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L’analisi dei singoli termini ha dimostrato la tesi sostenuta inizialmente secondo la quale gli articoli del Sole 24 Ore sarebbero più infarciti di anglicismi e talvolta di più difficile comprensione rispetto alle pubblicazioni ufficiali della Banca d’Italia e a quelle della Banca centrale europea nella loro versione italiana. Di seguito sono riassunte le tendenze generali emerse.

Tutti gli anglicismi analizzati, eccezion fatta per subprime, sono prestiti di lusso dal momento che coesistono con uno o più termini endogeni dal significato corrispondente. La ricerca ha confermato, per ogni termine passato in disamina, l’abbondante uso dei prestiti inglesi nel Sole 24 Ore e la predilezione per i corrispettivi italiani nelle pubblicazioni della Banca d’Italia e nelle traduzioni della BCE. Più precisamente, nel quotidiano tutti i prestiti non adattati, esclusi bailout e austerity, presentano un grado d’uso nettamente superiore a quello dei termini endogeni mentre nelle pubblicazioni ufficiali il primato spetta pressoché sempre all’italiano, con l’eccezione di rating per le traduzioni della BCE e di subprime per la totalità delle pubblicazioni ufficiali.

Le osservazioni e gli esempi fatti nel quadro della presente analisi linguistica corroborano quanto sostenuto nella sezione teorica riguardo ai motivi alla base dell’abuso di anglicismi nella stampa. Innanzitutto esso è riconducibile al prestigio della nazione nella quale questi termini nascono. Si tratta nel presente caso degli Stati Uniti che mantengono il loro primato in ambito economico-finanziario, e quindi a livello terminologico, anche in periodi di dissesto.

Lo conferma il fatto che pure la crisi economica e finanziaria sia stata un focolaio di

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diffusione per numerosi termini anglosassoni il cui uso, prima molto limitato, è andato aumentando con il peggiorare della situazione (v. spread, credit crunch, bailout, default).

L’aura di prestigio che circonda i prestiti concorre a nobilitarli e a posizionarli un gradino sopra i loro corrispettivi italiani. Questa superiorità percepita da chi legge e da chi scrive si traduce anche in una maggiore tecnicità, di fatto, però, solo apparente giacché gli equivalenti autoctoni non sono meno specialistici. A rendere i prestiti non adattati più tecnici sono principalmente due fattori. Da una parte vi è la sensazione che un termine settoriale per essere tale debba essere per forza ermetico, ostico e differire totalmente dalla lingua comune.

Dall’altra il fatto che spesso i tecnicismi endogeni, o in caso di polirematiche o perifrasi una delle unità lessicali, siano polisemici fa sembrare il termine meno tecnico agli occhi del parlante medio. Infatti, la presenza di significati più comuni accanto a quello specialistico li rende apparentemente più trasparenti e immediati anche per il semplice amatore. Non va tuttavia dimenticato che un tecnicismo non è per definizione difficile da comprendere e nulla esclude che anche un termine il cui senso è in parte deducibile dal suo significato di base sia settoriale. Parallelamente la monosemia dei prestiti inglesi conferisce loro una maggiore esclusività settoriale.

L’esoticità dei termini, infine, permette di sollevare anche il testo dal punto di vista espressivo, discostandolo dalla “banalità” di lessemi sentiti e risentiti. Lo stesso fascino del nuovo che si attribuisce alle cose materiali sembrerebbe valere anche per l’uso delle parole.

