Gli zii di Sicilia come misura del ritorno.
Approssimazioni birichine* a titoli, epigrafi e
al caso di Nievo in Il quarantotto di Sciascia
Luciano Curreri
(Université de Liège)
*di etimologia incerta (forse buricco, buriccus, buricus, cavallino, asino) –
tutto ciò che è bello (va quasi da sé ma diciamolo) è discusso – è qui
aggettivo che vale vivace, irrequieto, impertinente ma anche astuto:
Gli zii di Sicilia (1958 e 1960) di Leonardo
Sciascia (1921-1989)
• Gli zii di Sicilia (1958): La zia d’America, La
morte di Stalin, Il quarantotto
• Gli zii di Sicilia (1960): La zia d’America, La
morte di Stalin, Il quarantotto, L’antimonio
• Il quarantotto è un titolo che pare
«significativo anche per tutto il libro», a
Sciascia, a cui Gli zii di Sicilia, che pure
C’è davvero un titolo solo per tutti questi testi?
Un grande indizio circondato da domande non meno grandi
• La zia d’America è una «zia di Sicilia»?
• Un indizio grande come… Stalin (1879-1953): «Il compagno Stalin, il
maresciallo Stalin; lu zi’ Peppi, lo zio di tutti, il protettore dei poveri e
dei deboli, l’uomo che aveva nel cuore la giustizia. Calogero […]
credeva di essere stato lui ad inventare per Stalin quel familiare
appellativo che ormai tutti i compagni di Regalpetra usavano; invece
in Sicilia tutti i braccianti e gli zolfatari, tutti i poveri che aprivano
speranza, dicevano – lu zi’ Peppi – e una volta l’avevano detto per
Garibaldi [dettaglio che fa sistema?], chiamavano zii tutti gli uomini
che portavano giustizia o vendetta, l’eroe e il capomafia, l’idea di
giustizia sempre splende nella decantazione di vendicativi pensieri»
(La morte di Stalin, p. 79).
Chi e dove sono sono gli zii in L’antimonio?
Partire dall’epigrafe
• I primi due racconti non hanno epigrafe, gli ultimi
due SI!
• Forse perché il titolo non basta più: Il quarantotto
europeo e le plurali e «suggestive ragioni» di
L’antimonio sono «al di là del bene e del male» della
Sicilia, ben più dell’America e della Russia staliniana
del secondo dopoguerra, e attaccano più
generalmente la vacuità morale e la mancanza di
senso critico.
Le due epigrafi
• QUARANTOTTU, s. m. disordine, confusione. I.
Dagli avvenimenti del 1848 in Sicilia. 2. Fari lu
qurantottu, finiri a quarantottu, apprufittari di
lu quarantottu, fig. vale: fare confusione, finire
in confusione, profittare della confusione.
• GAETANO PERUZZO, Dizionario siculo-italiano,
Tip. Amato, Castro 1881
Le due epigrafi
• And the Cardinal dying and Sicily over the ears
– Trouble enough without new lands to be
conquered… We signed on and we sailed by
the first tide…
L’epigrafe di L’antimonio I
•
Citare Archi MacLeish (1892-1982) era come citare Gaetano Peruzzo. Sciascia aveva
un Suo vocabolario enciclopedico in cui ogni autore significava qualcosa di preciso,
in seno a ratio illuminista. Al tempo stesso, non bisogna dimenticare che
possedeva un istinto, anche rapinoso e ‘disinvolto', nel scegliere, tra allusioni e
tagli, un’epigrafe, un titolo e tant'altro. Ma andiamo con ordine.
•
Si tratta di Conquistador, Cambridge : The Riverside press, 1932. Sciascia
probabilmente leggeva, al tempo degli Zii e dell’Antimonio, in italiano: Dal poema
Conquistador / Archibald MacLeish ; a cura di Roberto Sanesi, Varese : Magenta,
1957, ma bisognerebbe verificare se c’è la «Bernàl Díaz preface to his book». Il
passo che ci interessa è poco oltre la metà. Che il libro ci sia o non ci sia nella
biblioteca di Sciascia conta relativamente, ché Sciascia poteva leggerlo in Biblioteca
(per esempio alla Biblioteca centrale della Regione siciliana Alberto Bombace -
Palermo; ma bisognerebbe verificare il registro d’ingresso, ovvio). Io lo leggo
in Conquistador ed altre poesie / Archibald Macleish ; A cura di Roberto Sanesi,
testo a fronte, Parma : Guanda, 1970, pp. 20-23.
