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La religione come professione e come vocazione.

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Academic year: 2021

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HAL Id: hal-01809746

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Submitted on 7 Jun 2018

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La religione come professione e come vocazione.

Guillaume Silhol

To cite this version:

Guillaume Silhol. La religione come professione e come vocazione. : Costruire competenze e legittimare

gli insegnanti di religione cattolica. Scuola democratica, Il Mulino, 2017. �hal-01809746�

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La religione come professione e come vocazione: costruire competenze e legittimare gli insegnanti di religione cattolica

di Guillaume Silhol

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Title: Religion as a Profession and as a Vocation: Constructing Competences and Legitimizing Catholic Religious Education Teachers

ABSTRACT: This article is based on a research on Catholic Religious Education teachers in Italian State schools and their careers, mainly through in-depth interviews and observations in Piedmont. The aim is to analyse how religious identity is intertwined with and evolves according to self-definition in professional terms and constraints to alternate between conformity to the religious institution and the role of a teacher. In the first typical phase of a career, ‘religious culture’ is constructed as an individual competence in conformity with specific means of institutional control. In the second typical phase, the Religious Education teacher tends to identify to the role of a colleague in a school, to downplay confessional discourse and to emphasise their own precariousness. This logic leads to an eventual third phase of reconversion, stressing the broader issue of costs and gratifications in reconverting one’s professional dispositions in religious terms as well as the opposite.

KEYWORDS: Religious Education, Career, Roles, Precariousness.

Introduzione

Nella letteratura sull’analfabetismo religioso dei giovani, l’insegnamento della religione cattolica (d’ora in poi IRC) viene spesso descritto con dei giudizi di valore, che gli attribuiscono una responsabilità causale nel cosiddetto problema pubblico (Naso, 2014).

Molti altri aspetti dell’IRC restano trascurati: poche sono le ricerche empiriche, distinte sia dai discorsi critici che dai discorsi istituzionali della Conferenza episcopale italiana (d’ora in poi CEI), sulla costruzione della categoria socioprofessionale degli insegnanti di religione cattolica, oggi, nella vasta maggioranza, dei laici cattolici. Questo articolo propone di analizzare l’investimento pratico di attori sociali nell’IRC, attraverso uno studio qualitativo delle fasi di definizioni di un’identità religiosa e dei modi di appartenenza all’istituzione cattolica e alla scuola degli insegnanti laici. Il concetto interazionista di carriera (Darmon, 2008), diverso dalla nozione manageriale, consente di concepire l’agire sociale in una serie tipica di status oggettivi, di posizioni, di ruoli, di responsabilità e di vicende. Questa serie tipica rende anche conto dei cambiamenti nelle percezioni che gli attori sociali hanno della loro situazione (Hughes, 2010: 144), in termini di vocazione o di esperienza sul campo (Béraud, 2007: 154-171). Le fasi della carriera nell’istituzione

1 Guillaume Silhol, Dipartimento di Scienza Politica, Sciences Po Aix-en-Provence, guillaume.silhol12@gmail.com

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religiosa condizionano i modi in cui i docenti, nei loro discorsi di docenti, giustificano la loro posizione rispetto al discorso ufficiale sul «servizio che la Chiesa rende alla scuola».

Senza negare la diversità delle traiettorie, l’analisi delle carriere nell’istituzione religiosa permette di reintrodurre sia delle determinanti sociali che delle biforcazioni legate alle temporalità della scuola, della chiesa e di altri campi dell’investimento individuale.

Di conseguenza, l’identità religiosa e i suoi rapporti con la ‘cultura religiosa’, costruita come competenza individuale e come giustificazione professionale, sono concepiti in termini dinamici rispetto alle pratiche professionali e all’investimento in due ruoli, quello di cattolico esemplare e quello di ‘collega’ nella scuola. La ricerca presentata si concentra sull’analisi dell’ingresso e del perseguimento nella carriera d’insegnante di religione, sulla base di un’indagine qualitativa svolta tra il 2013 e il 2017 per una tesi di dottorato in sociologia sulla costituzione socio-storica della categoria degli insegnanti di religione cattolica dagli anni ’70 a oggi. I materiali sono costituiti da 25 interviste approfondite, prevalentemente dei racconti di vita, con insegnanti ed ex-insegnanti di religione cattolica e da osservazioni sulla base di un campionamento ‘a valanga’, principalmente in Piemonte e secondariamente in Lazio come casi di controllo. Le osservazioni in classe e in altri contesti sono state realizzate con l’accordo verbale degli insegnanti in due scuole, di responsabili amministrativi e di organizzatori di formazioni. L’analisi non pretende di essere rappresentativa dell’Italia: mette in rilievo delle regolarità contestualizzate, delle sequenze tipiche e non univoche. Nel preambolo presenterò in breve le ricerche sugli insegnanti di religione cattolica. Le parti successive analizzano le tre fasi tipiche nell’investimento in una carriera di insegnante di religione cattolica: in primo luogo, il lavoro su di sé per accedere all’insegnamento; la ridefinizione come lavoratori precari della scuola; da ultimo, il mantenimento nell’IRC o una riconversione in altre figure professionali all’interno della scuola o in campo religioso.

