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“Purtroppo vivo Milano per ragioni di lavoro” 97

Dans le document DELLA COMICITÀ DI (Page 112-127)

Milano era già più disinibita [...] perfino l’odore della città era diverso per un giovane era senza dubbio più inebriante. Così come lo erano le luci, tante e forti ... Tutto il contrario di Roma, da città residenziale ed austera qual era, appariva bella, ma anche cupa, priva di luce, triste. E quando si è giovani, si sa, più che di bellezze si ha bisogno di allegria98.

Il maestro Semprini che, come s’è detto, secondo l’organizzazione scolastica fascista doveva occuparsi di tutte le attività ricreative, quindi anche improvvisarsi insegnante di ginnastica, aveva incoraggiato il Nostro a scrivere quelle pièce che lui stesso avrebbe dovuto interpretare, divenendo così autore esplicito dei propri personaggi:

Mi impegnavo solo nelle attività didattiche creative componendo canzoncine e collaborando agli spettacoli... Scrivevo i dialoghi ed il maestro Semprini (il mio insegnante di educazione fisica) preparava il commento musicale... Inventare favole mi divertiva molto e soprattutto mi divertiva adattarle alla recitazione... Scrissi anche delle fiabe per bambini e le mandai ad un settimanale che me le pubblicò. In una di esse c’era una specie di maggiordomo che portava i bambini a fare un pic-nic, preparava loro la colazione e li accompagnava nel bosco, dove poi venivano assaliti prima da un orso poi da un bandito... questo personaggio parlava come Ollio...99.

... e cioè parlava con la stessa tonalità e cadenza della voce che Alberto avrebbe più tardi prestato ad Oliver Hardy. Oltre alla parlata, probabilmente anche le movenze del suo personaggio erano ispirate alla placida ed elegante corpulenza del comico

97 Dialogo tra il personaggio di Attorney Zorn (Michel Simon) ed il sordiano Alfredo Rossi nel film di Ettore Scola del 1972, La più bella serata della mia vita (N. del A.).

98 Schiavina Maria Antonietta, op. cit., pag. 33.

99 Ibidem, pag. 31.

nordamericano: il primo e più importante referente cinematografico nella costruzione del proprio stile recitativo. Sebbene, infatti, quella traballante parlata italiana tanto di Ollio come del suo compagno di sventure Stanlio (Stan Laurel) non fosse un’invenzione originale del Nostro, questi se n’era impossessato e ne aveva proposto la più famosa e riuscita interpretazione, aveva fatto propria una delle principali destrezze di un comico in modo quasi naturale ed istintivo perché respirata già nell’ambiente domestico:

“Anche mia madre imitava la voce delle signore che venivano a trovarla”100.

L’entusiasmo, la perizia la vivacità, una certa dose di abnegazione, del maestro Semprini (unita al fatto che gli spettacoli erano già inseriti nel circuito nazionale dell’Opera Nazionale Balilla), permettono alle sue storielle di ottenere un piccolo ma rilevante successo tanto che la casa discografica milanese Fonit-Decca gli propone di pubblicarne un’incisione.

La Fonit (che divenne poi Cetra) mi chiamò per incidere fiabe musicali con la voce di Ollio. Mi chiese se avevo già delle idee ed io risposi di si, perché nel mio complesso di debuttanti (a scuola) scrivevo fiabe per bambini. Allora con l’Opera Balilla si faceva propaganda ed il balillino vinceva sempre. Io impersonavo i tipi violenti come l’orco ed il bandito, perché avevo già questo vocione da basso. Sulla falsariga di questi racconti mandai i testi alla Fonit che mi chiese chi avrebbe interpretato le varie parti. Faccio tutto io, risposi [...] anche tutti i rumori, le frasche del bosco...Semprini, il direttore d’orchestra, moriva dal ridere vedere quel ragazzetto che si dava così da fare 101.

In un primo momento i dirigenti della Fonit lo convocano unicamente per firmare il contratto, ma una volta ascoltato il suo timbro vocale ne rimangono affascinati e propongono che sia lui stesso ad interpretarle. Quindi Albertone avrebbe dovuto soggiornare a Milano per un periodo più lungo del previsto, anche per i numerosi impegni del maestro Semprini. La proposta lusinga intensamente le aspirazione del Nostro che, ancora sedicenne, deve chiedere il permesso ai suoi genitori.