L’epigrafe di L’antimonio II
• Il testo è difficile da capire anche perche è tagliato, prima, durante e
dopo. A monte del primo taglio sta una possibilità di capire: And
trouble enough in Spain whit all that. Sanesi traduce: Con tutto questo
in Spagna c’era abbastanza confusione [avrà pensato Sciascia alla
confusione del suo Quarantotto?].Poi ripreso sotto: Abbastanza
confusione senza bisogno di nuove terre da conquistare.
• In mezzo: ...la Sicilia che ne aveva fin sopra i capelli
(letteralmente ‘orecchie’ ma è noto che da noi l’espressione è…). Dopo
lo stacco, che si porta via tre strofe e un verso: Facemmo la firma e
salpammo alla prima marea. Solo alla lettura - potremmo dire, con
Sciascia, riprendendo ma cangiando un poco le parole finali che
vergano la piccola nota a piè di pagina interna dedicata al titolo del
racconto - sono «suggestivi versi, questi, a introdurre L’antimonio».
L’epigrafe di L’antimonio III
•
Insomma, al di là dell’impegno antifascista di MacLeish, che era peraltro già
tornato in America, al tempo della guerra di Spagna (ma si era fatto un lustro nella
Parigi di Hemingway e della generazione perduta tra il 1923 e il 1928), a Sciascia
basta leggere questi versi per trarne un’epigrafe che va (quasi) da sé: l’impresa di
Cortez, scritta dal punto di vista dell’ottuagenario Bernàl (avrà pensato, Sciascia, al
Nievo inventato da Nievo e dall’editoria ‘castigata’ dell’Italia unita?), si presta a
quell’ambiguità di cui la ricezione dei secoli non poteva non nutrirla, tra necessità
dell’avventura e condanna della stessa, che poi sono i poli in cui tende ad oscillare
l’ex-minatore volontario in Spagna di Sciascia prima di approdare a uno stato di
veglia e di ragione non più turbato da sonni e sogni confusi.
•
E il parallelo diventa geopolitico, mi pare, tra la Spagna della prima metà del
Cinquecento e l’Italia della prima metà del Novecento, dove c’era già abbastanza
confusione senza nuove terre da conquistare. Mentre Mussolini si inventa una
guerra dietro l’altra e una più grande dell’altra, dice Sciascia, mentre Mussolini vola
alla conquista delle Baleari, dice ancor prima il grande Berneri, la Sicilia (al tempo
di Carlo V come a quello del Duce) ne aveva fin sopra i capelli.
L’epigrafe di L’antimonio IV
• Lo stacco pone maggiori problemi e quel «Facemmo la firma e salpammo alla
prima marea» può indicare, a mio avviso, sia la prima scelta dell’ex-minatore,
cioè quella di partire in Spagna, sia quella finale di partire per una città
lontana, del continente, che italiano o meno che sia, sarà frequentato da un
uomo che salpa con ancor maggior convinzione della prima volta. Certo,
Sciascia in un primo tempo voleva chiudere più facilmente, con un «mi
mandarono ad Ancona». Ma Calvino, da quel grande e generoso lettore di
testi altrui che era, gli offre consigli anche in virtù dei quali il finale resterà
più ‘aperto’. E noi ci possiamo pure immaginare - ma è solo il mio parere - che
il nostro riparta a combattere o salpi ancora e quanto meno per svegliare
nuove coscienze. La lettura delle strofe intermedie e mancanti nella citazione
potrebbe spingere in questa direzione. Si legga anche solo un verso come: «
Noi che la nostra carne era già sperimentata…». Difficile non pensare alla
carne sperimentata (al corpo amputato) dell’ex-minatore/soldato.
