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LA COSTRUZIONE DELLA COMICITÀ

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2.1. “Sento una voce fin da bambino...”

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L’arte e la carriera d’Alberto Sordi potrebbero essere argomento di un lungo saggio estremamente moderno e appassionante: quasi un nuovo Paradoxe sur le comédien. Ma la novità dovrebbe consistere soprattutto nel mettere in rilievo ciò che Diderot non ha detto: o che si poteva “far dire” a Diderot soltanto se lo si leggeva forzando il testo. Ed è questa, la novità: che l’attore è il simbolo più vivo dell’artista come

“fenomeno psicologico”. In altre parole, tutti i procedimenti, dai più semplici ai più complicati, di questo fenomeno possono essere studiati meglio nell’attore che nel poeta, nel pittore, nel musicista: per la ragione che possono essere osservati non in un oggetto in qualche modo estraneo all’artista, in una poesia, in un quadro, in una melodia, ma nella voce, nei gesti, nell’espressione, nel corpo stesso dell’artista vivente. Corpo, che l’arte modifica via via per i propri scopi, e che è la materia medesima dell’arte dell’attore. Ed è chiaro che, come fenomeno da studiarsi, l’attore di cinema (non doppiato, si capisce) è assolutamente preferibile all’attore di teatro. Perché, che cos’è un attore di cinema se non un attore di teatro visto al microscopio?2.

Quando si lavora attorno alla ricostruzione biografica di un grande attore si corre inevitabilmente incontro al rischio di venire risucchiati dalla mitopoiesis cinematografica.

Vale a dire quell’irresistibile glamour che cosparge di polvere di stelle tutti i suoi protagonisti e costringe a sviluppare una visione curvata dal destino: un principio teleologico organizzatore, a suo piacimento, delle relazioni causali che legano le pagine della memoria. Se la vita di una persona qualunque è una combinazione di numeri estratti dalla ruota del caso, quella di un attore sembra regolata a ritroso da una sceneggiatura ferrea: un decoupage preciso d’eventi secondo i quali John Wayne non poteva essere altro che il buon cowboy solitario, Bela Lugosi il romantico vampiro transilvano, Alberto Sordi l’interprete di quel mostro sociale che è il piccolo borghese italiano. All’interno di questa

1 L’attorucolo di fotoromanzi Fernando Rivoli (Alberto Sordi) cerca di intenerire la sua ammiratrice Wanda Cavalli (Brunella Bovo) nel film del 1952 di Federico Fellini Lo sceicco bianco (N. del A.).

2 Soldati Mario, “Sordi e Petri”, in Id., Cinematografo, Palermo, Sellerio, 2006, pag. 377.

logica tutti i piccoli e causali avvenimenti divengono spontanei e naturali presagi, e lo stesso interessato rincuora critici e giornalisti che “Io non potevo far altro che l’attore”

certificando l’affermazione con la garanzia del senno di poi. Del resto Albertone viene alla luce, due settimane prima del previsto, proprio mentre sulla capitale si stava abbattendo un furioso nubifragio primaverile, che aveva reso impossibile far venire a casa l’ostetrica così la nascita petulante ed inopportuna già presagiva il carattere di alcuni dei suoi famosi e fortunati personaggi dei primi anni cinquanta, come il compagnuccio della parrocchietta (Mamma mia che impressione!; Roberto Savarese, 1951) o Lo scocciatore (id. Giorgio Bianchi, 1954). Sottolinea, per la precisione, Camillo Moscati:

Allo Stato Civile di Roma risulta che “nell’anno 1920 il giorno 15 del mese di giugno, alle ore 7 e minuti 25, nella casa posta in Roma – Via S. Cosimato al nº 17, è nato il bimbo di sesso maschile SORDI ALBERTO figlio di Pietro e di Righetti Maria. Testimoni dell’atto, ricevuto il 19/6/1920 dall’ufficiale dello stato civile Collerò Domenico, furono i Sigg.

Rinaldi Giovanni e Di Cola Giuseppe residenti in Roma. Denunciante il Sig. Sordi Pietro”. È bene fare questa precisazione poiché nelle varie enciclopedie del cinema ed in varie pubblicazioni la data riportata è a volte 1918, 1919 e molto raramente 19203.

2.1.1. “Pensa a te e alla famiglia tua!”

4

Mi ritengo un uomo fortunato perché l’affetto di un nucleo di ferro, mi ha aiutato più di qualsiasi altra vitamina, a crescere sano nel corpo e, soprattutto, nello spirito5.