100 Porro Maurizio, op. cit., pag.16.

101 Ibidem, pagg. 91-92.

Questi glielo concedono senza battere ciglio, considerando che un certo periodo fuori casa, anche solo per calmierare l’irrefrenabile velleità artistiche, giovasse alla educazione del loro ultimogenito, che fino a quel momento s’era dimostrato molto più brillante in simili attività extrascolastiche piuttosto che tra i banchi di classe. Più precisamente la madre che aveva ormai abbandonato le speranze di vederlo sistemato in un impiego statale, decide di non opporsi alle urgenti aspirazioni d’indipendenza del figlio dimostrando un elevato buon senso ed una profonda sensibilità pedagogica.

Albertone, dal canto suo, aveva strategicamente smesso di ossessionare tutti con le sue aspirazioni attoriali. Si presentava quindi la necessità di trovare un’alloggio ed un’occupazione che gli consentisse la sopravvivenza nelle pause della registrazione.

Grazie all’aiuto di un amico, gli si presenta un’offerta della Alleanza Assicurazioni per diventare venditore di polizze porta a porta. La prospettiva di un buona sistemazione all’interno della sfera commerciale della capitale finanziaria italiana aveva convinto tutti la famiglia...

... l’esperienza di Milano è una di quelle che ricordo con più piacere: i giovani avevano tutti il “Corriere della Sera” sotto il braccio, rispondevano agli annunci che offrivano impiego e camminavano sempre in fretta. Le signorine, poi, erano facilmente abbordabili e chi ne vedeva passare una carina e voleva fare conoscenza bastava che dicesse: “Signorina, mi scusi, vedo che sta cercando qualcosa: posso aiutarla? [...] A quei tempi da noi, nella capitale, se uno avvicinava per strada una ragazza, questa chiamava le guardie e lo faceva arrestare. Mentre Milano era già molto più disinibita, c’erano le scuole miste e fra i coetanei di sesso diverso esisteva già una piacevole confidenza. Insomma le donne milanesi di quei tempi erano per noi romani, come le svedesi oggi per gli italiani: ragazze libere, che potevano disporre del proprio tempo ed accompagnarsi tranquillamente ad un uomo, senza per questo suscitare scandalo102.

102 Schiavina Maria Antonietta, op. cit., pagg. 32-33.

Oltre ad essere il centro dell’alta finanza, il capoluogo lombardo in quegli anni rappresentava anche il regno dello spettacolo e come ricorda Maurizio Porro questo viaggio risponde perfettamente al modello del self-made men:

Con dentro l’imperioso credo di sfondare nel cinema, Alberto parte dapprima alla conquista del teatro, e nel ’36, col pretesto di lavorare presso un’agenzia di assicurazioni in veste di produttore, se ne va a Milano. Qui la tradizione dell’uomo che prima di arrivare al successo, ha fatto cento mestieri subendo anche le più atroci umiliazioni, raggiunge vette diaboliche nei racconti che si tramandano da macchina da scrivere a macchina da scrivere e che lo stesso Sordi autorizza103.

La scelta di Albertone era quindi dettata dal suo ancor ingenuo desiderio di farsi strada nel teatro brillante, che considerava un efficace passe-partout per sfondare nel cinema. Ma non conosceva nessuno, non aveva nessuna esperienza e, come ricorda Grazia Livi104, poteva contare solo sul proprio ottimismo e l’enorme vitalità.

Prende alloggio in una modesta pensione e si dedica con entusiasmo alla vendita d’assicurazioni dirigendosi, in un primo momento, ad un pubblico alto borghese, quello che secondo lui, avrebbe potuto permettersi senza nessuna difficoltà il lusso di un’assicurazione.

Come ci racconta il Virgil Starkwell di Woody Allen in Prendi i soldi e scappa [(Take the Money and Run, 1969) quando viene rinchiuso in una cella d’isolamento con un procacciatore assicurativo in qualità d’iperbolico torturatore], quest’attività con tutto quel bagaglio di competenze seduttrici, affabulatrici e d’ingannevole seduzione che comporta, getta le basi per la costruzione della maschera d’impudente villain.

Efficacissima nella quotidianità, utilissima al proprio tornaconto, decisa rafforzatrice della propria autostima. Ma i ricchi industriali si rivelano subito clienti inavvicinabili, con domestici molto abili nel congedare i visitatori inopportuni, cosi il Nostro ripiega sulla clientela di censo più modesto dei quartieri popolari della Bovisa, porta Ticinese e Lambrate. Si presentava gioviale e simpatico, sperimentando ed affinando un ricco

103 Porro Maurizio, op. cit., pagg. 12-13.

104 Livi Grazia, op. cit., pag. 41.

repertorio d’abilità istrioniche persuasive. Entrava nelle case esibendo i luccicanti oggettini (anelli di latta, catenelle, orologi finti) che l’Alleanza offriva come doni pubblicitari...