1- La ricerca sugli insegnanti di religione cattolica

Oltre ai dati annuali sugli studenti che se ne avvalgono o meno, l’IRC è oggetto di

indagini ministeriali e interne alla Chiesa sugli insegnanti. Secondo l’ultima indagine

ministeriale disponibile, su un totale di 729313 insegnanti nelle scuole statali di ogni

ordine e grado nel 2009-2010, gli insegnanti di religione cattolica censiti erano 26326, fra

cui 12446 a tempo determinato e 13880 a tempo indeterminato: 6896 nelle scuole materne

e primarie e 6984 nelle scuole medie di primo e di secondo grado, mentre il Ministero

censiva 214 cessazioni di attività dei docenti di religione nel settembre 2009 nel Paese

(MIUR, 2010: VIII). Le indagini svolte dall’Osservatorio Socio-Religioso Triveneto (d’ora

in poi OSReT) dagli anni ’90, raccolte tramite dei questionari compilati nelle diocesi,

consentono di contestualizzare certe evoluzioni. Per quanto riguarda la composizione degli

insegnanti di religione cattolica, la percentuale cumulata di sacerdoti, religiosi e religiose,

al 36,6 % del totale di questi insegnanti nelle scuole secondarie di primo e secondo grado

nel 1993-1994, ne rappresentava solo il 10,1 % nel 2014-2015. Benché si tratti di dati

limitati alle scuole secondarie, essi sottolineano il peso preponderante che hanno le donne

laiche cattoliche nella categoria socioprofessionale nel Centro e nel Sud, dove superano i

tre quinti del totale. Inoltre, la percentuale degli insegnanti di religione cattolica con il

monte ore completo di 18 ore nelle scuole secondarie, che rappresentava meno di un terzo

nei primi anni ’90, supera il 70 % dal 2005-2006, nelle scuole secondarie di secondo grado

ma anche nel Centro e nel Sud. I dati relativi all’assegnazione delle cattedre in una o più

scuole evidenziano una tendenza in calo: dal 72,1% dei primi anni ’90, a quote attorno al

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60% dal 2006 a oggi. Infine, dopo l’attuazione della legge 186/2003 e l’unico concorso svolto finora a copertura del 70% dei posti, questi dati mostrano che ad avere lo statuto giuridico di insegnante di ruolo a tempo indeterminato sono oggi meno della metà degli interessati nelle scuole medie. Da un lato, per quanti le rilevazioni non tengano conto dell’anzianità dei docenti, o delle variazioni nelle relazioni tra lavoro precario e profilo sociale come l’età, il genere, lo statuto matrimoniale, eccetera, esse mettono in rilievo come simili caratteristiche si ritrovino nel corpo docente statale delle altre materie, tra cui la femminilizzazione (Battistella et al., 2015: 13-19). Da un altro lato, mostrano l’inserimento graduale delle ricomposizioni della divisione sociale del lavoro religioso, in particolare dei rapporti tra laici e sacerdoti, nell’organizzazione delle scuole.

Oltre alle ricerche dell’OSReT sull’apprendimento degli studenti (Castegnaro, 2009), quattro indagini nazionali interne sull’IRC, pubblicate nel 1991, 1996, 2005 e 2017, sono state realizzate dall’Università Salesiana su dei campioni di studenti e di insegnanti, e inizialmente anche di genitori e di ‘colleghi’. Per quanto riguarda gli insegnanti, emerge la tematica della loro ‘doppia identità’, pur in termini di vocazione e di servizio di formazione religiosa nelle motivazioni espresse nei questionari. Il disagio espresso da alcuni docenti nell’indagine del 1996 a proposito della ‘reciproca indifferenza’ tra scuola e diocesi scompare nel discorso di sintesi, in parte autoreferenziale, sul rafforzamento professionale e la soddisfazione espressa, che appiattisce delle differenze generazionali e la diversità delle traiettorie non raccoglibili nei questionari (Malizia e Pieroni, 2017: 133- 140). L’ultima ricerca, svolta con dei questionari distribuiti in 176 diocesi a 2279 insegnanti di scuole statali e paritarie, sottolinea alcune caratteristiche rilevanti come l’età media dei docenti più elevata dalla scuola media in poi, o una prevalenza della catechesi e del volontariato fra gli impegni ecclesiali nella maggioranza degli intervistati. La parte relativa alle motivazioni nella carriera, differenziate tra l’obiettivo della formazione religiosa, il tempo libero lasciato dal lavoro, la necessità di lavorare, l’interesse culturale e la vocazione, è però articolata in modo positivistico sulle dichiarazioni: l’indagine trascura gli effetti di autocensura, e tratta la precarietà solo come uno dei motivi che inducono a cambiare mestiere (Montagnini, 2017). Invece, le relazioni di potere, la legittimazione rispetto all’ora alternativa e all’uscita dalla scuola (Palmisano, 2009), e il mantenimento nell’IRC appaiono nelle poche monografie esterne dedicate allo studio di tale categoria socioprofessionale in Emilia-Romagna (Cappello e Maccelli, 1994) e a Caltanissetta (Canta, 1999). L’analisi delle carriere degli insegnanti di religione cattolica si inserisce nel campo di ricerca della sociologia generalista.