Ciò a cui si è assistito è esattamente quanto viene riassunto nel passaggio seguente:

“Nel passaggio da un contesto scientifico a un contesto divulgativo […] la riconoscibilità/percettibilità del termine come tecnicismo scientifico, garantita dalla “cornice”

strutturante, aumenta in funzione inversa alla sua trasparenza semantica. Il termine perde carica informativa e acquista carica connotativa e prestigio; contemporaneamente, la carica informativa si sposta dal termine alla glossa. (Gualdo 2007b: 49)

Come abbiamo potuto osservare per tutti i termini, la glossa esplicativa è però rara negli articoli del Sole 24 Ore nei quali si tende a dare per scontato il significato degli anglicismi in questione. È vero che il quotidiano si rivolge principalmente a un pubblico di esperti ma, come premesso, il lettore del Sole 24 Ore è anche la persona comune, priva di solide nozioni economico-finanziarie. Mancanza di spiegazioni e abuso di anglicismi costituiscono un mix che rischia spesso di sfociare in una comprensione nebulosa o persino assente. A ciò si affianca la tendenza a dare per scontato il significato di un termine non appena questo subisce un’inflazione nell’uso. Averne sentito parlare e comprenderlo sono però due cose diverse e a

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dimostrarlo è anche il fatto che, per diversi lessemi, a presentare delle incertezze sul significato preciso siano persino gli estensori (v. spread, default, subprime). Tale ignoranza porta a un annebbiamento dei confini concettuali del termine e di conseguenza alla generalizzazione o a un uso improprio dello stesso, rendendo l’informazione confusa.

Prestigio e tecnicità concorrono a caricare il termine sotto il profilo connotativo e a farsi portatori di significati e messaggi impliciti mirati a colpire il lettore. Non è un caso, infatti, che si ricorra meno all’inglese laddove l’italiano è di per sé già abbastanza espressivo (v. salvataggio, austerità).

Il quarto fattore a favore della scelta di termini d’oltreoceano riguarda il loro piano morfologico. Tutti i termini analizzati, ad accezione di austerity, sono più brevi e concisi rispetto ai corrispettivi italiani. Il loro impiego permette spesso di evitare un giro di parole complesso e di ottenere al contempo un effetto stilistico molto più marcato. Talvolta a questa caratteristica se ne aggiunge un’altra: l’iconocità fonologica del termine alloglotto (v. credit crunch, spread). Gli equivalenti italiani sono perlopiù neutri da questo punto di vista e un suono accattivante rende il lessema più immediato e facilmente impregnabile nella mente del lettore.

Infine, la maggiore estraneità e lontananza dalle convenzioni linguistiche della lingua italiana dei prestiti li rendono da una parte più atti ad adattarsi alla creatività linguistica e dall’altra più duttili dal punto di vista del significato (v. spread).

Il comune denominatore dei motivi appena elencati è quella funzione comunicativa tipica della stampa che coesiste con quella informativa: attirare l’attenzione del lettore per essere letto, essere letto per vendere.

A differenza del quotidiano, nelle pubblicazioni ufficiali gli anglicismi sono in palese minoranza. Si osserva infatti una maggiore regolamentazione e attenzione nell’uso della lingua e una netta propensione all’uso di termini endogeni; ciò in parte anche grazie alla presenza di un manuale redazionale che guida nella scelta dei termini. Gli unici anglicismi molto usati sono rating e subprime. Non si tratta di un dato casuale: il primo è infatti un termine penetrato da tempo nella lingua e che si è ormai affermato nell’uso specialistico, mentre il secondo è privo di un corrispettivo italiano. Se i quotidiani rappresentano la porta d’accesso per qualsiasi anglicismo, le pubblicazioni e traduzioni della Banca d’Italia potrebbero essere viste come il punto d’arrivo di quelli che, dopo un percorso di affermazione nella lingua più o meno lungo, riescono a entrare stabilmente nell’uso.

Dall’analisi non è emersa alcuna differenza degna di nota tra le scelte terminologiche degli estensori delle pubblicazioni della Banca d’Italia e quelle dei traduttori delle pubblicazioni

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della BCE. Tale omogeneità è principalmente ascrivibile al fatto che al processo traduttivo segua un’importante fase di revisione, effettuata da esperti economisti della Banca d’Italia, ognuno responsabile per le sezioni relative al proprio ambito di specializzazione, e una fase di correzione da parte dei responsabili delle pubblicazioni (Calabrese 2013). Qualora le traduzioni presentassero degli influssi del testo di partenza redatto in inglese, questi verrebbero eliminati durante le fasi di revisione e correzione. Alcuni influssi sono comunque stati rilevati come nel caso di stretta creditizia e austerità.

