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CLAUDIO GIUNTA, Su Dante lirico, in «Nuova Rivista di Letteratura Italiana», a. XIII 2010, pp. 19-31

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CLAUDIO GIUNTA, Su Dante lirico, Ivi, pp. 19-31

Nel seguente contributo, Su Dante lirico (pp. 19-31), l’A. CLAUDIO GIUNTA discute alcuni dei principi di metodo fatti propri per la realizzazione del suo commento alle Rime di Dante recentemente edito da Mondadori (Meridiani, 2011).

Benché fortemente formalizzata, la lirica medievale, che, come è noto, registra un «prevalere della tradizione sopra il talento individuale» (p. 20), pur nelle sue grandi personalità lascia cogliere nei suoi interstizi non in realtà marginali spazi di autonomia creativa: essa non sempre è soltanto «qualcosa che ‘si fa’» ma anche «qualcosa che ‘si sente’» (p. 19). Caposaldo di una critica che vuole proporsi di cogliere questa lirica nella verità della realtà in cui essa fu concepita resta, tuttavia, quello di evitare di incorrere nel pericolo di sovrapporre ad essa categorie critiche valide per una lirica, quella post-romantica, che muove in realtà da presupposti opposti, primo tra tutti quello della sincerità dell’Io lirico: «Ciò che vorrei ripetere […] è che bisogna usare cautela prima di riferire alla poesia premoderna, e medievale in ispecie, predicati che siamo soliti riferire alla poesia post-romantica: sincerità, soggettività, visione del mondo, poetica» (p. 21).

Grande cautela, dunque, nell’interrogare i testi medievali: in particolare, nel caso di Dante, l’adesione a questo principio implica, ad es., l’eliminazione delle speculazioni sull’identità storica delle donne che Dante avrebbe amato e «una certa diffidenza verso i discorsi sui modelli letterari, l’intertestualità, l’ansia dell’influenza e insomma verso tutte quelle tecniche che mirano a far parlare i testi di un autore sollecitando altri testi» (p. 22).

Per grandi autori come Dante, si diceva poco fa, non è lecito liquidare tutto come codice. E anzi, egli è autore rivoluzionario in grado di apportare, in virtù della sua straordinaria personalità, una grossa quantità di innovazioni e di elementi individuali, soggettivi, idiosincratici nell’oggettività del codice lirico medievale. Dante, in verità, non cessa di parlare di sé nelle sue opere: «In un universo letterario che tendeva all’oggettivazione Dante era moderno per questo: parlava di sé anche là dove, tradizionalmente, il parlare di sé non era fatto comune» (p. 24). Risulta altrettanto deleteria, dunque, la tendenza critica opposta, incline cioè a liquidare, come spesso è stato fatto, come non-danteschi fatti letterari che in realtà non trovano alcuna rispondenza nella tradizione: individuare e distinguere con precisione gli ambiti di riferimento alla tradizione e gli apporti innovativi risulta dunque una premessa ineludibile ad ogni buon commento delle Rime.

Anche per quanto riguarda l’analisi dei rapporti di Dante con la tradizione – per rilevare il cosiddetto ‘non dantesco’ – l’A. propone alcune importanti precisazioni: non tutto quanto è accettato da Dante nel proprio ‘vocabolario tradizionale’ è semplicemente riferibile genericamente ad un’indistinta tradizione. Diverse sono, infatti, le modalità con le quali tali apporti arrivano alla pagina dantesca, e pertanto diverso è il loro valore semantico. L’ A. propone, così, uno schema interpretativo del codice poetico dantesco, come la risultante di quanto ad esso arriva dal contatto con tre sottocodici: «il sottocodice di quelli che si possono chiamare, in sintesi, i generi letterari; quello dei cosiddetti ‘linguaggi speciali’ non letterari; e quello che con un termine della linguistica possiamo chiamare l’ Umgangssprache» (p. 25).

Il contributo si conclude con alcune riflessioni sul valore di alcune tendenze della critica contemporanea relativa all’opera dantesca, e ai risultati – molto e troppo spesso, secondo l’A., discutibili o deludenti – che esse hanno prodotto.

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