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Gli anglicismi nelle pubblicazioni ufficiali e sulla stampa : il caso del lessico della crisi

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Master

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Gli anglicismi nelle pubblicazioni ufficiali e sulla stampa : il caso del lessico della crisi

CEOLINI, Anna

Abstract

Ce travail découle d'une volonté d'examiner la terminologie liée à la crise économique et financière qui depuis 2007 frappe la plupart des Pays occidentaux. Sur le plan lexicologique ce nouveau cadre économique, social et politique a débouché d'un coté sur la création de nombreux néologismes et de l'autre sur le transfert de plusieurs termes techniques au langage courant. Le prédominance des Etats-Unis dans les domaines économiques et financiers a fait de l'anglais la langue de référence même pendant cette d'instabilité. Le but de ce mémoire est d'analyser la façon dont la langue italienne a intégré les anglicismes liés à la crise afin de comprendre dans quelle mesure ils ont été traduits et/ou conservés en anglais et de voir s'il existe une approche différente selon qu'il s'agisse de publications officielles ou d'articles de presse.

CEOLINI, Anna. Gli anglicismi nelle pubblicazioni ufficiali e sulla stampa : il caso del lessico della crisi. Master : Univ. Genève, 2013

Available at:

http://archive-ouverte.unige.ch/unige:33449

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ANNA CEOLINI

GLI ANGLICISMI NELLE PUBBLICAZIONI UFFICIALI E SULLA STAMPA: IL CASO DEL LESSICO DELLA CRISI

Mémoire présenté à la Faculté de traduction et d’interprétation (Département de traduction, Unité d’italien) pour l’obtention de la Maîtrise universitaire en

traduction, mention Traduction spécialisée

Directeur:

Mme Silvia Avanzi

Juré:

M. Giancarlo Marchesini

Université de Genève

Août 2013

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Indice

1. Introduzione ... 1

2. Il linguaggio economico e finanziario come linguaggio speciale ... 2

2.1 Linguaggi speciali... 2

2.2 Il linguaggio dell’economia e della finanza (LEF) ... 2

2.2.1 Testualità e morfosintassi ... 3

2.2.2 La terminologia ... 3

2.2.3 Un linguaggio speciale sì, ma per tutti ... 5

2.2.4 Oscurità ... 6

3. Gli anglicismi nel LEF ... 6

3.1 Prestiti, calchi, anglicismi: qualche definizione ... 6

3.2 Gli anglicismi nella storia del LEF ... 7

3.3 Perché tanti anglicismi... 10

3.3.1 I quotidiani: cassa di risonanza di questo fenomeno ... 14

3.4 Regolamentazione ... 15

4. Il caso del lessico della crisi ... 17

4.1 I canali di comunicazione presi in esame ... 17

5. La crisi economica e finanziaria (2007-2012) ... 19

5.1 Le cause della crisi finanziaria statunitense ... 19

5.2 Il collasso del settore bancario mondiale ... 23

5.3 Contagio dell’economia reale ... 24

5.4 La crisi del debito sovrano in Europa ... 25

5.4.1 Le cause ... 25

5.4.2 Dalla crisi finanziaria alla crisi del debito sovrano ... 27

5.4.3 La crisi greca ... 28

5.4.4 Il contagio ... 29

5.4.5 Verso una nuova governance ... 32

5.5 Stati Uniti ... 33

5.6 Verso una maggiore regolamentazione ... 33

6. Analisi linguistica ... 34

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6.1 Descrizione della metodica ... 34

6.2 Analisi e confronto ... 36

1. AUSTERITY ... 36

2. BAILOUT ... 41

3. CREDIT CRUNCH ... 48

4. DEFAULT ... 56

5. RATING ... 69

6. SPREAD ... 74

7. SUBPRIME ... 87

7. Conclusioni ... 95

8. Bibliografia ... 101

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1. Introduzione

La presente tesi nasce dal desiderio di studiare più da vicino la terminologia legata alla crisi economica e finanziaria che dal 2007 affligge gran parte del mondo occidentale. Viste le grandi difficoltà a cui ha portato e le sue dimensioni ormai mondiali, essa costituisce il principale problema cui sono confrontati non solo i governi degli stati coinvolti, ma anche tutti i cittadini. A livello lessicologico, questo nuovo scenario economico, politico e sociale ha implicato da un lato la creazione di neologismi e dall’altro il trasferimento di buona parte del lessico tecnico all’uso quotidiano. Concetti nuovi e concetti già esistenti, ma finora limitati ai settori specialistici, sono infatti entrati a far parte della quotidianità di parlanti di ogni livello, in particolare attraverso i mass media.

Il primato anglosassone, e soprattutto degli Stati Uniti, nell’ambito economico e finanziario ha fatto sì che, come spesso accade, l’inglese imponesse sulle altre lingue il proprio lessico.

L’obiettivo di questo lavoro è analizzare come negli ultimi sei anni (2007-2012) l’italiano abbia recepito i termini legati alla crisi, cercando di capire in che misura essi vengano tradotti e/o mantenuti in inglese come prestiti o calchi e di verificare se esiste un atteggiamento diverso a seconda che si tratti di pubblicazioni ufficiali o di articoli di giornale. Di primo acchito sembrerebbe che più la fonte è ufficiale, e quindi più il pubblico è competente, più si preferiscono termini autoctoni; mentre a un minor livello di specializzazione e a un pubblico meno esperto corrispondono un maggior numero di anglicismi e una minore trasparenza.

Paradossalmente, quindi, gli anglicismi si addentrerebbero soprattutto nei canali di comunicazione più esposti dal punto di vista sociale e linguistico.

Il lavoro si articola in due parti: una teorica e una pratica. Partiremo da un’analisi del linguaggio economico e finanziario e della misura in cui è influenzato dall’inglese con una particolare attenzione per i generi testuali presi in esame. In seguito contestualizzeremo la problematica ripercorrendo brevemente la crisi economica e finanziaria. A questo punto, partendo da una lista di anglicismi relativi alla crisi, ne confronteremo la frequenza e l’uso in due corpora: la banca dati del Sole 24 Ore e un corpus creato appositamente, comprensivo delle pubblicazioni della Banca d’Italia e della BCE selezionate.

Crediamo che una ricerca di questo tipo sia importante per la traduzione di testi economici di attualità dall’inglese, e non solo. Gli eventi si susseguono a una grande velocità, e altrettanto velocemente cambia la terminologia. Quanto più un traduttore è consapevole di come si evolve la lingua e conosce il ventaglio di opzioni che essa gli offre in un determinato momento, tanto più potrà fare scelte traduttive con perfetta cognizione di causa.

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2. Il linguaggio economico e finanziario come linguaggio speciale

2.1 Linguaggi speciali

Sotto il profilo diafasico il centro dell’universo linguistico è occupato dalla lingua naturale, quella usata quotidianamente dal parlante comune, mentre mutando l’ambito di attività ci si sposta verso altre varietà di lingua, usate nei settori specializzati: i linguaggi speciali1.