Il quarantotto e la sua origine libresca
• Scritto nell’estate del 1957, vince, da inedito,
insieme a La zia d’America, il premio letterario
« Libera Stampa » di Lugano (La morte di Stalin non
è preso in considerazione perché già pubblicato in
rivista: su « Tempo Presente », gennaio 1957)
• Ha un’origine libresca: Le confessioni di un italiano
(concepito forse già nel 1857, scritto nel 1858,
pubblicato postumo nel 1867 come Le confessioni di
Il quarantotto: alcuni ‘facili’ punti di contatto
con Le Confessioni
• È una storia di formazione: «un anziano uomo di Castro (ovvero Mazara del Vallo),
figlio del giardiniere del barone Garziano, ricorda in flash back la sua giovinezza,
ripercorrendo le tappe dell’itinerario trasformistico del barone, tra fedeltà ai Borboni,
a Pio IX nel 1848 [al secolo Giovanni Maria Mastai Ferretti, 1792-1878, ultimo sovrano
dello Stato Pontificio tra il 1846 e il 1870, e record imbattuto di pontificato, eccezion
fatta pel mitico Pietro e Giovanni Paolo II], di nuovo ai Borboni e infine a Garibaldi nel
1860» (Traina 1999, p. 227).
• L’« io narrante » ricorda la giovinezza quando ormai è vecchio e stanco: la scrittura è
indicata come «un modo di trovare consolazione e riposo; un modo di ritrovarmi, al di
fuori delle contraddizioni della vita, finalmente in un destino di verità» (Sciascia 1958,
p. 128).
• Trasformismo (barone, aristocrazia siciliana) vs Formazione (coscienza politica giovane
del popolo =» Fasci siciliani, 1891-1894, movimento diffuso tra proletariato urbano,
braccianti agricoli, minatori, di ispirazione democratica e socialista, con intenti
secessionisti =» La zia d’America e il secessionismo di Finocchiaro Aprile, arrestato il 1
ottobre 1945).
I calzoni corti tra 1848 e 1948
• Come Nievo, Sciascia gioca a lungo con i calzoni corti intorno al 1848 (e al 1948,
con La zia d’America) e, come Nievo, non resta (chi lo pensa non ha capito
niente) prigioniero della cucina (della casa o del castello poco importa).
• I giovanissimi «birichini» (Nievo, p. 31) e la migliore gioventù che il patrimonio
— direi quasi il patrimonio genetico — degli Zii di Sicilia mette insieme dal
1848 al 1948, non sono soltanto un filo rosso, una costante tematica
dell’unitaria raccolta di racconti, ma un «tener fede ai principi della morale e
della dignità» cui lo stesso Nievo stringe l’occhio più volte fin dall’inizio delle
Confessioni - «nell’anno che corre dell’era cristiana 1858» (Nievo, p. 3) - in seno
a dichiarazioni come questa (del capitolo primo): «la vita fu da me
sperimentata un bene; ove l’umiltà ci consenta di considerare noi stessi come
artefici infinitesimali della vita mondiale, e la rettitudine dell’animo ci avezzi a
riputare il bene di molti altri superiore di gran lunga al bene di noi soli» (Nievo,
p. 5).
Vecchi e giovani si danno una mano fuori e
dentro il testo
• Il vecchio che ricorda il giovane nelle Confessioni come nel Quarantotto tende la mano a sé stesso ma anche «ai miei fratelli più giovani», additati come «il più invidiabile tesoro, e l’unico scudo per difendersi contro gli adescamenti dei falsi amici, le frodi dei vili e le soperchierie dei potenti»
(Nievo, p. 5); «Fedeli amici […] hanno offerto scampo all’arresto [a me] vecchio e stanco» (Sciascia, p. 128).
• Non è un caso, poi, che vecchi e giovani si diano una mano in seno alle due narrazioni – tra Martino, Mastro Germano, Marchetto e Carlino, da un lato, e don Paolo e il protagonista del
Quarantotto dall’altro - e si assista quasi a un passaggio di consegne grazie a quell’istruzione che
crea facoltà morali e indipendenza.
• Si pensi al piovano di Teglio per le Confessioni, maestro di Carlino in dottrina e calligrafia: «L’era un bel pretone di montagna poco amico degli abatini d’allora […] Circa le sue facoltà morali, per esser nato nel Settecento lo si potea vantare per un modello d’indipendenza ecclesiastica […]» (Nievo, p. 30). Non a caso Carlino, poco dopo, comincerà – dice - «a guardare co’ miei occhi, a ragionare ed imparare colla mia propria mente» (N., p. 86) e a rispondere con brio a un cavaliere sconosciuto che incute un certo timore e che gli domanda a chi egli appartenga al Castello: «- Oh bella! A nessuno appartengo! Sono Carlino, quello che mena lo spiedo e va a scuola dal Piovano» (N., p. 91).