2- Entrare nella scuola attraverso la Chiesa

La questione dell’inserimento nella carriera di insegnante di religione cattolica, a

prescindere dagli stereotipi sulla ‘scorciatoia’ o il ‘ripiego’, può essere formulata in termini

di disposizioni, di relazioni interdipendenti e di condizioni d’ingresso. In questo modo, le

carriere sono legate al mantenimento di un processo centrale che l’analisi deve restituire

diversamente dal discorso dell’istituzione religiosa e dalle parole degli intervistati

(Darmon, 2008: 152-161), cioè la continuità dell’IRC come disciplina scolastica,

legittimata dai suoi operatori nelle scuole statali e controllata dalla Chiesa cattolica. Di

conseguenza, si tratta di mettere in rilievo le condizioni sociali e le motivazioni che fanno

sì che insegnare religione cattolica costituisca un’opzione credibile, gli effetti che tale

investimento sul lavoro ha sulla propria persona e sulla percezione della propria situazione

in quanto docente di religione.

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2.1. Partecipare alle ricomposizioni della divisione sociale del lavoro religioso

Il lungo processo di revisione del Concordato tra la Santa Sede e la Repubblica italiana, che sfocia nella definizione degli Accordi di Villa Madama del 18 febbraio 1984 firmati dal Presidente del Consiglio Bettino Craxi e dal cardinal Agostino Casaroli, nonché le intese di attuazione, tra cui le tre intese sull’IRC tra il Ministero dell’Istruzione e la CEI (1985, 1990, 2012), non si esaurisce in una riforma giuridica. Costituisce anche un

‘evento’, oggetto di narrazioni e di percezioni contradditorie, che interferisce con dei processi anteriori nella Chiesa e nelle scuole. Come altri settori delle istituzioni cattoliche italiane nel dopo-Vaticano II, l’IRC è oggetto di tentativi di ridefinizione pedagogica e professionale. Da un lato, le critiche formulate alla catechesi danno luogo ad una serie di documenti della CEI come Il rinnovamento della catechesi (1970), ad alcune teorizzazioni nel contesto delle riforme scolastiche, tra cui la rivista Religione e Scuola fondata nel 1972 e alle proposte degli storici Luciano Pazzaglia e Pietro Scoppola di istituire una materia di

‘cultura religiosa’ (Giorda e Saggioro, 2011:36-43; Pajer, 2017: 60-62). Da un altro lato, mentre i discorsi ufficiali delle istituzioni cattoliche puntano al mantenimento della

‘distinzione e complementarietà’ tra la catechesi svolta in parrocchia e l’insegnamento scolastico della religione, per insegnare nelle scuole secondarie di primo e secondo grado, e poi nelle scuole primarie, le diocesi cominciano ad assumere dei laici, in modo sostenuto ma non coordinato (Caimi, 2013: 239-248). Contemporaneamente, alcuni insegnanti di religione partecipano ai tentativi di riqualificazione dell’insegnamento della religione come disciplina di ‘cultura religiosa’ inserita nelle finalità della scuola, e si mobilitano per ottenere uno statuto giuridico più vicino a quello degli insegnanti di ruolo delle altre materie. Di conseguenza, il regime neo-concordatario e le nuove giustificazioni ufficiali all’IRC ormai non obbligatorio, cioè il riconoscimento del ‘valore della cultura religiosa’ e l’inclusione dei ‘principi del cattolicesimo [come facente] parte del patrimonio storico del popolo italiano’ (art. 9.2), contribuiscono a politicizzare la materia prima delle riforme ufficiali e dei cambiamenti formali di questo corpo docente (Butturini, 1987: 187-228).

La gradualità delle priorità istituzionali sull’IRC prima e dopo il 1984 emerge chiaramente nei racconti dell’inizio delle carriere individuali di docenti di religione cattolica entrati prima della revisione del Concordato. Nel contesto piemontese e torinese, l’impegno parrocchiale e sociale verso gli operai, appoggiato dalla diocesi soprattutto durante i mandati di Michele Pellegrino (1965-1978) e di Anastasio Ballestrero (1978- 1989), si traduce anche nell’offrire degli incentivi di formazione (Bolgiani et ali, 1988: 41- 52). Le strutture parrocchiali costituiscono un luogo di socializzazione religiosa e di acquisizione di competenze nel contesto post-conciliare, in una regione segnata sia dalla militanza laica che dal cattolicesimo sociale e dall’associazionismo (Diotallevi, 1999). Le relazioni intrattenute in parrocchia e il volontariato degli animatori contribuiscono a rendere credibile un lavoro spesso percepito come temporario. Il caso di Vittoria

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, che insegna religione cattolica dal 1977 e lavora in un solo istituto tecnico dalla metà degli anni ’80, immessa in ruolo negli anni 2000, corrisponde a questo tipo di inserimento della prima generazione. Nata in una famiglia meridionale operaia, immigrata in provincia di Torino per il lavoro del padre nella FIAT, dopo la maturità al liceo linguistico, Vittoria si iscrive alla facoltà di medicina e nel contempo comincia a lavorare a tempo parziale come interprete. Nello stesso periodo, inseritasi nell’ambiente parrocchiale con un gruppo di amici, segue dei corsi serali di scienze religiose per cinque anni. Nell’intervista, Vittoria

2 Tutti i nomi di insegnanti ancora in posto sono fittizi.

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racconta il suo investimento nell’IRC come un’opportunità nata dal fatto di essere stata sollecitata dall’istituzione, nel corso dei suoi studi e del suo impegno matrimoniale: «Mi sono sposata e non ho mai finito medicina perché, appunto, ho cominciato a insegnare.