La seguente definizione data da Cortelazzo ne traccia le principali caratteristiche:

“Per lingua speciale si intende una varietà funzionale di lingua naturale, dipendente da un settore di conoscenze o da una sfera di attività specialistici, utilizzata, nella sua interezza, da un gruppo di parlanti più ristretto della totalità dei parlanti la lingua di cui quella speciale è una varietà, per soddisfare i bisogni comunicativi (in primo luogo quelli referenziali) di quel settore specialistico;

la lingua speciale è costituita a livello lessicale da una serie di corrispondenze aggiuntive rispetto a quelle generali e comuni della lingua e a quello morfosintattico da un insieme di selezioni, ricorrenti con regolarità, all’interno dell’inventario di forme disponibili nella lingua.” (Cortelazzo 1994: 8)

Fermo restando che queste varietà di lingua sono sempre ricollegate a un settore specialistico, è importante ricordare che esse non possono essere considerate “realtà statiche e immobili”, così come non si possono tracciare confini netti tra il linguaggio altamente specializzato, il linguaggio settoriale meno tecnico dei mezzi di comunicazione di massa e la lingua comune (Gualdo 2011: 22). Esse variano su un asse verticale: secondo Sobrero (2011: 240) si distribuiscono “su più livelli stilistici, disposti su una scala che va da un massimo a un minimo di tecnicità, e che corrisponde a un massimo/minimo discostamento dalla lingua comune. La scelta di un registro o di un altro […] risponde a esigenze del contesto extralinguistico”. I linguaggi speciali si trasformano quindi al variare di determinati fattori, quali l’autore, il destinatario, lo scopo e il canale di comunicazione.

2.2 Il linguaggio dell’economia e della finanza (LEF)

Il LEF è un linguaggio speciale di difficile inquadratura. Innanzitutto è molto esteso sul piano orizzontale, poiché ingloba una quarantina di discipline: dall’economia politica, alla finanza, al diritto economico, alla gestione aziendale, fino al marketing. In secondo luogo, la materia a

1 Gli studiosi non sembrano ancora concordare su un’etichetta comune. Gualdo (2011:17-21), Sosnowski (2006:9-15) e Cortelazzo (1994:7-9) passano in disamina le diverse denominazioni e definizioni (linguaggio tecnico, linguaggio settoriale, linguaggio specialistico, lingua per scopi speciali, lingua di specializzazione, sottocodice, micro lingua, tecnoletto,…). Il termine più diffuso è lingua speciale. Abbiamo tuttavia preferito la variante linguaggio speciale poiché linguaggio è più generico di lingua, dal momento che include sia i codici comunicativi verbali che quelli non verbali (Gualdo 2011:11).

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cui fa riferimento ha un “incerto statuto epistemico” (o una “split personality” secondo Castorina 2011), a cavallo fra una scienza assiomatica e una scienza sociale (De Mauro 1994: 413).

Ciò ha due implicazioni. Il linguaggio dell’economia e della finanza viene innanzitutto utilizzato da attori tra loro molto diversi, dalla comunità scientifica internazionale, al mondo professionale, anch’esso molto sfaccettato, al grande e piccolo investitore, fino al comune risparmiatore. In secondo luogo il LEF risulta molto diversificato anche sul piano verticale. Si va da testi molto tecnici (testi normativi, trattati scientifici, rapporti), passando per articoli di giornale specializzati e manuali universitari, fino ad arrivare agli scritti divulgativi dei mezzi di comunicazione di massa. Ciò premesso, è difficile indicare in modo assoluto quali siano i tratti distintivi del LEF. Abbiamo cercato tuttavia di riassumerne quelli tendenziali.

2.2.1 Testualità e morfosintassi

Sul piano testuale e morfosintattico si riconoscono le seguenti peculiarità: la presenza di schemi, tabelle, grafici e illustrazioni; il ricorso a una struttura testuale argomentativa; la predilezione per paragrafi brevi e frasi concise; la tendenza alla nominalizzazione e all’astrazione; la riduzione di tempi, modi e persone verbali, con la prevalenza del presente e dell’uso del passivo e di forme impersonali; l’uso di verbi generici e infine la propensione alla giustapposizione tra le frasi (Gualdo 2011, Zanola 2007, Serianni 2011, Arcangeli 2005).

Genere testuale e livello di specializzazione non modificano in maniera rilevante questi aspetti.

2.2.2 La terminologia

Ciò che veramente contraddistingue un linguaggio speciale dall’altro è però il lessico. Anche il LEF presenta quindi una propria terminologia, composta da numerosi tecnicismi collegati agli ambiti economico e finanziario. Negli ultimi decenni essa è stata caratterizzata in misura crescente da una tendenza alla brevità, nonché a fondere e sintetizzare in un unico elemento lessicale espressioni e locuzioni più complesse mediante composti o polirematiche (Gualdo 2011: 372). Questa inclinazione è riconducibile principalmente all’influsso dell’inglese dal momento che l’italiano, una lingua originariamente letteraria, per natura ampollosa e poco flessibile, sotto questo aspetto presenta di per sé diversi limiti. Per la descrizione di fenomeni, strumenti o realtà economiche ci si ritrova infatti spesso confrontati con lunghe perifrasi, e l’inglese, più breve e duttile, rappresenta un ottimo strumento per raggiungere una certa semplificazione e condensazione linguistica (cfr. 3.3).

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Il LEF fa inoltre largo uso di termini risemantizzati, vale a dire lessemi di uso comune che nel contesto economico-finanziario acquistano un nuovo significato, pur mantenendo lo stesso significante (Tammaro 2001: 133). Si pensi per esempio a bolla (bolla finanziaria o speculativa e non bolla di sapone), a sofferenza (credito inesigibile e non dolore fisico o morale) o ancora a portafoglio (insieme di titoli e non portamonete).

Un’altra importante peculiarità è l’uso frequente di eufemismi e metafore, che costituiscono la principale fonte di tecnicismi collaterali del LEF. Tra i primi citiamo per esempio ritocco per tagliare, correzione per ribasso o le frequenti litoti (un risultato non particolarmente brillante). Esempi di metafore sono invece guadagnare / perdere terreno, trainare, rubinetti del credito, erosione. Arcangeli (2005: 93) parla di “fughe metaforiche” dal rigore lessicale che in sostanza hanno l’obiettivo di rendere più amichevoli realtà altrimenti fredde (Gualdo 2011: 378). Inoltre, come già Dardano (1986), anche Gualdo (2011) vede in quest’uso della lingua la partecipazione del sentimento di chi scrive, l’esternazione di giudizi di soddisfazione o preoccupazione circa i fatti economici, ma soprattutto l’intento di attenuare concetti “tabù” o di “tenere in ombra le persone e i gruppi di potere che agiscono sul mercato”

(Gualdo 2011: 378). Anche questo aspetto non è altro che il risultato di quel dualismo dell’economia, uno scontro tra tecnicità, logica e sentimento.

Vista la natura delle discipline economico-finanziarie, consistente è anche l’apporto di cifre, simboli, sigle e acronimi. Il LEF fa inoltre largo uso di anglicismi, dal momento che il lessico dell’economia e della finanza attinge a una disciplina di respiro internazionale. Si noti che risulta essere il linguaggio speciale in cui l’apporto inglese è più significativo2.