L’Albertone nazionale, nato e cresciuto dentro la sicura protezione del triplice grembo mussoliniano dio - patria - famiglia, anche nei momenti difficili della sua

3 Moscati Camillo, Alberto Sordi. Il più amato degli italiani, Genova, Lo Vecchio, 1989, pag. 23.

4 Tipico tormentone del personaggio creato da A. Sordi per la rivista E lui dice... (Sordi, Scarpelli, Metz, 1945) che entrava in scena con una lunga gonna femminile gridando la frase in questione (N. del A.).

5 Dall’intervista ad Alberto Sordi, fatta da Maria Antonietta Schiavina, raccolta nel volume Storia di un commediante, Milano, Zelig, 2003.

carriera (che come si vedrà sono stati numerosi) dice di aver sempre trovato costante conforto nel pensiero che prima o poi sarebbe divenuto un grande attore. È ragionevole pensare che questa certissima vocazione sia cresciuta con lui nell’infanzia. Dal momento che non possedeva alcun antenato attore così quel particolare piacere d’esibirsi, la disinvolta capacità di mentire con tranquillità e padronanza di spirito, l’aveva sviluppata tra le mura di casa. Ricorda Maurizio Porro6 nello stesso modo in cui il bambino de Gli anni in tasca [L’argent de poche (François Truffaut)] che cade dal balcone ed anziché infrangersi plana al suolo sorridente, Albertone a quattro anni viene investito da un’automobile uscendone illeso. Se fosse stato effettivamente un fenomeno inspiegabile e miracoloso o la sua prima grande performance, non è dato a sapere. Certo è che l’episodio gli regala un clamoroso successo tra le donne di Trastevere, che lo portano in trionfo sull’altare della chiesa di Santa Maria, là nei pressi della casa dove era nato, in via San Cosimato, il 15 giugno 1920. Nella famiglia Sordi, composta dal babbo Pietro maestro di bassotuba, la madre Maria Righetti maestra elementare, i tre fratelli Savina, Giuseppe (detto Pino) e Aurelia, Alberto arriva come il secondo e desideratissimo figlio maschio. È assai plausibile immaginarselo come il più affettuosamente protetto dalla madre e vezzeggiato dalle due sorelle Savina ed Aurelia che infatti andranno a vivere con il fratello e s’occuperanno di lui con dedizione remissiva, mantenendo vivo il vincolo ombelicale con la famiglia per tutta la vita. La casa di via San Cosimato era un edificio che faceva parte del grande demanio umbertino, costruito con un gran spreco di spazi e con annesso il ricreatorio giovanile Vittorio Emanuele III. Si trattava d’un edificio tutto racchiuso dentro un alto muro di cinta, all’interno del quale abitavano circa venti famiglie di dipendenti comunali. Come segnala Valentina Pattavina nella sua preziosa monografia su Albertone...

... succede che da quando Alberto Sordi ci ha lasciato, per qualche tempo tutti gli anni qualcuno è andato a deporre una corona davanti al palazzo in cui l’attore è venuto al mondo, con tanto di giornalisti e troupe televisive al seguito. Peccato, però, che tutto questo sia avvenuto con il palazzo sbagliato, al numero 13 anziché al 7, proprio sull’altro lato della strada. C’è da dire che la palazzina in cui Sordi è davvero nato non esiste

6 Cfr. Porro Maurizio, Alberto Sordi, Milano, Il Formichiere, 1979, pag. 8.

più da parecchio [...] nel 1929, con la sigla dei Patti Lateranensi, Mussolini donò al Vaticano il terreno su cui sorgeva quella costruzione, che nel 1930 fu abbattuta per fare posto al palazzone bianco della Caritas.

Via il grande muro dunque, e il ricreatorio, e i lavatoi, e il vecchio cinema utilizzato come rimessa per le motociclette della milizia...7.

Comunque quell’appartamento in quella palazzina, che ora non c’è più, era stato ottenuto da Pietro Sordi grazie all’incarico nella Banda municipale di Roma. Certo la sua famiglia non differiva molto dalle altre: era una tipica famiglia piccolo-borghese romana, di quelle che si incontrano soprattutto nei vecchi rioni, costruite su uno schema sbiadito e perbene, e chiusa nel giro di rapporti familiari stretti, gelosi della propria intimità. Infatti i genitori, sebbene fossero entrambi istruiti, appartenevano anch’essi al ceto popolare, secondo quel censo che, dall’epoca fascista fino agli anni settanta, include nelle file del popolino anche maestri artigiani ed impiegati pubblici. Si trattava d’una macro categoria di dipendenti pubblici e privati, con enormi differenze, con diverse mansioni e provenienti da diverse città: una classe sociale composita ed eterogenea, orrorizzata dall’idea di cadere nella miseria, ansiosa d’ascendere a gradi sociali superiori, rispettosamente deferente al culto delle apparenze, al decoro, alla bella figura da mantenere sempre e comunque davanti agli occhi dei vicini. In definitiva una piccola e schizofrenica borghesia che organizza tutte le proprie energie in opposte tensioni sull’asse della doxa: l’impellente desiderio di fuga dall’insopportabile anonimato e l’ossessiva ricerca dello stesso, cioè la necessità di un tranquillo adeguamento ad un conformismo, più di facciata che sostanziale, la preoccupazione d’esser causa del mormorio della gente.