[…] Venendo a scarseggiare comunque le vocazioni, c’erano tanti posti vacanti nelle scuole. E allora hanno cominciato a introdurre i laici che avevano comunque le competenze per insegnare. E ho cominciato a insegnare, ho subito ottenuto l’incarico a tempo determinato (Vittoria, aprile 2013).» È significativo come l’acquisizione di competenze umanistiche e il loro reinvestimento nell’insegnamento contribuiscano a formulare una critica dell’evento concordatario. Nel suo caso, la partecipazione a un coordinamento degli insegnanti di religione legati alla sezione locale del SISM-CISL negli anni ’80 con il marito, anche lui docente di religione, è menzionata quando Vittoria giudica la normativa poco gratificante.

[Nel coordinamento avevamo chiesto] che non fosse soltanto l’insegnamento della religione cattolica, ma che fosse un insegnamento di storia delle religioni. E che diventasse una materia curriculare, da un’ora passasse a due ore, con un voto e appunto, l’esame. Una materia come tutte le altre. E perché storia delle religioni? Perché già negli anni Ottanta, comunque, il fenomeno dell’immigrazione cominciava così a già delinearsi, cominciavano ad arrivare i primi stranieri, i primi immigrati, e poi perché si stava assistendo comunque a un processo di scristianizzazione, cioè la difficoltà, comunque, a credere, ad essere cristiani. Però, la storia della religione, sarebbe stata così una risposta un po’ al cambiamento di oggi (Vittoria, aprile 2013).

Anche il caso di un altro insegnante che interpreta invece il suo percorso sin dall’inizio in termini di vocazione, illustra l’intreccio tra temporalità istituzionale e carriera individuale. Nato in una famiglia di classe popolare torinese, alla fine degli anni ’70, Federico segue una formazione di perito elettrotecnico e partecipa come animatore in parrocchia. Il suo orientarsi verso l’IRC lo descrive come un consiglio prodigatogli dal suo prete insegnante di religione, che lo spinge a fare delle supplenze nell’attesa di un lavoro.

Si iscrive alla Scuola superiore di cultura religiosa, istituita negli anni ’60 dall’Ufficio catechistico della diocesi, e comincia ad insegnare nell’82 come supplente nelle scuole medie, prima di ottenere un posto in un liceo fino all’immissione in ruolo. Benché nel corso dell’intervista i motivi della scelta di coscienza e dell’adesione al magistero della Chiesa siano ricorrenti, Federico descrive il lavoro effettuato per ottenere i titoli richiesti in un istituto di scienze religiose dopo la revisione del Concordato come un lavoro su di sé, diverso dall’acquisizione graduale di competenze d’insegnante sul campo. La descrizione del proprio percorso di studi della durata di nove anni gli permette di rivendicare una professionalità contro l’accusa di «spacciare il catechismo»: «Penso che uno laureato, adesso magari no, ma negli anni ’80 in lettere e filosofia, quattro anni ed era fuori. Io, no.

[…] Però, arrivare a 60 esami, contro i 19 esami di un tempo, c’è una bella differenza, in una facoltà, quindi… Però, queste cose, appunto, c’è chi non le vuole sentire, e quindi, forse snobbarlo, questo tipo di preparazione (Federico, marzo 2017).»

2.2. Mobilitare l’identità religiosa come una competenza

Se il reclutamento e la formazione specializzata degli insegnanti di religione, resa

obbligatoria dopo il 1986, favoriscono inizialmente la selezione crescente di laici cattolici

già impegnati localmente in parrocchia o studenti in scienze religiose (Cappello e Maccelli

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1994: 235-237; Canta, 1999: 68-92), negli anni ’90 e 2000 le pratiche degli uffici diocesani sono incentivate dalla CEI nel senso del rafforzamento del controllo all’ingresso: «Si [tratta ancora] di promuovere una figura di docente di religione professionalmente sempre più qualificato, riconosciuto nei suoi diritti e doveri alla pari degli altri docenti, inserito nella comunità cristiana e ad essa strettamente unito da vincoli di comunione e di testimonianza» (Ruini, 1995: 32). In questo senso, per iscriversi in un istituto di scienze religiose e per riconfermare l’idoneità all’IRC da parte dell’ordinario diocesano, le diocesi adottano varie procedure amministrative come le lettere di raccomandazione del parroco.