Infine, esso ha un ultimo tratto distintivo, insolito per i linguaggi specialistici di natura monoreferenziali: la sovrabbondanza terminologica e la mancanza, spesso, di univocità semantica (Dardano 1986: 227). Novelli (online3) definisce il linguaggio economico-finanziario come “anfibio e galoppante”. Dardano (1985) e Sosnowski (2005) riconducono questa caratteristica a diversi fattori. Innanzitutto il settore è appunto in continua e rapida espansione e non lascia il tempo per la formazione di una terminologia precisa e schematica. In secondo luogo vi è una grande densità di forestierismi che pone continuamente chi scrive di fronte al problema di un’eventuale traduzione che rischia di non coincidere sempre con quelle date da altri estensori. In ultimo si contano la massiccia presenza di tecnicismi collaterali e la larga diffusione presso ambienti diversi fra loro.

2 Cfr. De Felice 1984: 121, Arcangeli 2005: 87, Gualdo 2011: 357.

3 http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/parole/delleconomia/Credit_crunch.html

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5 2.2.3 Un linguaggio speciale sì, ma per tutti

Abbiamo più volte ripetuto quanto sia tentacolare il LEF. Ma perché? Come già menzionato, le discipline economiche ricadono per certi aspetti nelle scienze umane e sociali. L’economia ha infatti un risvolto pratico e un influsso nella vita quotidiana di ogni cittadino. La società vi è diventata particolarmente sensibile soprattutto negli ultimi cinquant’anni. Negli anni Settanta, l’aumento e la dilatazione del reddito e della ricchezza nel nostro Paese fanno sì che l’economia passi da “scienza occulta”, “decisa e pilotata da pochi” ad ambito di interesse generale: la massa di consumatori, produttori, risparmiatori e investitori ne diventa protagonista (Pasquarelli 1985: III-VI). Negli anni Novanta questo interesse si accresce in modo esponenziale con la new economy: ormai neanche il piccolo risparmiatore può rimanere indifferente al successo degli investimenti finanziari (Gualdo 2011: 367).

Oggi l’economia è “una dimensione fortemente interconnessa con tutta la realtà: […] è uno dei protagonisti della globalità” (Meucci 2004: 30). Secondo alcuni è la nuova religione, il potere postmoderno più universale (Dardano 1998: 67).

A prescindere da come la si voglia qualificare, non c’è dubbio che coinvolga, per un motivo o per un altro, l’intera società. Ne consegue la richiesta di una larga divulgazione: non c’è altro settore scientifico che occupi ogni giorno almeno qualche pagina dei quotidiani, né che possa vantare uno o più giornali ad esso interamente dedicati (De Mauro 1994: 416). L’economia è quindi diventata res publica e mai come in concomitanza con eventi di dimensioni planetarie, come l’esplosione dell’attuale crisi, essa riversa i suoi effetti e la sua tecnicità nella vita dell’opinione pubblica.

Ma tecnicità e divulgazione faticano ad andare di pari passo: se i testi economici e finanziari dovessero essere letti solo da specialisti del settore, non sussisterebbero problemi. La necessità, spesso, di comunicare gli stessi contenuti anche ad appassionati o profani complica le cose. Ecco quindi quella che De Mauro definisce la “complessità linguistica” della lingua dell’economia, quel continuo scontro tra un linguaggio altamente tecnico e il linguaggio comune (De Mauro 1994: 413). Come accennato poco fa, questa condizione fomenta l’ambiguità del LEF. Il tentativo, come quello ad esempio dei mezzi di comunicazione di massa, di spiegare dei concetti tecnici, può portare alla creazione di sinonimi o perifrasi, la necessità di rendere più chiaro un anglicismo può spingere alla traduzione, magari imprecisa, dello stesso. E chi ci assicura poi che tutte le perifrasi, i sinonimi e le traduzioni coincidano?

A questo si aggiunge la maggiore tendenza a fare uso di eufemismi e metafore, nonché a creare neologismi, dei mezzi di divulgazione. Per finire, visto che i diversi livelli di

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specializzazione non possono essere considerati comparti stagni, è inevitabile che essi si influenzino a vicenda. Ciò comporta non pochi problemi di terminologia, di comprensione e di traduzione a tutti i livelli, anche a quello specialistico.

2.2.4 Oscurità

Nonostante l’ampio contatto della società con testi economici, il LEF è spesso considerato impenetrabile. Da una valutazione comparativa della leggibilità condotta agli inizi degli anni Novanta, è risultato che il settore con l’indice di leggibilità più basso fosse proprio quello dell’economia. De Mauro riconduce questa caratteristica alla sua complessità epistemica e linguistica e sostiene che “in Italia gli economisti non riescono a scrivere con la chiarezza che sanno riuscire ad avere […] i cultori di discipline di nota hardness, […] o di discipline d’egualmente incerto statuto epistemico, […] o esposti […] ad una almeno pari divaricazione tra le loro esigenze di rigore e cautela e l’appassionato bisogno informativo dei profani.”

(De Mauro 1995: 418). Gualdo (2011) e Arcangeli (2005) aggiungono a questa altre motivazioni: la ricchezza di parole comuni usate con significati specifici e la densità concettuale che si cela dietro a singole parole o a brevi polirematiche.

3. Gli anglicismi nel LEF

Come accennato nella sezione precedente, tra i linguaggi speciali il LEF è quello con il più alto tasso di permeabilità all’influsso angloamericano. Ma cos’è un anglicismo? Perché questo primato? E poi, è sempre stato così?

3.1 Prestiti, calchi, anglicismi: qualche definizione

Il prestito è il risultato di “qualsiasi fenomeno d’interferenza, connesso cioè col contatto e col reciproco influsso di lingue diverse” (Gusmani 1993: 9). Spesso denominato anche forestierismo o esotismo, viene indicato come anglicismo4 quando la matrice esogena è l’inglese. Vediamone ora brevemente le principali tipologie5:

 prestiti adattati (o integrati) a livello morfologico, fonologico e/o lessicale (inflazione da inflation);

4 Ad anglicismo si affiancano altri sinonimi quali anglismo, inglesismo e di recente si è sentita la necessità di aggiungere anche angloamericanismo, per indicare nello specifico le interferenze con l’inglese d’America (Fanfani 2010: internet).

5 Cfr. Gusmani (1993), Fanfani (2010), Coco (2008).

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 prestiti non adattati (o non integrati o integrali) che mantengono la forma alloglotta (default);

 composti ibridi in cui una componente è tradotta e l’altra è mantenuta nella lingua straniera (agenzia di rating da rating agency);

 prestiti di necessità quando non esiste un equivalente autoctono (subprime);

 prestiti di lusso quando esiste un equivalente ma vengono preferiti per motivi stilistici o espressivi (rating invece di valutazione). Questo porta a un (parziale) sincretismo semantico e, spesso, a un restringimento di significato del prestito rispetto a quello originale (spread);

 prestito ripetuto (o plurimo o multiplo): quando da un lessema esogeno vengono originati due o più prestiti (si pensi ai diversi calchi creati a partire da fiscal cliff: burrone fiscale, baratro fiscale, precipizio fiscale). Spesso, con il tempo, una delle riproduzioni finisce per soppiantare le altre;

 prestiti apparenti: prestiti decurtati in cui si perde il secondo elemento (holding per holding company) e falsi esotismi o pseudo-prestiti che hanno tutto l’aspetto di un termine alloglotto ma che non trovano nella lingua in questione alcun corrispondente o comunque non semantico (mobility manager, figura che in inglese non esiste, corrisponde a transport planner);

 calchi: “il calco si differenzia dai più appariscenti fenomeni di prestito in quanto abbraccia quei casi di interferenza in cui l’imitazione del modello alloglotto è limitata alla “innere Sprachform” [forma linguistica interna] e non ha di mira la riproduzione dell’aspetto esteriore” (Gusmani 1993: 219). Si distinguono i calchi strutturali in cui viene riprodotta la struttura formale (sistema bancario ombra da shadow banking system) e i calchi semantici in cui viene riprodotto solo il significato dando alla parola una nuova accezione (congelare nel senso di sospendere un credito da to freeze a credit). A ciò si aggiunge l’italianizzazione di parole straniere (performare ottenuto dall’aggiunta della desinenza verbale italiana -are al verbo inglese to perform).