... invitava la casalinga a sedersi perché voleva che stesse comoda mentre lui le avrebbe spiegato l’affare. Aveva imparato a dire “fioeu”

indicando il bambino che stava lì a bocca aperta ad ascoltare, faceva la voce bassa per sembrare più adulto ed esperto, si faceva venire l’occhio dolce, accorato, illustrando alla madre l’avvenire del disgraziato “fioeu”

se il padre improvvisamente fosse morto senza assicurazione sulla vita, un avvenire tetro, da povero “martinitt”. La madre ascoltava, impaurita, intenerita, vedeva che il bambino fissava, affascinato l’oggetto-premio posato sulla tavola e si lasciava convincere a pagare la prima rata. Dopo, naturalmente, non sarebbe stata in grado di pagare le altre, ma per Alberto questo non aveva importanza: la società versava immediatamente all’assicuratore la provvigione, dopo il pagamento della prima rata...105.

Queste ciniche performances in campo assicurativo, hanno vita breve poiché la compagnia dopo pochi mesi lo licenza con l’accusa di plagio della clientela. Gli imprevisti contrattempi, anziché farlo soffrire sembravano eccitarlo. Senza perdersi d’animo torna alla forsennata ricerca d’altre occupazioni che potessero integrare quelle modeste mensilità che gli arrivavano da casa. Le peripezie lavorative milanesi rappresentano un’utilissima palestra per lo sviluppo tanto di un ferreo spirito d’abnegazione professionale, come della sorprendente capacità di ricaricarsi d’entusiasmo ed energia ad ogni nuovo progetto, ad ogni nuova tappa. Ricorda Augusto Borselli che tra le altre mansioni Sordi si vede costretto a ricoprire quella di fattorino di una grand’azienda, poi quella di rappresentante di lamette da barba e infine di prodotti alimentari. Tutte attività di brevissima durata in cui il Nostro si cimentava, nell’attesa d’entrare nel mondo dello spettacolo:

105 Ibidem, pag. 34.

rispose perfino ad un’inserzione su un giornale a mezzo della quale un circo, attendato alle porte della città, faceva richiesta di un provetto domatore di bestie feroci. Il colloquio con il proprietario del circo, un tedesco sospettoso e grifagno si concluse con un: “Bene, giovanotto.

Facciamo subito una prova decisiva nella gabbia dei leoni”. Al perentorio invito Alberto fu costretto a confessare la sua scarsa dimestichezza con i leoni e le belve in genere. Tutto si risolse, fortunatamente, con molte risate e una formidabile bevuta di birra. Sordi però aveva fretta di riuscire e di rendersi indipendente da un punto di vista economico dalla famiglia che non poteva permettersi il lusso di mantenerlo, anche se le sue sorelle, diplomate maestre ed il fratello Giuseppe, laureato in ingegneria, cominciavano già a guadagnare. A questo punto occorre precisare che Alberto Sordi non è mai stato un vitellone, non ha mai fatto parte di quella categoria di fannulloni, di parassiti che trascorrono le loro giornate al biliardo, al cinema, nei caffè, con le mani in tasca, in attesa che i1 tempo passi. Dall’età di quindici anni Sordi ha sempre lavorato, teso alla ricerca di se stesso. [...] Alberto, sempre più dinamico e voglioso di guadagnare, riprese il viavai negli uffici, nelle fabbriche, negli studi alla ricerca di una qualunque occupazione che gli rendesse del denaro. In quel periodo gli passò perfino per la mente, l’idea che Milano, città ricca ed industriosa, necessitasse di una “Banca Alberto Sordi”. Suo padre riuscì a fatica a dissuaderlo dall’impresa106.

Il successivo impiego è ancora più spettacolarmente cinefiliaco: apprendista portiere e liftier al Continental, un hotel nel centro di Milano con uno spettacolare ingresso circolare sullo stile di L’ultima risata di F. W. Murnau (Der Letzte Mann, 1924) e con una hall da fare invidia al suo “maestro” Oliver Hardy. Grazie ad una leggera spolveratura di francese viene assunto per offrire informazioni ai clienti:

guadagnava pochissimo, ma aveva il vitto e l’alloggio assicurati. Poteva esercitare un raffinatissimo Lobby Watching e raccontare alle ragazze che abitava al Grand Hotel, aumentando così, notevolmente, il proprio fascino di tombeur de fammes.