Lo stesso avviene anche nella gestione delle graduatorie interne e dei percorsi in parecchie scuole prima dell’accorpamento delle ore. Alcune grandi diocesi organizzano addirittura un concorso specifico per conferire l’idoneità, e instaurano dei meccanismi di prova dei nuovi insegnanti tramite un tutor. Questi dispositivi contribuiscono a formalizzare sempre di più l’ingresso nella carriera come prova dell’investimento in un ruolo di cattolico esemplare, in un periodo in cui le istituzioni cattoliche percepiscono una tendenza all’indebolimento della socializzazione parrocchiale in contesto di secolarizzazione giovanile (Garelli, 2016). La logica del trasferimento di competenze e di un capitale di cultura religiosa acquisito in altri ambiti resta perciò determinante nel percorso che porta all’IRC, con una limitazione delle forme di autonomizzazione tramite la dipendenza alle strutture ecclesiali. L’ingresso nella carriera di insegnante di religione cattolica di Marco, docente incaricato annuale dopo 18 anni di esperienza professionale come educatore specializzato, illustra alcuni aspetti di questa riconfigurazione. Marco, mentre lavora con dei giovani in una comunità in un’altra regione, comincia a seguire dei corsi di scienze religiose, inizialmente non finalizzati all’insegnamento. Dopo un’esperienza di burnout che lo porta a disimpegnarsi sul piano lavorativo, segue il consiglio di alcuni amici e presenta la sua candidatura per l’IRC. Per quanto considera faticoso il suo debutto in tre scuole, non esprime critiche nei confronti di questa o quell’altra istituzione, ritiene l’ufficio diocesano comprensivo della sua situazione e ammette di essersi formato all’insegnamento soprattutto sul campo. Nel suo liceo linguistico, con un pubblico preponderante di studentesse provenienti dalle classi popolari e medie, Marco, in quanto docente di una materia atipica, considera che la testimonianza della fede sia fondamentale per svolgere bene il suo lavoro e per ‘agganciare’ gli studenti.

Credo che sia qui proprio la forza, almeno, all’interno della nostra scuola, degli insegnanti di religione. L’essere propositivi e visti con i valori, con l’attenzione alla persona che è, che viene da un bagaglio umano, e culturale, religioso, che ci portiamo dentro. Anche perché, poi, i ragazzi e le ragazze, magari, a differenza di altre materie, ci valutano (Marco, settembre 2016).

L’investimento in un ruolo di cattolico esemplare emerge anche nelle sue lezioni, quando si tratta di formulare in toni esistenzialisti una lezione sulla preghiera cristiana che precede Pasqua. Marco spiega a una ventina di studenti di quarta, ‘agitati’ dopo un compito di matematica, che la preghiera richiede un impegno personale.

[Marco] dice che ha ricevuto un messaggio con un invito a girare una preghiera su un gruppo Whatsapp di preghiera di cui fa parte, per un bambino malato. L’ha cancellato, ma chiede agli studenti cosa avrebbero fatto al suo posto. Una studentessa risponde che se il bambino ha una malattia grave, è inutile, non si può fare niente con la preghiera.

Un’altra studentessa nota che sono solo dei quarantenni e cinquantenni che girano

questo tipo di messaggi, o dei matti. Lui reagisce con ironia dicendo che potrebbe

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perdere il lavoro se venisse mal interpretato, e che si mette in gioco per fare capire la lezione: «Se io dico che la preghiera è inutile, qualcuno reagirà? Ma posso anche dirmi che se Dio dà solo a chi prega, che tipo di Dio è?» (Nota etnografica, aprile 2017).

In questo senso, nel caso di Marco come in altri casi di docenti intervistati nella prima fase della carriera, l’identità religiosa del docente è rimodellata dall’investimento nell’istituzione, mentre l’appartenenza al mondo scolastico è poco verbalizzata. Nel passaggio alla seconda fase della carriera nell’istituzione, la capacità a ricomporre la definizione della propria situazione è determinata dall’identificazione attiva alle sorti della scuola, dall’acquisizione dei codici e delle categorie di giudizio professorale degli insegnanti delle altre materie.

3- Diventare al contempo stabilizzati e precari

Dopo la fase iniziale della carriera, ci si trova di fronte a un paradosso che non si riduce alla maggiore facilità degli insegnanti di religione ‘stabilizzati’ ad esprimere i propri motivi in intervista. Questo paradosso può essere interpretato in termini di rappresentazioni in conflitto della categoria socioprofessionale, a seconda dell’investimento dei ruoli sociali da parte degli insegnanti. Mentre l’istituzione religiosa li definisce ‘stabilizzati’ anche se non sono di ruolo, dopo quattro anni di anzianità e in base all’accorpamento delle 18 ore su una o due scuole, nella terminologia interna ufficiale (Cicatelli, 2012: 67-71), le configurazioni locali nelle scuole condizionano spesso un’autodefinizione, opposta a quella dell’istituzione, come degli insegnanti precari. Le logiche della gestione differenziata delle carriere nell’IRC portano a dei compromessi pratici tra i principi vigenti nelle scuole di trasparenza e oggettività nel merito (graduatoria, anzianità …) e la conservazione simbolica della divisione del lavoro religioso basata sui ruoli tradizionali tra laici, seminaristi, religiosi e preti. Rispetto alla gradualità del controllo istituzionale, il passaggio alla seconda fase si produce grazie alla riconversione nell’insegnamento di altre disposizioni, per esempio l’impegno sindacale, associativo o in un movimento ecclesiale, ma anche nella composizione pratica per rinvestirsi nei ruoli contradditori di ‘specialisti’, di ‘confidenti’ e di ‘colleghi’ nel collettivo della scuola (Goffman, 1969: 178-192).