3.2 Gli anglicismi nella storia del LEF

L’apertura delle frontiere nazionali e commerciali comporta da sempre anche un’apertura delle frontiere linguistiche. L’incontro tra le lingue non può, infatti, che essere facilitato e promosso dal contatto tra i popoli stessi, ed è ben risaputo che il primo motivo che ha spinto l’uomo a varcare i propri confini sono stati gli scambi commerciali. Nel XVI secolo Baldassarre Castiglione scriveva: “Il commerzio tra diverse nazioni ha sempre avuto forza di

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trasportare dall’una all’altra, quasi come le mercanzie, cosí ancor novi vocabuli.” Se la storia ci insegna che l’inglese negli ultimi secoli è penetrato nella nostra lingua nei settori più svariati, su quello economico e finanziario ha influito sin dall’inizio, in misura maggiore o minore secondo le epoche.

In Italia il linguaggio dell’economia si forma nell’alto Medioevo, nei secoli della grande espansione mercantile che porta alla nascita di una società proto-capitalistica. Non è quindi una casualità che in questo periodo la presenza di anglicismi si concentri nel lessico commerciale e del diritto, a sua volta riservato alla classe dei mercanti-banchieri (Giovanardi 2008: 96). I primi due anglicismi mai attestatisi in italiano sono proprio una diretta conseguenza dell’espansione delle relazioni commerciali tra Italia medievale e Inghilterra: si tratta di stanforte (termine inglese indicante un tessuto prodotto nella città di Standford) e sterlini (da sterling, la valuta dell’Inghilterra), voci risalenti al XIII secolo (Migliorini 1998: 164).

Anche in quello successivo gli anglismi si riscontrano principalmente nella sfera del lessico mercantile6 per poi allargarsi all’ambito amministrativo, giuridico, politico e della vita sociale (Cartago 1994). Bisogna tuttavia ricordare che tra il Duecento e il Rinascimento è l’Italia a guidare la rivoluzione commerciale. Ne risulta che la creazione terminologica nei campi che vanno via via sviluppandosi, da quello contabile a quello bancario e finanziario, avviene in volgare per poi diffondersi nelle altre lingue europee (Sosnowski 2006). Nel mentre queste ultime, inglese incluso, ricoprono un ruolo secondario nella progressiva formazione del linguaggio economico e finanziario.

Tra il Cinquecento e il Seicento si sviluppano le teorie legate alla politica monetaria ed economica degli stati, che avrebbero poi condotto alla nascita della moderna economia politica. L’Italia perde il primato sia nella realtà economica, in quanto frammentata rispetto alle grandi potenze nazionali europee, sia in quella scientifica. A imporsi sono i nuovi modelli della scuola mercantilista francese e inglese che durante l’Illuminismo sfociano nel consolidamento dell’economia come scienza pura e non più solo pratica, dotata di una propria teoria e di un linguaggio specifico (Sosnowski 2006). La maturazione terminologica del LEF è ora appannaggio del francese e dell’inglese. Nel Settecento in Italia si sviluppa anche una vera e propria anglofilia: “l’ammirazione per quel paese [l’Inghilterra], le sue strutture sociali, la conduzione politica, l’amministrazione della giustizia e la gestione dell’economia, circola ovunque.” (Cartago 1994: 730). Questi due fattori fanno sì che l’inglese contribuisca per la

6 Cartago (1994: 721) riporta i seguenti anglicismi: feo “stipendio” (fee), cocchetto “documento di avvenuto pagamento” (cocket), costuma e costumieri “dogana” e “doganieri” (customs), bigla “conto” (bill).

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prima volta a un effettivo arricchimento del lessico economico-politico, rimanendo per il momento comunque in ombra rispetto al francese. I termini entrano soprattutto come calchi, prestiti adattati o traduzioni, per lo più mutuati dal francese o dal latino (anglolatinismi). In generale, possiamo affermare che fino al Settecento l’apporto inglese è stato marginale e che era il francese a detenere il primato come fonte di rinnovamento esogeno della lingua italiana.

Si dovrà aspettare gli inizi dell’Ottocento perché gli anglicismi facciano veramente il loro ingresso, ovvero quando iniziano a farli propri, in particolare attraverso la traduzione, i generi popolari di lettura: il romanzo storico e la stampa periodica (Cartago 1994: 735). Quest’ultima arricchisce il lessico italiano con anglicismi soprattutto nelle aree dell’economia, della moda e della tecnica dal momento che gli accadimenti internazionali acquisiscono un peso sempre maggiore negli articoli di riviste e quotidiani. “Il fattore traduzione condiziona l’accesso degli anglicismi nella stampa periodica, poiché essa vive in moltissimi settori dell’apporto di materiale da testate straniere […] la prosa giornalistica, già nell’Ottocento incalzata da tempi stretti per la compilazione dei pezzi, e da ciò naturalmente portata a quella fedeltà traduttoria che nasce dalla scarsa possibilità e volontà di elaborazione, dinnanzi alle parole straniere tende ad arrendersi con facilità; tanto più che la mimesi – al polo opposto della naturalizzazione dà garanzie di veridicità, offrendo per giunta il soccorso del colore locale”

(Cartago 1994: 737). La guerra di secessione americana fa per esempio entrare il termine inflazione nel lessico italiano (Migliorini 1998: 659).

Nel corso dell’Ottocento l’innovazione terminologica del linguaggio economico e finanziario, sempre più specializzato, è quasi sempre di stampo inglese e gli studiosi italiani pubblicano frequentemente le proprie ricerche in questa lingua, di cui apprezzano quello stile diretto che mancava alla tradizione letteraria italiana (Proietti 2010: online7).

Nel complesso “gli anglicismi entrati nella seconda metà dell’Ottocento sono numericamente superiori a quelli accolti nel corso di tutti i secoli precedenti” (Rando 1987: XVI) e penetrano in moltissimi altri campi, tra cui quello del costume, della moda, delle attività ricreative, dei mezzi di comunicazione e dello sport (Cartago 1994, Zolli 1991).

A cavallo tra l’Ottocento e il Novecento il modello inglese in campo politico-economico si rafforza con i movimenti politici, con l’affermarsi del capitalismo industriale e con l’organizzazione e la legislazione operaia. Nuovi termini in questi ambiti vengono accolti in italiano senza bisogno, questa volta, della mediazione dal francese8.

7 http://www.treccani.it/enciclopedia/lingua-dell-economia_%28Enciclopedia-dell%27Italiano%29/

8Tra i prestiti non adattati registrati da Zolli (1991) per la prima metà del Novecento, nel campo del commercio e degli affari figurano boom, businessman, export, holding, marketing, slogan, stand, travellers’ cheque.