106 Borselli Augusto, op. cit., pag. 26.

... alloggiavo all’hotel Continental... cioè siccome conoscevo un po’ di francese mi avevano mandato dal portiere del Continental... lui mi teneva lì a dormire, io l’aiutavo fino al cambio di notte e poi me n’andavo all’Accademia... Partecipavo a tutte le feste importanti dell’hotel, mi cambiavo e m’infilavo tra gli ospiti. Mi ricordo la contessina Palazzi, un fiorellino di ragazza, una sera mi chiese: “Ma lei dove abita?”. Ed io:

“Qui al Continental, signorina!”... Cosi frequentavo e ballavo con tutta questa bella gente...107.

In una intervista rilasciata nei primi anni Settanta a La Domenica del Corriere il Nostro racconta con maggior dovizia di particolari le vicissitudini accadute in detta occasione. Pare infatti che avesse effettivamente invitato tutti i conoscenti e gli amici a scrivergli all’Hotel Continental dove effettivamente egli viveva e lavorava sempre con un impeccabile frac addosso fornitogli dalla direzione. Sembra che una sera si sia presentata per salutarlo una giovane ed elegante signora, con la quale appunto alcuni giorni prima s’era pavoneggiato millantando il suo altisonante domicilio. Racconta Sordi d’esserle andato incontro con un grande inchino ed un baciamano e d’averla invitata a ballare nello stesso salone dell’hotel....

... il direttore dell’albergo non intervenne, per evitare la scandalosa gazzarra che lo sguardo maligno del lift gli aveva preannunciato, ordinò al personale di assecondare i capricci del giovane incosciente, il quale ballò e bevve champagne con la bella signora, fu esaudito in tutto e soltanto il mattino successivo scacciato in malo modo.

Comunicò agli amici romani: “Non scrivetemi più al Continental, ho lasciato questo albergo per i modi grossolani del personal”. Tentò di sbarcare il lunario vendendo lamette. Poi ebbe un posto di cameriere in una modesta trattoria. Un odioso cliente abituale ordinava tutte le sere una bistecca e tutte le sere chiamava il cameriere e gli ripeteva la stessa identica frase: “Questa non è una bistecca, è una suola di scarpa”.

Cinque sere resistette il cameriere Alberto Sordi, la sesta sera prese una

107 “Imboscato al Continental”, in Danese Silvio, op. cit., pag. 121.

vecchia scarpa, ne staccò una suola, la depose in un piatto, la condì col pomodoro, indi la servì all’odioso cliente, che, paonazzo in volto, urlò:

“Cos’è questa porcheria?”, al che il cameriere rispose con un inchino

“Una suola di scarpa, come al solito, signore”. Il proprietario della trattoria non aveva il senso dell’umorismo, domandò scusa al cliente e licenziò il cameriere108.

Sono racconti che si preannunciano già come gag di future commedie cinematografiche o che ricordano sketch d’avanspettacolo: in particolare il secondo sembra ricalcato sul famoso numero del comico romano Aldo Fabrizi (mentore e per certi aspetti modello sordiano) quando interpretava la macchietta del “cameriere dai piedi dolci” con la variante chapliniana della scarpa commestibile (The Gold Rush, 1925). In ogni caso anche nella possibile deformazione del ricordo, il comportamento sordiano (particolarmente rilevante in confronto con il mudus vivendi meneghino) denota l’assunzione di certi tratti della mentalità capitolina come l’aria sorniona ed indolente, l’indifferenza verso tutto e tutti, il cinismo, la furberia e quel tenace ottimismo che sicuramente stimolerà gli strali della buona sorte: un pot-pourri di romanità che sulle prime (solo sulle prime), non viene visto di buon occhio nella capitale lombarda...

... e infatti sulle prime Alberto Sordi non entusiasmò i milanesi. I quali, in seguito devono avere visto altre qualità che fanno di Alberto Sordi un riuscitissimo esemplare dell’attivo milanese [...] allora diciamo che una definizione per Alberto Sordi potrebbe essere questa “romano de Milan”, oppure “Milanes de Roma”. Forse per questo i romani e i milanesi amano di pari amore Alberto Sordi: quando si proiettano i suoi film i cinema sono ugualmente gremiti a Roma e a Milano109.

108 Cavicchioli Luigi, “Sordi: se voglio ridere devo vedere i miei film”, in La Domenica del Corriere, 1973, nº 15, pagg. 44-45.

109 Ibidem.

2.11.1. “L’italiano in fanteria e il romano in fureria!” ...

“Allora cosa dovrei dire io? Il romano abile e arruolato ed il milanese riformato?”

110

L’inizio fu difficile, ma questo me lo aspettavo. Di una cosa ero certo, che prima o poi ce l’avrei fatta, per motivi naturali, perché a covare un uovo di gallina viene fuori un pulcino. Io per me non sapevo quanto sarebbe durata la cova, ma sapevo che alla fine sarebbe venuto fuori l’attore Alberto Sordi111.