Questo atteggiamento completamente opposto a quanto osservato nella stampa è principalmente riconducibile a due fattori. In primo luogo si conta la natura di questi testi: si tratta di analisi e rapporti sugli andamenti economico-finanziari e sulle decisioni di politica monetaria della banca centrale, per natura oggettivi e obiettivi. D’interesse è quindi solo il piano denotativo delle parole. A ciò si ricollegano i motivi per cui le due banche centrali in questione comunicano: da una parte vi è l’obbligo di rendiconto circa il proprio operato e dall’altra la trasmissione dell’impulso monetario. Le banche centrali devono pertanto da un lato risultare credibili e quindi essere trasparenti e dall’altro trasmettere i propri messaggi nel modo più preciso e chiaro possibile (Calabrese 2013b). Ogni parola, infatti, pesa nell’influsso che le comunicazioni hanno sugli andamenti economici e finanziari. Ciò è diventato molto più marcato dopo lo scoppio della crisi finanziaria e del debito sovrano dal momento che l’operato delle banche centrali dell’area dell’euro è tornato in primo piano e che la BCE ha dovuto crearsi un proprio ruolo al di là di quello istituzionale, diventato importantissimo e soprattutto altamente determinante. Ecco perché il loro modo di esprimersi è oggi talmente importante e perché è necessario soppesare gli effetti di ogni frase e parola. Un esempio recente ed eclatante è indubbiamente la frase pronunciata da Mario Draghi il 26 luglio 2012:

“The ECB is ready to do whatever it takes to preserve the euro”. Questa breve affermazione è bastata a riversare grande speranza e ottimismo nei mercati, che hanno subito registrato forti rialzi mentre i differenziali di rendimento dei paesi periferici europei si sono improvvisamente abbassati74. In altri termini se un singolo articolo di giornale è una goccia nel mare del giornalismo in cui le modalità di espressione che lo contraddistinguono si perdono, i messaggi veicolati dalle pubblicazioni ufficiali rimangono ben ancorati nei mercati e non vengono facilmente dimenticati.

Talvolta l’influenza dell’inglese e del gergo giornalistico riesce comunque a farsi sentire come dimostra l’uso di austerità, salvataggio e rating. Ciononostante il tradizionale rigore

74 Per un approfondimento e ulteriori esempi si veda Peca 2013.

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linguistico e redazionale della Banca d’Italia rimane nel complesso inalterato, seppur sembri occasionalmente cedere all’influsso d’oltremanica.

Quanto riassunto finora ci permette di giungere alla seconda conclusione del presente lavoro, ovvero che le pubblicazioni ufficiali, di per sé altamente tecniche e rivolte a un pubblico di specialisti, risultano spesso paradossalmente più comprensibili di numerosi articoli di giornale il cui bacino d’utenza è molto più ampio. Concorre a ciò il fatto che gli autori delle prime, così cauti e precisi, forniscano indirettamente molti più aiuti al lettore di quanto non facciano i giornalisti. Vengono infatti usati principalmente termini italiani, i quali in alcuni casi possono già dare un indizio per la comprensione anche a un non specialista, specificano sempre in modo preciso a cosa si faccia riferimento quando questo è ambiguo e preferiscono perifrasi descrittive a termini brevi e riassuntivi, inglesi o italiani che siano. La principale preoccupazione degli estensori delle pubblicazioni ufficiali è la chiarezza e la precisione del messaggio, anche a costo di formulazioni lunghe, macchinose o ridondanti. Il Sole 24 Ore, invece, come la gran parte dei quotidiani, privilegia una prosa brillante e accattivante, anche al prezzo di infarcire le notizie di termini alloglotti privi di spiegazioni e inseriti talvolta con pressapochismo, nonché immagini e metafore d’effetto al posto di precisazioni più scientifiche. Tutto ciò rappresenta a volte un ostacolo alla trasmissione del messaggio, che fatica a passare arrivando in modo più confuso.