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L’accelerazione di tendenza si registra nel secondo dopoguerra, dopo la parentesi fascista che con la legge dell’11 febbraio 1923 aveva bandito ogni forestierismo. Gli eventi storici portano gli Stati Uniti a conquistare il primato politico, economico, culturale, scientifico e tecnologico del mondo occidentale. L’american way of life invade un po’ tutti i settori della vita quotidiana e il numero di anglicismi cresce a vista d’occhio. Essi penetrano per la prima volta senza alcun adattamento e, spesso, anche nella lingua parlata. “Ogni parola è portatrice di un significato associativo oltre a quello denotativo […]. Il termine inglese ricreava un clima di vittoria, di benessere, di spensieratezza, di positività che agli occhi degli italiani erano l’Inghilterra e gli Stati Uniti d’America, un fatto che per motivi principalmente economici è continuato fino ai nostri giorni” (Pinnavaia 2005: 47). Il prestigio mondiale del Regno Unito prima e degli Stati Uniti d’America poi spiega quindi perché da una parte si sia avuto un afflusso così massiccio di anglicismi, e dall’altra perché il loro uso sia diventato di moda.

Gli anglicismi dilagano anche nel linguaggio economico e finanziario: nella seconda metà del Novecento l’organizzazione degli affari e della produzione negli Stati Uniti è infatti molto più sviluppata rispetto a quella del Vecchio Continente e il LEF assume una gamma di voci anglosassoni che vanno dai nuovi metodi di produzione e di vendita, al linguaggio della pubblicità e all’organizzazione aziendale (Rando 1987: XXI) 9.

Gli Stati Uniti non hanno certo perso il loro primato in campo economico e finanziario:

ancora oggi il sistema americano, capace di rinnovarsi a grande velocità, continua a condurre il gioco e gli angloamericanismi non cessano di affluire in massa nella lingua italiana.

3.3 Perché tanti anglicismi

Come si può evincere dall’excursus storico appena fatto, la terminologia economica e finanziaria è sempre nata nel paese (o nei paesi) che, in un determinato momento storico, deteneva il primato in questi campi. La valenza internazionale intrinseca alle discipline economiche ha inoltre sempre portato la lingua dell’area geografica in questione a imporsi sulle altre. Arcangeli (2005: 88), riprendendo una nota asserzione di Marx, afferma che “la lingua delle nazioni dominanti tende inevitabilmente a diventare la lingua dominante”. A Migliorini (1998) a ciò aggiunge la penetrazione di stock, check e trust. Nel 1927 viene pubblicato un primo manuale settoriale bilingue Corrispondenza commerciale inglese: con documenti commerciali e dizionario commerciale italiano-inglese ed inglese italiano di M. Hazon.

9Per la seconda metà del Novecento Zolli (1991) riporta i seguenti anglicismi: account-executive, executive, fifty fifty, leasing, lobby, austerity e fixing. Dal canto suo Ivan Klajn (1972), nell’inventario sugli anglicismi non adattati degli anni Sessanta, registra i seguenti termini economici: boom, boss, budget, business, businessman, import, manager, penny, performance, trade union. Proietti (online) riporta blue chip, cash flow, fringe benefit, factoring, future e golden share.

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fungere da guida sono stati l’Italia prima, Francia e Inghilterra poi, Stati Uniti oggi. Le rispettive lingue sono state a loro volta trainanti, e oggi questa funzione tocca all’inglese.

La prima ragione è quindi l’espansione economica dei paesi anglosassoni in corso dalla seconda metà dell’Ottocento, concentratasi poi soprattutto negli Stati Uniti. Le tecniche di gestione aziendale e d’investimento sviluppate oltreoceano hanno influenzato e plasmato, e continuano a farlo ancora oggi, quelle utilizzate in Italia, e insieme a esse anche il linguaggio.

Gualdo indica come momento di maggiore proliferazione degli anglicismi, o meglio degli angloamericanismi, quello della new economy. La globalizzazione dell’economia grazie alla rete, guidata dal Nuovo Continente, ha abbattuto le frontiere nazionali e reso l’economia più internazionale che mai: dagli scambi commerciali agli investimenti finanziari. La velocità siderale dello sviluppo e la globalizzazione in atto hanno portato una grande ondata di anglicismi non adattati. Non di secondaria importanza sono le grandi imprese multinazionali, quasi tutte angloamericane, che esercitano un enorme peso all’interno del settore economico-finanziario (Gualdo 2011: 366-369). Si parla spesso, e non a torto, di secolo americano riferendosi a quello appena conclusosi e ora di nuovo secolo americano.

Corollario immediato di questa posizione d’avamposto è il fatto che l’inglese funga da lingua franca: oggi è la lingua veicolare internazionale nella comunicazione commerciale, finanziaria e d’impresa. Al predominio si accompagna quindi la comodità (Dardano 1986: 225): l’uso di termini inglesi, quando non è direttamente l’inglese come lingua, semplifica i contatti e la comunicazione in un settore economico e finanziario quanto mai mondializzato.

L’onnipresenza della lingua inglese spinge alcuni persino a chiedersi se esista veramente un lessico economico e finanziario nazionale o se prevalga piuttosto un lessico anglofono internazionale (Zanola 2007: 117).

In secondo luogo vanno menzionate la brevità e l’efficacia che contraddistinguono i termini inglesi (Coco 2008: 106). Come già detto, il lessico dell’economia e della finanza tende al risparmio e alla condensazione semantica, vuole essere incisivo e immediato, e i termini inglesi, spesso, riescono a rispondere a questa esigenza meglio dell’italiano. La lingua inglese è infatti molto più duttile: i suoi processi di formazione lessicale sono infiniti10 e tendono a non assoggettarsi ad alcuna restrizione grammaticale o collocazionale, permettono così la creazione di termini diretti, concisi e molto espressivi (Castorina 2011: 18). E anche quando

10 Ercole cita come particolarmente interessanti in ambito economico e finanziario i processi di compounding, conversion e blending (Rosati 2005: 43), nonché la condensazione semantica tipica dei phrasal verb

(Rosati 2005: 48).

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esiste un equivalente, si tende a preferire l’inglese, proprio perché l’alternativa risulta spesso essere una lunga perifrasi descrittiva che Ercole definisce “burdensome-sounding”

(Rosati 2005: 43): rating è molto più immediato di valutazione del merito di credito. A questo si aggiunge il fatto che i tecnicismi coniati risultino spesso essere anche molto metaforici, sono immagini che colpiscono e che spesso si tende o a mantenere o a non tradurre (Rosati 2005: 43). Si pensi ad esempio al mercato toro e al mercato orso o ancora a credit crunch.

Tuttavia l’influsso di altre lingue, come visto al punto precedente, è sempre stato presente.

Perché allora ci troviamo improvvisamente confrontati con una così grande mancanza di assimilazione? La principale motivazione risiede nell’accelerazione del ricambio lessicale in ambito economico e finanziario e nella velocità con cui ai nostri giorni, grazie alle nuove tecnologie, la terminologia si diffonde: la lingua non ha il tempo di trovare un equivalente, e ancor meno può riuscire ad assorbire il termine camuffandone lentamente l’origine, come invece accadeva secoli fa (Taglialatela 2011: 69). Una volta che la parola inglese è messa in circolazione diventa più difficile trovare e imporre un equivalente appropriato, permettendo così al forestierismo di entrare nella lingua.