Questa stretta consanguineità tra piccola borghesia e proletariato non era un’invenzione di Roma città aperta, ma una condizione reale che offriva poche possibilità di salvezza dall’oppressivo qualunquismo, opportunità che Alberto Sordi ha saputo raccogliere con sensibilità ed intelligenza adeguate. Il grande merito del comico romano è stato infatti quello di aver saputo costruire la propria carriera sublimando l’inconciliabile duplicità tra vita pubblica e privata, infaticabile assiduità sul set e

7 Pattavina Valentina, La grande anima d’Italia. Alberto Sordi, dal teatrino delle marionette ai fasti del cinema. Torino, Einaudi, 2009, pag. 5.

tranquillo quasi dogmatico anonimato domestico. Il suo duraturo successo affonda le proprie radici nell’esser riuscito a combinare senza eccessivi traumi due esistenze parallele: da un lato le avventure nell’universo romano con tutte le sue bellezze, le retoriche e le spettacolari liturgie del quotidiano che arricchiscono di tipi, gesti e smorfie il serbatoio creativo dell’istinto artistico; d’altro lato l’invariabilità eterna degli affetti e delle strutture familiari.

2.2. “Mi permette babbo?”

8

[Mio padre] era un uomo d’una saggezza incredibile, un filosofo.

Aveva fatto la prima guerra mondiale e ogni tanto raccontava le sue gesta sebbene mia madre a volte negasse i fatti che lui riferiva. In casa non s’occupava di nulla, aveva solo questa grande passione degli accordi...

Suonava in una stanza in fondo, senza dar noia. Aveva uno sguardo rassegnato [il suo proposito era quello di] procacciare un modesto benessere alla famiglia: tirare su i figli con dignità, permettergli di studiare.

Sapeva che per farsi strada bisogna praticare l’attività, e infatti suonava il bassotuba senza presunzione, magari s’alzava e chiedeva: “Maestro lo vuole più alto o più basso? Va bene, glielo faccio subito un po’ più basso”.

Era uno che non entrava nei fatti degli altri badava a lavorare e basta9.

In casa Sordi le aspirazioni attoriali del giovane Alberto erano una novità assoluta, come si è visto sopra la famiglia era composta di decorosi impiegati statali e modesti professionisti: le uniche frequentazioni artistiche erano, semmai, concentrate nella figura del padre. Il signor Pietro era una persona molto saggia detentore di una filosofia di vita impostata sull’adattamento, sulla modestia, sulla ricerca della serenità.

Amava la musica ed a soli dodici anni si era diplomato al conservatorio di Pesaro.

Aveva scelto il bassotuba, uno strumento poco spettacolare, un caratterista comico nell’intero cast dell’orchestra del teatro Costanzi e della banda municipale. Si trattava

8 Titolo del film di Mario Bonnard del 1956, dove un Alberto Sordi aspirante cantante d’opera rovina costantemente la tranquillità domestica del suocero Aldo Fabrizi (N. del A.).

9 Livi Grazia., Alberto Sordi, Milano, Longanesi, 1967, pagg. 19-20.

d’una carriera artistica modesta condotta con lo zelo e l’umiltà dell’artigiano che si limita ad esercitare le sue rare e preziose competenze senza nessuna pretesa di gloria.

Era un professore d’orchestra che aveva rinunciato a tutto nella vita dedicandosiesclusivamente a quelle quattro note che gli servivano per il suo lavoro, e cioè l’uso di uno strumento d’accompagnamento come il bassotuba che gli aveva permesso di lavorare sempre. Fin da giovanissimo avrebbe potuto optare per il violino, il clarino, il flauto; ma scelse il bassotuba perché, mi disse, non lo prendeva nessuno. Stava a significare che mio padre non doveva competere con nessun altro, mentre secondo lui io mi accingevo a voler emergere tra migliaia di persone, per diventare un grande attore. Ma non è facile ottenere il successo, e mio padre mi invitava alla riflessione, perché rimanere un attore mediocre per tutta una vita sarebbe stato molto duro, molto triste. Non ho potuto smentire quello che mi aveva detto. Quando si crede in ciò che si vuol fare, quando si è convinti di essere nel giusto, non ci si deve fermare alle prime difficoltà; prima o poi si riesce. Quando si ama un lavoro, quando l’impegno diventa veramente importante, costruttivo, ci si specializza e non si può fallire...10.