L’incisione, la pubblicazione, il permesso dei genitori di sperimentare uno stile di vita diverso e forse il rassegnato convincimento degli stessi che quella di Albertone era una vera e propria vocazione, gli regalano un’iniezione di fiducia tanto intensa da fargli veramente credere che quella fosse la propria strada. Tuttavia la frequentazione di un certo entourage più colto e raffinato del sornione e schietto quartiere trasteverino, conducono alla consapevolezza di non poter contare unicamente sulla propria voce, di possedere tutto sommato un volto anonimo, una faccia comune e nessun virtuosismo particolare. Insomma era davvero arrivato il momento di fare sul serio, di investire al massimo sulle proprie possibilità. Si iscrive così alla Accademia dei Filodrammatici convinto d’affrontare il suo primo ed unico tentativo di sottomettersi ad una disciplina teorica. L'Accademia milanese era la prima scuola d'arte drammatica italiana e si proponeva di mettere a disposizione di tutti quegli aspiranti attori che non provengono da famiglie d’arte, un corredo completo di competenze sceniche. Ma come spesso frequentemente avviene in molti ambiti accademici endogamici (unicamente votati all’indottrinamento di dilettanti appassionati o di nuove e giovani reclute da inviare a compagnie di prosa), le naturali doti di freschezza e spontaneità vengono sacrificate sull’altare dell’impostazione della una recitazione sofisticata e del birignao cioè tutta centrata sulla varietà di toni, delle eccessive modulazioni volte a sottolineare sottolineare sentimenti di commozione, d'angoscia e di dolore.

110 Schermaglia verbale tra il milanese Giovanni Busacca (Vittorio Gassman) ed il romano Oreste Jacovacci (Alberto Sordi) nell’incipit del film monicelliano del 1959 La grande guerra (N. del A.)

111 Dichiarazione di Alberto Sordi a Luigi Cavicchioli, op. cit., pag. 45.

L’Accademia dei Filodrammatici di Milano allora era l’unica prestigiosa in Italia. Non esistevano ancora né la Silvio D’Amico né quella del Piccolo... non sapevo ancora se volevo fare il cinema o il teatro, ma ero certo che volevo fare l’attore. Si diceva che Milano era la città del teatro e che il pubblico era generoso. Allora di neorealismo non si parlava ancora e nel mondo dello spettacolo esistevano solo le regole delle tecniche di scuola... ne capivo l’importanza, ma le sentivo inadatte a far emergere le mie qualità che erano quelle della spontaneità e della naturalezza... le sole doti di cui avevo bisogno per non provare imbarazzo.

Questa consapevolezza mi rammaricava... temevo che il cinema non mi avrebbe mai accolto senza un curriculum vitae di teatro di prosa come vantavano tutti gli attori cinematografici di allora. Quando stavo per abbandonare completamente ogni speranza mi venne incontro il neorealismo...112.

Nei registri conservati nella prestigiosa scuola teatrale milanese si scopre che durante le due ore serali (una di dizione l’altra di recitazione) Albertone era un allievo chiassoso, impertinente, un po’ grezzo ed ordinario, poco disciplinato e troppo istintivo.

Nei due esperimenti–saggi compiuti alla fine di ogni bimestre frequentato, recita le poesie Il parlamento di Giosuè Carducci e La morte di Giuda di Vincenzo Monti, con una cadenza trasteverina talmente marcata da far disperare l’insegnante di dizione la professoressa Emilia Varini. Questa gentildonna, docente di dizione e direttrice dell’Accademia era stata una delle figure storiche del teatro di prosa italiano. Aveva recitato a fianco di Ermete Zacconi in La signorina Julia di Strindberg, e con Eleonora Duse in La Francesca da Rimini di Gabriele D’Annunzio, apparteneva quindi ad una tradizione e cultura scenica difficilmente conciliabili con l’indole sordiana. È facile quindi immaginare come il proprio tentativo sordiano d’acquisire una certa erudizione si rivelasse ancora più effimero della parentesi assicurativa:

112 Ibidem.

Prima di lasciare il corso mi ricordo che la signora Varini mi chiamò. Era tutta gentile, insinuante... Voleva scoraggiarmi e invece fece la mia fortuna. Io, infatti, odiavo la pronuncia degli attori di teatro, mi

Prima di lasciare il corso mi ricordo che la signora Varini mi chiamò. Era tutta gentile, insinuante... Voleva scoraggiarmi e invece fece la mia fortuna. Io, infatti, odiavo la pronuncia degli attori di teatro, mi

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