A questa ragione se ne aggiunge una seconda extralinguistica: il prestigio che gli anglicismi, in particolare non adattati, conferiscono al discorso. C’è la tendenza, nella stampa come negli ambiti professionali, a preferire il termine inglese perché dà l’illusione di nobilitare il testo.

Dietro si cela il gusto per l’esotico, il fenomeno “moda” e il fascino e il prestigio della nazione donatrice (Zolli 1991: 3) che in Italia sono particolarmente forti. Le parole inglesi sembrano infatti avere un loro particolare status: sono più tecniche, più autorevoli, sono circondate da un’aura di “mistero da iniziati” (Coco 2008: 110). Al prestigio, Gusmani (1994: 22) affianca anche la scarsa esperienza dell’altra lingua: se in Italia si conoscesse meglio l’inglese, forse, si gestirebbe in modo più avveduto l’influsso esogeno.

Ma alla sopracitata espressività illusoria che tendiamo ad attribuire ai termini d’oltreoceano, talvolta si aggiunge anche un’espressività sonora, tipica dell’inglese. La frequenza di utilizzazione delle risorse imitative e fonosimboliche nella lingua anglosassone supera di gran lunga quella dell’italiano e dà origine a parole quali boom, crack o credit crunch, molto più espressive e quindi spesso predilette rispetto al termine italiano (Rosati 2005: 31).

Tuttavia, “il più delle volte a premere per l’anglicismo sono l’assenza di alternative valide e l’urgenza di rispondere a necessità operative o traduttive” (Gualdo: online11). La lessicografia

11 http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/speciali/termini/Gualdo.html

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italiana fatica infatti a seguire la rapida evoluzione delle conoscenze e delle terminologie speciali, risultando permeabile all’influsso dell’inglese. Lo specialista, non disponendo di soluzioni alternative, è spinto a preferire l’inglese. Anche Zanola (2007: 114) nella terminologia finanziaria nota spesso una “mancanza di riferimenti concettuali e linguistici in lingua italiana”.

E per chiudere il cerchio, quando i termini italiani esistono, il fatto che manchi una certa regolamentazione e che il LEF soffra di una grande sovrabbondanza sinonimica porta molti ad adottare un atteggiamento lassista e a preferire di non tradurre i forestierismi per tutti i motivi sopramenzionati. Da qui la presenza, nel LEF, di numerosi prestiti di lusso (Giovanardi 2008: 35).

Riassumendo:

“Ciascuna lingua nazionale, compreso l’italiano, è obbligata in qualche modo a rispondere per un verso alla logica stessa dell’immagine estraniante del mercato, luogo anidentitario per definizione chiamato a soddisfare, assai spesso, i bisogni indotti dalle mode, per un altro verso alle pressanti richieste di una mondializzazione che mostra di legare sempre più le sue sorti all’anglo-americano nelle vesti di lingua veicolare globale: e la lingua dell’alta finanza e della borsa, in quanto lingua d’avamposto, piega certo più di ogni altro linguaggio settoriale a queste richieste.” (Arcangeli 2005: 87)

Per concludere, possiamo affermare che esistono tre livelli di correlazione tra il prestito angloamericano e l’equivalente italiano (Zanola 2007: 117-122; Serianni 2011: 134-135). Nel primo, prestito e equivalente italiano coesistono e sono ugualmente frequenti. In questo caso spesso a un anglicismo non adattato corrisponde una forma ibrida. Nel secondo, l’equivalente italiano esiste ma viene preferito il prestito inglese. Questo caso è di maggiore frequenza nella stampa giornalistica. Infine, l’anglicismo è l’unica forma disponibile, non esistendo un equivalente italiano.

A volte, però, che sia per chiarezza o per prestigio, l’uso di anglicismi può trasformarsi in mancata comprensione. De Mauro (1994: 421) li ha definiti il nuovo latinorum degli scritti economici, che dilaga in particolare nella stampa saggistica e giornalistica. Lo stesso preoccupa Giovanardi secondo il quale la sovrabbondanza di anglicismi crea “forti difficoltà anche a livello concettuale, impedendo spesso il corretto flusso del ragionamento.”

(Giovanardi 2008: 35).

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3.3.1 I quotidiani: cassa di risonanza di questo fenomeno

Nella stampa economica tutti questi fenomeni sono portati all’estremo. Si noti innanzitutto che il giornalismo è reputato uno degli ambiti in cui più pullulano gli anglicismi. All’origine vi sono le due principali funzioni del quotidiano: informare e vendere. In primo luogo l’abbondare di anglicismi è ascrivibile a un’urgenza lavorativa. I fenomeni economici hanno spesso un’importanza internazionale, le informazioni si moltiplicano e passano in tempo reale da un paese a un altro o da un ambiente economico-finanziario a un altro, grazie alla tecnologia. È ovvio, quindi, che le espressioni che si riferiscono a essi non hanno neppure il tempo di essere tradotte dal momento che i quotidiani fotografano la situazione immediata che va trasmessa tempestivamente (Rosati 2005: 22).

In secondo luogo un articolo può assolvere la sua funzione comunicativa solo se viene letto:

deve destare l’interesse del lettore e risultare accattivante. Proprio in quest’ottica il giornalismo italiano moderno tende al sensazionalismo, alla spettacolarizzazione delle notizie (Boldrini 2006: 141). Esse sono trasformate in scoop, ne vengono esaltati gli aspetti eccezionali ed eclatanti, anche quelle più tecniche si trasformano in un racconto perché ciò permette di arrivare con più immediatezza ai lettori, ampliandone il numero e vendendo più copie. Quasi trent’anni fa Pasquarelli e Palmieri (1985: VI) commentavano così il nascere di questa tendenza anche nel giornalismo economico: “Così l’economia si è tinta di giallo, è divenuta ghiotto racconto con tanto di personaggi da demonizzare o da esaltare, da smascherare o da mettere sugli altari, da attaccare violentemente o da difendere accanitamente.” Lo stile che ne risulta è uno stile brillante che si nutre di parole alla moda, in prima linea neologismi e anglicismi. Lo snobismo che spesso spinge al loro uso trova tra i giornalisti i suoi principali esponenti: il prestito inglese aggiunge una carica stilistica ed emotiva non indifferente che esalta l’effetto che egli vuole produrre sul lettore, che sia stupore, curiosità, scompiglio o avversione (Pinnavaia 2005: 48). Pensiamo per esempio alla parola spread, ormai lo spauracchio dell’attuale crisi finanziaria, l’elemento che ci permette di capire se le cose vanno bene o male ma che al contempo rimane misterioso, estraneo, ha un effetto quasi esorcizzante. Se nei titoli di giornale si usasse il termine neutro differenziale di rendimento si perderebbe tutto l’effetto connotativo che il lessema alloglotto reca con sé. Gli anglismi hanno anche una particolare efficacia persuasiva in quanto “presentano l’enunciatore come persona informata, competente, degna di fiducia” e “rievocano ambienti e situazioni di prestigio” (Dardano 2005: 230). Riescono inoltre a colpire l’attenzione del lettore perché conferiscono all’intera pubblicazione una certa attualità.

