibrio tra la pazienza e l’inflessibilità proprie d’una madre-maestra, faticava più del solito per far studiare l’ultimogenito. Cercava di convincerlo senza insistere né polemizzare. Lo strumento di persuasione che riteneva più efficace era la lettura di Le avventure di Pinocchio:

Spesso, la sera, ci leggeva delle fiabe, specialmente Pinocchio, si soffermava appositamente su di alcuni passi che riteneva utili dal punto di vista didattico. Li leggeva perfettamente, con calma, puntando sulla descrizione dell’ambiente e dei personaggi, dal colore degli occhi a quello degli abiti. Particolari che Collodi aveva inserito nel suo libro precorrendo i tempi e scrivendo, più che una favola, la prima vera sceneggiatura della storia41.

Se gli amanti danteschi Paolo e Francesca incontrano il loro destino nel libro “galeotto” degli amori di Lancillotto e Ginevra, Albertone lo vede nel capolavoro di Collodi: un racconto tristemente ironico, a volte addirittura satirico, che punzecchiava la pedagogia formale e, più in generale, le contraddizioni delle maniere e le inadeguatezze dell’educazione e dell’istruzione Ottocentesche. Molti commentatori effettivamente convengono che Pinocchio, piuttosto che una favola per ragazzi, sia in effetti un’allegoria della società moderna, uno sguardo impietoso sui contrasti tra rispettabilità e libero istinto, in un periodo (fine Ottocento) di grande severità nell’attenzione alle vuote formalità. Del resto

40 Dichiarazione di Alberto Sordi in Porro Maurizio, op. cit., pagg. 90-91.

41 Schiavina Maria Antonietta, op. cit., pag. 14aA.

Albertone come Pinocchio mal soffriva la dura disciplina scolastica avvezza per norma all’uso delle maniere forti e sbrigative:

Gli insegnanti di allora erano severissimi e se non rigavi dritto ti pigliavano a calci in culo... Un certo Mango siciliano dava calci con le scarpettine a punta e le bacchettate a scuola rappresentavano quasi una regola... Ero un bimbo sveglio, capivo in pochissimo tempo ciò che mi spiegavano, ma nei banchi di scuola ci stavo stretto e preferivo far volare la mia fantasia altrove42.

In effetti quando il personaggio di Pinocchio mette la testa a posto e si adegua alle convenzioni, perde d’interesse tanto che all’autore Lorenzini non resta che glissare sul suo futuro da omologato: al contrario la smodata irrequietezza, l’anarchica fisicità, ma soprattutto la naturale ed irrefrenabile necessità di esibirsi rinverdiscono continuamente il fascino del famoso burattino. Forse per l’eccessiva severità, forse per l’inadeguatezza dei programmi scolastici (diretti più ad uniformare ed a creare tanti piccoli balilla, piuttosto che a valorizzare le doti individuali), Albertone è uno studente svogliato ed incostante, che otterrà il diploma di ragioniere studiando da privatista solo per far felice sua madre.

2.7. “Cosa credi, che mi stia divertendo?

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