Quando il piccolo Alberto assisteva alle prove rimaneva affascinato dalla figura del primo violino, lo ammirava quando prima di iniziare il concerto si alzava e dava la mano al direttore, e sospirava desiderando che un giorno si fosse alzato suo padre. Poi iniziava la musica Alberto attendeva ansioso il momento di gloria del babbo, che non arrivava... solo di tanto in tanto si sentiva un suono grave e comico.

Io andavo a vedere mio padre al Teatro dell’Opera, che allora si chiamava Costanzi, ma ritornavo sempre a casa deluso... non suonava quasi mai. Lo vedevo seguire lo spartito per ore intere e soltanto ogni tanto qualche nota. Il primo violino quello sì che suonava. Io lo seguivo

10 Massimo Moscati (curatore), Alberto Sordi. Ammazza che fusto!, Milano, Rizzoli, 2000, pag. 12.

incantato e immaginavo mio padre al suo posto. Soltanto quando rappresentarono Wagner mio padre diventò protagonista, prese il posto del primo violino11.

Per papà Pietro la musica era non solo una grande passione ma anche una vera e propria ragione di vita probabilmente per una sorta di riconoscimento. Durante la prima guerra mondiale, infatti, il reclutamento nella banda presidiaria lo aveva tenuto lontano dalle carneficine della trincea, lo aveva preservato da ulteriori pericoli. Soprattutto e aveva infuso in lui, la percezione che la propria attività artistica, fosse una vera e propria missione collettiva di professionalità e dignità profonda:

[mio padre sosteneva che]... non esiste un lavoro più umile di un altro, conta solo il fatto di saperlo fare bene o meno. L’importante è avere la propria specializzazione. Il bassotuba in Italia lo suoniamo solo in due:

un collega di Milano ed io... Così in casa non ci manca mai nulla12.

Un’umiltà, un anti-egocentrismo, un anti-narcisismo (insoliti in qualunque ambiente di lavoro e praticamente proibiti nel suo) che col tempo hanno premiato il professor Sordi, tanto negli affetti famigliari, come professionalmente, soprattutto quando è stato chiamato per alcune importanti sostituzioni sia a New York dal maestro Arturo Toscanini, che a Berlino dalla filarmonica nazionale. Proprio per la conoscenza diretta di quest’ambito artistico costruito attorno alla norma ferrea del mors tua vita mea, il padre non era per nulla entusiasta dei progetti attoriali del figlio. Però, tuttavia, mai avevano negato, ad Albertone il permesso di seguire la propria vocazione a patto di impegnarsi a fondo senza distrazioni. Particolarmente sulle soglie del secondo conflitto bellico se una di queste distrazioni consisteva nella chiamata alle armi:

Era il 1940... stavo per iscrivermi al corso di allievo ufficiale di fanteria che, esibizionista come ero, significava divisa, fascino, donne. Papà

11 Dichiarazione di Sordi raccolta e pubblicata in Governi Giancarlo, Alberto Sordi, l’italiano, Roma, Armando Curcio Editore, 2010, pagg. 11-12.

12 Dichiarazione di Sordi in Schiavina Maria Antonietta, Alberto Sordi. Storia di un commediante, racconti, aneddoti e confessioni, Milano, Zelig, 2003, pag. 18.

mi invitò ad una riflessione che solo il suo equilibrio poteva dettare: c’era la guerra, avevo appena ottenuto il contratto da doppiatore, se avessi lasciato la capitale avrei perso tutto... Così grazie alla mia conoscenza di alcuni rudimenti musicali ed alla sua intercessione presso il maestro Castrucci dell’82º di fanteria sono entrato anch’io nella banda militare ed ho potuto continuare a lavorare indisturbato anche durante la guerra13.