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Infine, il giornale è sempre stato specchio dell’evolversi della lingua e come tale è una spugna che assorbe le novità linguistiche, contribuendo a farle diventare di moda e talvolta persino a fissarle nell’uso (Gualdo 2007: 85). Ecco quindi che la stampa oltre a crearne di nuovi, tende a concentrare in sé tutti i prestiti e calchi inglesi di recente formazione.

Questo uso e abuso da parte dei quotidiani (e degli altri media), però, rischia di far stingere la prosa brillante in una “prosa grigia, o peggio, opaca e confusa” (Gualdo 2007: 79). Come già discusso al punto precedente, troppi forestierismi rischiano di erigere un muro tra chi scrive e chi legge, a maggior ragione quando i lettori sono costituiti da un’ampia fascia della popolazione. Il linguaggio colorato dei giornalisti moderni, che sia carico di forestierismi alla moda, di neologismi o di metafore ed eufemismi particolarmente fantasiosi deve quindi saper essere maneggiato in modo corretto e consapevole, pena l’incomprensione.

Per concludere è importante ricordare che tra l’informazione economica e i fatti economici stessi esiste una correlazione molto stretta: “l’informazione è l’ossigeno del mercato”

(Meucci 2004: 28), genera e altera gli eventi. Ne consegue che, come i contenuti, anche la lingua utilizzata dai giornali esercita un influsso sul linguaggio economico specialistico.

3.4 Regolamentazione

Se la lessicografia specialistica ha conosciuto uno sviluppo intenso ma disordinato è anche perché non ha mai avuto alcun punto di riferimento (Gualdo 2011: 67). In Italia, infatti, non esiste un osservatorio linguistico centrale e istituzionalizzato come accade per esempio in Francia con l’Académie française o in Spagna con la Real Academia Española, né esistono centri specializzati nel monitoraggio della neologia specialistica, come l’Observatoire de néologie du Québec. Al fine di evitare l’imporsi di anglicismi e valorizzare le varianti endogene, nonché di armonizzare la terminologia economico-finanziaria nel suo insieme, restituendole, nella misura del possibile, la biunivocità e la monoreferenzialità che contraddistinguono le lingue speciali, l’Italia avrebbe bisogno di intensificare la ricerca terminologica. Il nostro paese, al contrario di altri dove la ricerca è attiva e proficua da tempo, ha per decenni rifiutato ogni intervento sulla lingua, in parte per il rigetto verso la politica linguistica attuata dalla dittatura fascista (Gualdo: online12). Solo negli ultimi vent’anni ha iniziato a muoversi qualcosa.

Nel 1991 è stata fondata l’Associazione Italiana per la Terminologia (Ass. I. Term) che si adopera per la normalizzazione della terminologia, soprattutto in quei settori come l’economia

12 http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/speciali/termini/Gualdo.html

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in cui l’inglese sovrabbonda, cercando di valorizzare i lessemi endogeni. L’associazione, inoltre, pubblica periodicamente liste di termini inglesi con i loro corrispondenti italiani, selezionati da specialisti. Infine, ha costituito il Centro italiano di riferimento per la terminologia tecnico-scientifica (Cirt)13.

A livello europeo nel 2005 la Direzione Generale della Traduzione della Commissione europea ha avviato il progetto della Rete per l’eccellenza dell’italiano istituzionale (REI), il cui obiettivo è “promuovere un italiano istituzionale chiaro, comprensibile e accessibile a tutti, garantendo nel contempo un elevato livello qualitativo”14. Diversi sono i gruppi di lavoro sulla terminologia economico-finanziaria e molto attivo è quello guidato da Maria Teresa Zanola. È utile ricordare, infatti, che anche la traduzione in ambito comunitario esercita una grande influenza sull’italiano. I testi, siano essi legislativi o divulgativi, trattano sia tematiche discusse anche a livello nazionale che concetti nuovi. Le traduzioni concorrono quindi da un lato ad affermare (o complicare) l’uso della termologia specialistica e dall’altro ad arricchirla. L’introduzione di realtà nuove rende infatti spesso necessaria la creazione di neologismi, che entrano nell’uso soprattutto attraverso l’integrazione delle leggi europee nella legislazione nazionale. La produzione terminologica segue principalmente due meccanismi: la risemantizzazione o la derivazione di parole già esistenti e il calco o prestito del termine del testo originale che nella maggior parte dei casi è redatto in inglese. Tuttavia, il fatto che i termini si sviluppino in una realtà esterna a quella nazionale e rappresentino “soluzioni obbligate” e non un’elaborazione linguistica dei parlanti, rende la terminologia comunitaria opaca e impenetrabile (Cosmai 2007: 34). La necessità di fornire una corrispondenza speculare tra i testi nelle varie lingue, inoltre, porta spesso a traduzioni troppo letterali che oltre a fomentare l’ambiguità dello scritto, sfociano in discordanze terminologiche e pertanto nella creazione di sinonimi (Tosi 2007: 127). Anche il cosiddetto «eurocratese», quindi, non è immune dalla proliferazione di anglicismi e sinonimi che vanno poi a loro volta ad alimentare la lessicografia specialistica italiana.

Nel quadro dell’Accademia della Crusca è stato invece costituito il Centro di Consulenza sulla Lingua Italiana Contemporanea (CLIC)15. Infine, tra le recenti ricerche dei linguisti, spicca quella di Giovanardi che, basandosi sulle teorie di Migliorini, ha proposto dei parametri per valutare se gli anglicismi che entrano in italiano sono sostituibili16.

13 Cfr. http://www.assiterm91.it/

14 Cfr. http://ec.europa.eu/dgs/translation/rei/

15 Cfr. http://www.accademiadellacrusca.it/it/laccademia/centri/centro-consulenza-lingua-italiana-contemporanea

16 Cfr. Giovanardi 2008: 38-49

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Non è necessario quindi arrivare a costituire un Consiglio Superiore della Lingua Italiana come era stato proposto nel 2001, né è questione di bandire qualsiasi anglicismo seguendo ideali puristi. Si tratta solo di promuovere la ricerca terminologica specializzata per riequilibrare il rapporto tra italiano e angloamericano da un lato, e evitare la dispersione di sinonimi e varianti dall’altro, due problemi che riguardano da vicino il LEF.

Tuttavia, nonostante gli sforzi in atto nel quadro delle iniziative descritte sopra, questi gruppi di lavoro non risultano essere particolarmente funzionali ed efficienti. Rimangono, infatti, realtà in ombra che per il momento non sono riuscite né a imporsi, né a esercitare un’influenza concreta sulla lingua.

4. Il caso del lessico della crisi

La crisi economico-finanziaria scoppiata nel 2007 e protrattasi fino a oggi ha avuto diverse ripercussioni a livello lessicologico, tra queste se ne possono identificare in particolare quattro. Innanzitutto ha generato neologismi per esprimere concetti e situazioni mai esistiti prima (attività tossiche, fiscal cliff, grexit, banche zombie). In secondo luogo ha spostato il lessico di ambiti specialistici all’uso quotidiano (bailout, subprime, default). Come già menzionato, gli eventi economici e finanziari hanno un grande impatto sulla persona comune, a maggior ragione eventi di vasta portata, per di più negativa, che sortiscono effetti quali disoccupazione, inflazione o aumento della pressione fiscale. Strettamente collegato a quest’ultimo aspetto, è il fatto che molti termini fino a pochi anni fa con un basso grado di utilizzo, hanno cominciato ad imperare in ogni ambito, più o meno specialistico. Rating, bad bank, swap, subprime non sono, come molti potrebbero essere portati a pensare, neologismi. Infine, alcune voci hanno assunto nel quadro della crisi un’accezione particolare (spread). Tutto questo ha portato a una “corsa ai forestierismi”, come la definisce Taglialatela (2011): un po' perché la crisi è mondiale, parte dagli Stati Uniti e poi si sposta in Europa, un po' perché l’inglese conserva, nonostante il tracollo finanziario, la sua aura di prestigio.