3.1. Identificarsi alle pratiche della scuola

Nell’ambito del lavoro d’insenante, i legami con la diocesi si riconfigurano una volta

ottenuto che le ore di servizio vengano effettuato in un minor numero di scuole. Secondo la

determinazione istituzionale dei ‘bisogni’ di insegnanti in base al numero di classi

comunicato dalle scuole alle diocesi, la posizione nella seconda fase della carriera permette

agli insegnanti di religione una maggiore capacità di autodefinizione. Nella diocesi di

Torino, nella fase ‘stabilizzata’ gli obblighi durante l’anno scolastico consistono nella

presenza a un’assemblea generale iniziale e a un numero di formazioni di aggiornamento,

nonché ad un colloquio personale di bilancio con il responsabile dell’Ufficio Scuola

diocesano. L’assemblea generale il secondo sabato di settembre 2016 offre per esempio

l’opportunità di presentare il nuovo responsabile dell’Ufficio, che introduce la seduta con

una preghiera, prima di parlare della sua esperienza di sacerdote ed educatore. Dopo la

presentazione dell’offerta di formazione da parte degli esponenti locali delle associazioni

cattoliche presenti nella scuola, il vicedirettore, anche lui sacerdote diocesano, descrive in

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termini pastorali l’importanza della ‘giusta’ testimonianza di fede. Secondo lui, «l’idoneità è il documento che attesta la comunione ecclesiale, oltre che i titoli accademici e la professionalità. […] Un conto è il proselitismo, che è sbagliato. Un conto è la testimonianza, che è bella (Nota etnografica, settembre 2016).»

Osservando il resto dell’assemblea generale, si nota come i rappresentanti della curia diocesana intervengano più sul registro dell’esemplarità nella testimonianza dei docenti, che nel senso del controllo oltre al rilascio degli attestati di presenza. Nelle interviste svolte con degli insegnanti prima e dopo l’evento, parlando di formazione, la tematica delle

‘buone pratiche’ (studenti disabili, lotta al bullismo…) prevale sugli aspetti esplicitamente religiosi, come l’organizzazione di ritiri. Durante questa fase, sempre a partire dalla propria socializzazione anteriore e dalla capacità di passare dal ruolo di ‘collega’ a quello di cattolico e viceversa, l’insegnante in pratica può passare dalla licenza istituzionale dell’IRC a un ‘mandato’ che si traduce nella pretesa ad una solidarietà professionale e alla formulazione delle finalità del lavoro (Hughes, 2010: 230-236), di ‘alfabetizzare’ gli studenti e di trasmettere loro una ‘cultura religiosa’ definita come non confessionale. Nelle interviste con degli insegnanti di liceo in particolare, questo motivo è spesso legato alla critica della concorrenza fatta all’IRC dalla possibilità di uscire dalla scuola, e al giudizio espresso sugli allievi non-avvalentisi in termini di alterità religiosa, diversamente ricevuta rispetto all’identità cattolica espressa, o in termini di mancanza di serietà per chi

‘dovrebbe’ avvalersene. Federico, già citato, descrive in questo modo la difesa dell’IRC e l’identificazione al ruolo d’insegnante.

[Oggi] gli studenti sono molto più smaliziati, nel senso che guardano a che cosa conviene a loro, non hanno questi legami con un passato, una tradizione. Anche i genitori, alcuni li seguono molto meno, lavorano, quindi, non hanno questo tempo per badare la formazione del figlio. Lo dico perché, quando vengono a parlare, durante i colloqui, alcuni mi dicono: «Ah, mi dispiace, Professore. Sa, mio figlio, mia figlia, ha deciso di non farla.» E io dico: «Ma perché a casa sua, decide suo figlio, che cosa è meglio per lui, la sua?» «Eh, no, capisco, ma sa…» E allora lì, io capisco che il genitore non ha più neanche l’autorevolezza. […] Altre volte, trovi anche i genitori più politicizzati, già loro atei, e magari anche, come dire? Ostili all’insegnamento (Federico, marzo 2017).

Prosegue la discussione sulla ‘scelta’, descrivendo l’alterità religiosa o non-religiosa nel senso della giustificazione dell’IRC come un arricchimento, secondo un pluralismo tollerato che non rimette in questione però l’autorità pedagogica (Frisina 2011).

Il punto non è vedere quale religione vale di più, e quale deve prevalere perché vivi in un territorio. Quindi, siamo in Italia, deve prevalere il cristianesimo... No, il punto è riuscire a dialogare. […] E questo, però, se vale tra religioni, vale anche tra culture. Tu sei ateo, bene. Magari ci possiamo confrontare: cosa ti fa essere ateo? Che cosa ti manca? E come vedi, non so, la tua vita in una prospettiva di non-continuità? E io ti parlo della mia esperienza, del perché sono credente. […] Questa idea che: «Ah, io non sono credente!» … E allora? Io ho avuto studenti musulmani, sono rimasti musulmani, ma hanno fatto questa materia e ci siamo, credo, arricchiti a vicenda. Uno mi ha regalato un Corano (Federico, marzo 2017).