Certo non si può affermare che Alberto avesse condiviso allegramente la prospettiva di doversi specializzare in un ruolo secondario, da bassotuba della cinematografia italiana, pur richiestissimo, ma dalla poca visibilità e soprattutto dallo scarso protagonismo. Eppure, osservando in prospettiva la carriera sordiana si possono delineare alcuni profili dell’eredità paterna come l’abnegazione professionale, la definitiva separazione tra vita pubblica e privata (quest’ultima, quasi misteriosa per la mancanza di pubbliche dichiarazioni o flirt spettacolari) e soprattutto l’ossessiva ricerca di una personale specializzazione. Come dire... un bassotuba, ma con dieci, quindici pistoni, con due padiglioni, cioè uno strumento talmente particolare da diventare più importante dei primi violini. Pietro Sordi un umile grande uomo che viveva di piccole cose e di grandi valori muore nel 1941, per disturbi alla prostata mal curati, senza poter gioire dei successi del figlio, ma intuendo che questi faceva sul serio e non si sarebbe fermato davanti a nessun ostacolo.

2.3. “Trattatela come una regina!”

14

Tutti insistevano: “Dovresti farti una famiglia”. E io: “Ma perché?

Io ce l’ho la famiglia, è la mia da quando sono nato...”?15.

Il fatto che il giovane sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Giulio Andreotti, abbia usato il motto popolare “i panni sporchi si lavano in famiglia”, per

13 Schiavina Maria Antonietta, op. cit., pag.19.

14 Raccomandazione urlata dal personaggio sordiano del figlio diversamente devoto, agli infermieri di un’infame casa di riposo dove egli ha abbandonato furtivamente la madre: da Come una regina di Ettore Scola, episodio del film collettivo del 1977 I nuovi mostri (N. del A.).

15 Schiavina Maria Antonietta., op. cit., pag. 114.

prendere posizione contro l’efficacia delle denuncie sociali presentate da De Sica e Zavattini in Umberto D. (1952), rivela quanto sia radicata, ancora nell’ormai avanzato dopoguerra questa duplice morale del pubblico e del privato nella coscienza piccolo-borghese italiana (anche di uomini colti, o di successo o ricchissimi ma intellettualmente sempre di mentalità molto rigida): se all’esterno occorre essere (o mostrare d’essere) i più aperti e democratici possibile in accordo con i contratti del vivere sociale, dentro casa vige una monarchia assoluta, silenziosa ed autarchica.

Responsabile assoluta di questo rinnovato culto di Lari e Penati è la signora Maria:

Sordi la ricorda come una donna rassicurante, affettuosa e comprensiva, sempre con il sorriso sulle labbra ed una giustificazione per tutti, ma anche concreta, decisa e risoluta.

Era devota praticante, seguiva alla lettera gli insegnamenti della religione cattolica e si proponeva più di ogni altra cosa di adempiere gli obblighi domestici. Così dalla nascita della prima figlia Savina in poi, abbandona di buon grado l’incarico alla scuola elementare e si dedica interamente ai figli, senza tuttavia dimenticare mai, nemmeno in casa, la sua vocazione di maestra.

Mamma si occupava da sola della casa e di noi sostituendosi talvolta anche a papà che, spesso via per lavoro, le aveva delegato la nostra educazione dandole carta bianca... io la vedevo come la madonna:

intoccabile e soprattutto senza peccato. Era una donna appagata e serena, che gioiva di ciò che aveva... o meglio, di ciò che non aveva rispecchiandosi nei figli con grande amore16.

Era una donna con uno spiccato senso pratico che aveva saputo accentrare su di sé in casa tutti i compiti di direzione e coordinazione della casa, così com’è tipico di certe casalinghe romane, calme, econome, laboriose. Possedeva con gli stessi occhi chiari di Albertone, la stessa faccia paffuta forse un po’ più allungata, amava il decoro, l’igiene e la pulizia della casa, era molto religiosa ed aveva poche amiche. Grazia Livi raccoglie una dichiarazione della portinaia del palazzo di via dei Pettinari (dove la famiglia Sordi trasloca nel ’41, in occasione della morte del padre), che la descrive come:

16 Ivi., pag. 14.

una gran brava signora che non si impicciava di nessuno, badava solo alla famiglia, mai sgarbata, anzi se poteva, faceva la gentilezza e usciva sul pianerottolo col caffè17.

Garbatezza, cortesia ma soprattutto metodica tranquillità erano le caratteristiche diffuse dalla signora Maria nel proprio ambito domestico. Anche le feste comandate trascorrevano secondo i binari immutabili delle consuetudini:

alla domenica mattina... tutta la famiglia faceva l’uscita trionfale per la messa: la madre, ovvero la matriarca in testa, proprio com’è tipico dei vecchi rioni, il padre piccolo, pallido, i figli tutti ripuliti, in fila. Al

alla domenica mattina... tutta la famiglia faceva l’uscita trionfale per la messa: la madre, ovvero la matriarca in testa, proprio com’è tipico dei vecchi rioni, il padre piccolo, pallido, i figli tutti ripuliti, in fila. Al

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