Ciononostante anche l’utilizzo di soli termini italiani non rappresenta sempre la soluzione ideale. Infatti il linguaggio delle pubblicazioni ufficiali, così rigido e refrattario ai cambiamenti, è considerato spesso eccessivamente protettivo dagli esperti, i quali, immersi in una realtà economico-finanziaria ormai fortemente anglosassone, trovano certi lessemi italiani estranianti e preferirebbero l’uso di determinati anglicismi. Stabilire cosa sia giusto o sbagliato è tuttavia pressoché impossibile. A nostro avviso la penetrazione di termini inglesi non è pericolosa per la lingua italiana, al contrario è un arricchimento, peraltro inevitabile, a cui si assiste da secoli. Ciononostante, come ogni cosa benefica, il loro utilizzo portato all’eccesso può rivelarsi dannoso e, nel presente caso, pregiudicare la qualità dei testi.

Ugualmente complesso, se non impossibile, è anche determinare quale sia il giusto equilibrio.

Sulla base dell’analisi effettuata e delle riflessioni che ne sono emerse riteniamo che un buon punto di partenza per effettuare una scelta terminologica sia chiedersi puntualmente se esiste un corrispettivo italiano e, in caso affermativo, se questo è ancora nell’uso o se è stato ormai soppiantato dall’inglese. Quindi, la seconda domanda da porsi è se l’uso di un prestito non adattato apporti veramente un valore aggiunto alla comunicazione, che vada oltre il mero piano snobistico. È bene poi decidere valutando prima con criterio anche il pubblico, la

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funzione comunicativa del testo e il potenziale grado di chiarezza del messaggio che ne risulta. L’inglese può infatti rappresentare un modo per ovviare alla presenza di sinonimi in italiano (v. credit crunch) ma anche produrne di nuovi (v. spread). È pertanto importante soppesare anche se la scelta del forestierismo contribuisca a una maggiore trasparenza o se renda invece la definizione del concetto più nebulosa. È utile infine non dare per scontata la comprensione di un termine solo perché “di moda” e, in base al grado di attestazione dello stesso, riflettere sulla possibilità di accompagnarlo con una glossa esplicativa la prima volta che compare nel testo.

Le stesse riflessioni vanno fatte anche da un traduttore economico e/o finanziario che non può permettersi di lasciare i termini più tecnici nella lingua d’origine solo partendo dal presupposto che il LEF sia ormai estremamente esposto alla lingua inglese. Inoltre, data la rapidità e la frequenza con cui muta il linguaggio economico e finanziario, a un buon traduttore sarà utile essere sempre informato sugli eventi in corso nel settore dal momento che la lettura gli permetterà di mantenersi aggiornato anche sui mutamenti altrettanto celeri del linguaggio. La presente analisi dimostra che per fare ciò, così come per cercare riscontri linguistici in sede di traduzione, è importante basarsi su più tipologie testuali. Non limitarsi a un’unica fonte permette infatti di avere una visione più ampia del ventaglio di possibilità che la lingua offre in quel determinato momento e di scegliere le proprie soluzioni traduttive con maggior cognizione di causa.

Infine, come dimostra l’esempio della resa di subprime nella versione italiana delle pubblicazioni della BCE , la traduzione non è solo fonte di proliferazione sinonimica ma altresì di uniformazione. Affinché si possa arrivare a un risultato analogo anche a livello di lingua, però, deve esserci un minimo di inquadramento. Da qui l’utilità di continuare a promuovere una maggior regolamentazione nell’ambito della terminologia e della traduzione settoriale.

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