Questo investimento nel ruolo di ‘collega’ si manifesta inoltre nella ricomposizione di

alcuni aspetti del lavoro, una volta ‘stabilizzato’ e inserito nella divisione sociale del lavoro

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educativo presso l’amministrazione della scuola ed il collegio docenti. Il caso di Chiara, insegnante di religione cattolica in un liceo delle scienze umane, illustra questo aspetto.

Negli anni ’90, Chiara consegue una laurea in lettere, con una specialistica in storia della Chiesa, e prepara un progetto professionale per insegnare storia. Nel contempo si sposa e ha due figli. Consigliata da un amico prete, intraprende degli studi in scienze religiose, inizialmente come una ‘seconda scelta’ nell’insegnamento, e viene chiamata ad effettuare delle supplenze nelle scuole medie per tre anni, prima di ottenere un incarico annuale in un istituto professionale con alcune ore residue nei licei statali. Dopo otto anni, ottiene una cattedra completa nel suo liceo attuale, e, pur avendo conseguito la formazione nella scuola di specializzazione all'insegnamento secondario, supera il concorso e diventa docente di religione di ruolo nel 2007. Le sue pratiche di lezione frontale e il suo impegno nell’organizzare dei lavori di gruppi di studenti sulla Giornata della Memoria, con due insegnanti di lettere e di storia, le permettono di utilizzare le competenze acquisite nella socializzazione religiosa ma soprattutto nei suoi studi. Quando viene evocata l’esperienza professionale, la considerazione goduta presso gli altri insegnanti torna come un motivo di gratificazione incerta: «La stima dei colleghi, te la devi conquistare sul campo. Sono arrivata dopo un prete molto stimato da tutti. Prende anni spesso. […] Poi, ad ogni collegio dei docenti ci sarà qualche sguardo di sospetto, qualche collega della vecchia moda (Chiara, settembre 2016).»

3.2. Dirsi precari

Se non vogliamo entrare nel merito della storia del precariato nella scuola italiana (Gremigni, 2013), è necessario allontanarsi da una concezione oggettivistica dell’essere precari per interpretare come, nella seconda fase, degli insegnanti di religione si definiscano ‘precari’. Tale autodefinizione risponde alle critiche provenienti dai ‘colleghi’

sulla differenza di salario tra supplenti e incaricati di religione. La riqualificazione nel ruolo d’insegnante contiene, però, anche una critica della definizione dei rapporti di lavoro con l’istituzione religiosa in termini non-economici (Bourdieu, 1994: 200-209) e della differenziazione percepita come arbitraria, in presenza di graduatorie interne, delle retribuzioni da parte della diocesi (Canta, 1999: 95-111). Il caso di Beatrice, insegnante di religione cattolica nella scuola primaria, evidenzia questo aspetto nel passaggio dalla prima alla seconda fase tipica della carriera. Nata in una famiglia operaia lucana immigrata in Piemonte, Beatrice consegue dopo la maturità classica una laurea in scienze politiche.

Dopo la riforma Berlinguer, deve rinunciare a presentarsi nelle classi di concorso dell’insegnamento statale. Per parecchi anni lavora come giornalista, ma lo statuto di madre di famiglia e certi atteggiamenti di ‘colleghi’ al limite del mobbing la spingono ad abbandonare questa attività. Impegnata come catechista nella sua parrocchia in una città di periferia, intraprende degli studi in scienze religiose, consegue un diploma magistrale e poi una laurea. Nel periodo che corrisponde alla prima intervista, finisce il suo quinto anno d’insegnamento, e svolge le sue 18 ore su cinque scuole: la sua descrizione dell’appartenenza all’istituzione religiosa traduce il suo adeguarsi al ruolo di cattolica esemplare.

Noi insegnanti di religione siamo lì, in trincea, i primi che si vengono presi la mattina,

se il Papa fa qualcosa. Qualunque cosa che faccia il Papa, il primo a chi lo dicono, sei

tu! E allora, c’è questo problema dell’appartenenza, ma anche del potersi tenere un

diritto di critica. […] Se fai una critica, la fai sempre con questo spirito di appartenenza.

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Altrimenti, non funziona starne fuori quando non va bene, starne dentro quando è comodo. Cioè, lavorare come insegnante di religione, prendere lo stipendio, però puoi criticare il Papa su tutto come se… No. Non va bene (Beatrice, aprile 2013).

Dopo essersi laureata in scienze religiose, riprende degli studi in scienze della formazione in vista di un concorso per insegnare come maestra elementare, pur proseguendo il suo impegno parrocchiale. Al momento della seconda intervista, descrive il suo lavoro in due scuole, la collaborazione soddisfacente con la seconda insegnante di religione in una scuola, e un conflitto latente con la ‘collega’ di religione di ruolo nell’altra scuola. Si definisce precaria, distinguendo «due liste di precari, quelli statali e quelli di religione», criticando sia un’ex-preside «assolutamente laica» e ostile, che giudica la presenza dell’IRC illegittima, sia la gestione del personale dall’ufficio diocesano. In particolare, si ritiene delusa che la sua laurea non sia presa in conto nella graduatoria. In questo modo, la ‘stabilizzazione’ consente a Beatrice di ridefinirsi come una lavoratrice competente in ‘cultura religiosa’, ma non retribuita come dovrebbe esserlo.