• E si pensi all’indipendenza del vecchio don Paolo del Quarantotto, maestro di un altro giovinetto cui insegna, durante la rivoluzione, «a trar compagnia e fede dalla natura dai libri e dai [...] pensieri stessi» (Sciascia, p. 155).
Dall’ «io» al «noi»:
il popolo siciliano e il ritorno di Nievo
- Quando si punta e si insiste troppo sull'individuo, su un «io» del
tutto determinato, dato una volta e per sempre, quasi come Dio, la
figura intellettuale che ritorna in altre narrazioni (magari via l’eco
della propria opera letteraria) diventa spesso un feticcio o, se si
vuole, un tema (fra gli altri) e quindi dalla riproposta seria, finanche
sublime, si può passare con una certa facilità al luogo comune e
finanche al cattivo gusto e al kitsch.
- Quando invece si cerca di legare l'individuo a un destino e a un
processo collettivo, insomma l’«io» al «noi», è più facile passare
dalla riproposta altisonante (e da certe innegabili derive, frutto
magari di un comico involontario) alla vera riscoperta e riattivazione
di una vita, di un iter umano e intellettuale, significativo in sé e per i
dintorni, anche prospettici, di lungo, secolare corso.
Essere e dirsi popolo «in ciò che [si] tace»:
partecipazione, disillusione
e resoconto amaro sciasciano via Nievo
• Il che significa anche essere e dirsi «popolo» — proprio come suggerisce
Nievo quasi alla fine del Quarantotto e dei primi Zii di Sicilia — nel
«bisogno di essere conosciuto ed amato in ciò che [si] tace»: «nelle parole
che [il popolo] nutre nel cuore e non dice...» (Sciascia, p. 189).
• Eppure, l'avrà vinta la chiacchiera festosa del singolo, del nemico acerrimo
della rivoluzione, del cambiamento, insomma del barone, che si
sovrappone al silenzio del popolo, ovvero anche al suo pudore e alla sua
eleganza.
• Ecco allora il resoconto amaro e critico che Sciascia fa grazie a Ippolito
Nievo di fronte a eroe di troppo buon cuore, il generale Garibaldi;
resoconto che fa venire in mente tanti moti risorgimentali (e non) finiti
male (con un pensiero, visivo, al finale di un film dei fratelli Paolo e
Vittorio Taviani, Allonsanfan, del 1974):
Una citazione letteraria
e una cinematografica
• — Sí, generale — continuò il giovane [Nievo] — siete
voi che avete un cuore grande: e nella vostra
generosità e passione non vedete la viltà, la paura e
l'odio che si mascherano di festa e agitano bandiere
a salutarci... Perché abbiamo vinto: e se a Calatafimi
ci fossimi rimasti, molti di questi signori che ci fanno
festa, che ci aprono i palazzi e le cantine, contro di
noi avrebbero lanciato i loro contadini... (Sciascia, pp.
188-189).
La critica recente I
• «Tuttavia» —come suggerisce, e bene, Ricciarda Ricorda — «il fatto
che Sciascia affidi a un intellettuale del Nord una riflessione tanto
acuta e sicuramente tanto partecipata, da parte sua, sui caratteri dei
siciliani [...] pare significativo»: «al di là dell'affermazione dello
scrittore stesso di aver voluto costringere l'amato Nievo "a parole di
comprensione e d'amore" [...] sembra infatti che questa scelta segnali
la possibilità di un incontro, la capacità di un'apertura almeno sul
piano umano, che colorano di una sfumatura diversa la pur amara
lettura del processo di unificazione condotta dallo scrittore siciliano».
• R. Ricorda, Il quarantotto, in Gli zii di Sicilia (1958) di Leonardo
Sciascia, letto da, in Leggere l'unità d'Italia, a cura di A. Casellato e S.
Levis Sullam, Venezia-Università Ca' Foscari, Edizioni Ca' Foscari,
2011, p. 117.