[Non faccio] quello che è un atteggiamento diffuso, tra i miei colleghi. […] L’ora dello svago, del riposo e della tranquillità. Riposiamoci, non facciamo niente, così riempiamo una scheda… In Italia molti pensano di essere competenti in fatto di religione. Molti. E i genitori della scuola, i genitori dei bambini, anche. Perché pensano che bastino, insomma, le lezioni di catechismo. Ma non si rendono conto che l’ora di religione fa un altro tipo di lavoro. Un lavoro culturale, un lavoro di conoscenza, un lavoro di ampliamento, un lavoro di rapporto con il trascendente, non solo il Dio cattolico, per quanto mi riguarda, quindi apriamo un po’, specie l’ultimo anno che si fanno tutte le religioni in quinta (Beatrice, maggio 2016).

L’interiorizzazione del giudizio sulle pratiche di ‘bravi’ o ‘cattivi’ insegnanti, così come la stigmatizzazione del fare ‘l’animatore’, assente nella prima fase della carriera, emerge quando gli intervistati descrivono il loro lavoro. Una tale percezione della propria situazione sfocia sulla questione delle gratificazioni e dei costi nell’investimento e nel disimpegno dall’IRC, diventando più esplicita in una terza fase della carriera.

Conclusioni: mantenersi o meno nell’ora di religione

Senza riprodurre un discorso teleologico verso l’immissione in ruolo, implicito in

qualche intervista, si può descrivere una terza fase tipica, reale per alcuni insegnanti e

virtuale per altri, che consiste nei tentativi di cambiare il proprio posizionarsi e le pratiche

lavorative per uscire dallo statuto ‘precario’. Alla differenza delle fasi precedenti, questo

passaggio può favorire un rapporto apertamente strumentale alla ‘cultura religiosa’, alle

competenze e al capitale di relazioni nella scuola e nella Chiesa, in vista di una

riconversione professionale e/o religiosa. In una prima sotto-categoria di questo tipo, si

tratta di ottenere una posizione più gratificante nell’istituzione religiosa, impegnandosi su

altre funzioni, in particolare nella scuola come vicario o nei sindacati. L’immissione in

ruolo di una quota di insegnanti di religione cattolica, vicina al 70 % legale nel 2006-2007,

ha costituito in molti casi il punto di transizione, differenziato nelle generazioni di docenti

in ragione dei quattro anni di anzianità richiesti per i candidati all’unico concorso svolto

finora. Parecchi insegnanti di religione di ruolo intervistati descrivono il ruolo come un

riconoscimento tardivo, «la fine del precariato» (Vittoria, aprile 2013) o una «tranquillità

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amministrativa» (Chiara, settembre 2016). Questa eventualità influisce però anche sulle percezioni e sulle richieste di alcuni insegnanti di religione, tra cui degli incaricati annuali vincitori del concorso rimasti nelle graduatorie diocesane non esauribili. Una seconda sotto-categoria è costituita dalla riconversione delle competenze in termini professionali:

insegnare un’altra materia dopo un concorso, senza potersi fare riconoscere gli anni di servizio nell’IRC, oppure in un altro settore d’attività. Questa situazione tipica include anche le riconversioni legittimabili nell’ordine simbolico della Chiesa, nel volontariato, nelle scuole cattoliche o nella consulenza in materia scolastica, come nel caso di Sergio Cicatelli, esperto, dirigente scolastico ed ex-docente di religione del vicariato di Roma negli anni ’80. Un’altra sotto-categoria della terza fase tipica include forme conflittuali di exit e di sanzioni, che evidenziano il permanere dell’eteronomia (Cappello e Maccelli, 1994: 243) e di relazioni diverse tra il proprio credo personale e l’appartenenza all’istituzione diocesana. Se la sospensione dall’incarico annuale è un meccanismo di sanzione poco costoso, invece, la revoca dell’idoneità all’IRC, unico modo di licenziamento dopo l’immissione in ruolo, dà luogo a una procedura più lunga nella quale l’istituzione accerta la non-conformità ai ruoli prescritti, secondo i motivi ufficiali della

‘retta dottrina’, ‘dell’abilità pedagogica’ e della ‘testimonianza di vita’ (canone 804 del Codice di diritto canonico). Descritta in qualche caso pubblicizzato e nei pamphlet come una negazione dell’identità professionale o dell’ortodossia personale (Nadali, 2015), la procedura resta un caso-limite di sanzione nello svolgimento della carriera all’interno dell’istituzione. A prescindere da ogni giudizio normativo o in termini di ‘autenticità’, la ricerca mostra che le relazioni tra l’autodefinizione professionale, l’identità religiosa e le posizioni occupate non si riducono alla vocazione disinteressata o a dei motivi economici.

Queste relazioni evolvono, coinvolgendo la socializzazione anteriore come il lavoro su di sé. L’IRC e i suoi insegnanti costituiscono dunque un punto d’osservazione delle ricomposizioni del cattolicesimo e del governo della trasmissione religiosa (Turina, 2013:

65-74), nonché della costruzione sociale delle categorie dell’identità e dell’alterità nelle scuole.

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