La critica recente II
• Vero per certi versi – dico io - meno per altri, specie se si pensa al
racconto che Sciascia aggiungerà, come quarto e ultimo, alla
seconda edizione di Gli zii di Sicilia (1960) e al suo finale in
particolare. In effetti, nelle ultimissime battute di L'antimonio, l'ex
legionario siciliano, che ha perso una mano nella guerra civile
spagnola e che, rientrato, ha infine diritto a un posto di bidello
statale, cioè in quelle scuole medie e superiori che sono in città,
dice: «[...] è meglio in una città lontana: fuori della Sicilia, una città
che sia grande [...] Voglio vedere cose nuove».
• L. Sciascia, L'antimonio, in Gli zii di Sicilia, Torino, Einaudi, «I
coralli», 1960, II ed. Citiamo dall'ottava edizione dei «Nuovi Coralli»
del 1980 — la prima è del 1972 — e in particolare da p. 230.
Volere vedere cose nuove:
solo fuori o anche dentro la Sicilia?
• Quel «paese mai visto prima» che Castro pare al giovane protagonista del Quarantotto, quando ci ritorna con Garibaldi, è e sarà sempre lo stesso. Tuttavia, la volontà di vedere cose nuove è già, negli occhi abbagliati e nel cuore, quella del narratore interno protagonista dell'Antimonio. Ma questi ha capito che la sola possibilità di vederle per davvero, queste cose nuove, si situa «fuori della Sicilia». E questo perché solo quando il «corpo» degli affamatori ha «paura e impazienza» — come capita, proprio all'inizio della Zia d'America (Sciascia, p. 11), a quello di «podestà, arciprete e maresciallo», teso con ansia fra i tedeschi che non partono e fanno merenda e gli americani che non si decidono ad arrivare (anticipazione meravigliosa del continuo rinviare il viaggio in Sicilia della zia a stelle e strisce) — il corpo dei ragazzi, dei birichini, della meglio gioventù, può correre nella campagna del popolo, del «noi», e cogliere la poesia, cioè il cuore del paese e dei paesani siciliani: «Tutta la campagna era nostra, silenziosa e splendente» (S., p. 12).
• E come non ripensare, allora, al silenzio tenace ma laborioso dei «siciliani migliori» nelle parole stupende e cruciali di Nievo a Garibaldi — «credo nei siciliani che parlano poco, nei siciliani che non si agitano, nei siciliani che si rodono dentro e soffrono» — nelle quali sembra profilarsi una specie di scambio quasi osmotico, in cui il popolo migliore è quello che assume le essenziali, quasi
'essiccate' caratteristiche di quel singolo che abita la distanza dove è la vera prossimità etica, di quel singolo che prende su di sé la parte migliore della collettività, ovvero di quel «colonnello Carini sempre cosí silenzioso e lontano [...] ma ad ogni momento pronto all'azione [...] cuore stesso della speranza, la silenziosa fragile speranza dei siciliani migliori» (S. p. 189).
Bibliografia essenzialissima
Letteratura primaria:
- I. Nievo, Le Confessioni d’un italiano, Prefazione di Emilio Cecchi, Torino, Einaudi, «I millenni», 1964.
- L. Sciascia, Gli zii di Sicilia, Torino, Einaudi, «I gettoni», 1958 e Gli zii di Sicilia, Torino, Einaudi, «I coralli», 1960, II ed.
Letteratura secondaria:
- L. Curreri, Le farfalle di Madrid. L’antimonio, i narratori italiani e la guerra civile spagnola, Roma, Bulzoni, 2007
- L. Curreri, Misure del ritorno. Scrittori, critici e altri revenants, Milano, Greco&Greco, 2014. - L. Curreri, Solo sei parole per Sciascia. Zolfara, popolo, morale, corpo, leggerezza, saggio, Leonforte (Enna), Euno, 2015.
- A. Di Grado, L’ombra dell’eroe. Il mito di Garibaldi nel romanzo italiano, Acireale-Roma, Bonanno, 2010.
- R. Ricorda, Il quarantotto, in Gli zii di Sicilia (1958) di Leonardo Sciascia, letto da, in Leggere l'unità
d'Italia, a cura di A. Casellato e S. Levis Sullam, Venezia-Università Ca' Foscari, Edizioni Ca' Foscari,
2011.