4.1 I canali di comunicazione presi in esame

Le pubblicazioni ufficiali della Banca d’Italia e della BCE nella loro versione italiana. Si tratta di rapporti e analisi sulla situazione economica e finanziaria italiana e internazionale.

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Sono testi “vincolanti”17 e molto autorevoli e come tali sono caratterizzati da un’alta specializzazione e sono rivolti a esperti del settore (operatori e analisti economici). Le pubblicazioni della Banca d’Italia, contraddistinte da un certo rigore stilistico e terminologico, costituiscono da sempre un punto di riferimento per la scrittura economica del nostro paese e, solo di recente, hanno iniziato a subire un processo di svecchiamento, sotto l’influsso dello stile giornalistico e del modo di esprimersi anglosassone. Si noti che, a differenza del Sole 24 Ore, informare non è la funzione primaria della Banca d’Italia, nonostante rimanga tra le più importanti fonti di informazione nel settore. Le pubblicazioni prese in esame sono le seguenti18:

 la Relazione Annuale:

“ampia analisi dei principali sviluppi dell’economia italiana e internazionale nell’anno precedente e nei primi mesi di quello in corso. Fornisce un dettagliato resoconto delle decisioni di politica monetaria e delle altre attività istituzionali della banca.”

 il Bollettino Economico:

“analisi della congiuntura e della politica economica della Banca. Fornisce informazioni sull’andamento dell’economia italiana - inquadrandolo nel più generale contesto economico internazionale e dell’area dell’euro - nei suoi aspetti più rilevanti.”

 il Rapporto sulla stabilità finanziaria:

“analisi del settore finanziario italiano della Banca. Fornisce informazioni sulle condizioni del sistema finanziario - inquadrandole nel contesto macroeconomico e finanziario mondiale - e sui principali fattori di rischio di origine interna e internazionale.”

 il Bollettino mensile della BCE (traduzione dall’inglese):

“it explains this decision [its monetary policy decision] and makes it more transparent by providing a detailed analysis of the current economic situation and risks to price stability.”

 il Rapporto Annuale della BCE (traduzione dall’inglese):

“it describes the activities of the European System of Central Banks (ESCB) and reports on the Eurosystem’s monetary policy of the previous year.”

Il Sole 24 Ore. È l’unico quotidiano in Italia d’impronta economica e finanziaria e costituisce per questo un punto di riferimento. È un giornale specializzato e può essere considerato

“mediamente vincolante”. Nonostante esso traduca in notizie i fatti economici, queste mantengono comunque un certo grado di tecnicità. Il lessico settoriale è più specializzato rispetto alle pagine economiche dei quotidiani generalisti. Anche se è nato per gli addetti ai

17 Sabatini suddivide i testi in tre categorie: testi vincolanti, testi mediamente vincolanti e testi poco vincolanti in funzione dell’intenzione dell’emittente di “regolare in maniera più o meno rigida l’attività interpretativa del destinatario”. Zanola ha applicato questa ripartizione ai testi di contenuto finanziario: la classe di appartenenza ha, infatti, una ricaduta sulle scelte terminologiche (Zanola 2006: 111-112).

18 Cfr. http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni e http://www.ecb.int/pub/html/index.en.html.

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lavori, negli ultimi trent’anni, di pari passo con la crescita del benessere complessivo e con l’internazionalizzazione della gestione del risparmio, si è rivolto sempre più anche a un pubblico sì colto, ma meno specializzato, desideroso di tenersi informato sulle vicende politiche ed economiche (Meucci 2004: 31-32). All’informazione strettamente economica si affiancano anche l’attualità politica, le trasformazioni sociali e i temi che riguardano le famiglie e la gestione delle imprese. Oggi lo leggono tanto gli operatori finanziari, gli economisti e gli imprenditori quanto gli artigiani, i commercianti, i pensionati o gli studenti.

Non per niente si tratta della terza testata del Paese per tiratura (Gualdo 2011: 367). Si notino anche la frequente presenza di note linguistiche che accompagnano gli articoli e le numerose pubblicazioni di libri, dizionari, manuali a fine divulgativo.

5. La crisi economica e finanziaria (2007-2012)

5.1 Le cause della crisi finanziaria statunitense

Quella che sarà considerata la crisi peggiore dopo la Grande Depressione del 1929 scoppia ufficialmente il 15 settembre 2008. Bisogna tuttavia ripercorrere alcuni fatti e avvenimenti del ventennio precedente per capire come si sia potuto giungere a tanto.

Per stimolare l’economia dopo lo scoppio della bolla delle dot.com e gli attacchi dell’11 settembre 2001, negli Stati Uniti la Federal Reserve (FED) abbassa drasticamente il tasso di riferimento che arriva a toccare l’1%. Bassi tassi d’interesse si osservano anche nelle altre economie avanzate. Ne consegue l’inevitabile gonfiarsi di una bolla mondiale della liquidità: in circolazione nel sistema finanziario vi è un’enorme quantità di denaro a basso costo che si traduce in un accesso facilitato al credito (Keeley 2010: 19). Ciò incoraggia famiglie e imprese a richiedere prestiti e lo stato a indebitarsi, fomentando così la spesa pubblica e privata e di conseguenza anche l’attività economica. Il risultato è un boom trainato dall’indebitamento.

La bolla della liquidità è gonfiata anche da ingenti flussi di capitale verso gli USA. Dalla fine degli anni Novanta si rilevano infatti crescenti squilibri mondiali, legati principalmente al disavanzo di conto corrente degli Stati Uniti con la Cina. I primi importano grandi quantità di prodotti made in China a prezzi concorrenziali, mentre la seconda esporta più di quanto non introduca. Per impedire l’inevitabile apprezzamento dello yuan e rimanere quindi competitivo sul mercato, il gigante asiatico ricicla le riserve di dollari risultanti dall’interscambio investendole in titoli di Stato USA. Dal canto loro, acquistando merci a basso costo, gli Stati Uniti riescono a mantenere sotto controllo l’inflazione la cui manifestazione sarebbe stata

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altrimenti ineludibile visto l’aumento della domanda aggregata. Grazie al collocamento dei capitali cinesi, inoltre, essi possono finanziare il proprio debito pubblico a un prezzo inferiore alla norma (Buckley 2011: 2). Questi due fattori permettono di mantenere bassi i tassi d’interesse e di continuare ad alimentare il boom economico. Come la Cina, anche altri paesi del Medio Oriente e dell’Est Asiatico iniziano a operare fondi sovrani oltreoceano.

I bassi tassi d’interesse e l’espansione economica che contraddistinguono non solo l’economia statunitense ma anche quella europea, contribuiscono a creare una bolla immobiliare, negli Stati Uniti come in paesi quali Regno Unito, Irlanda, Spagna e Paesi Bassi. Gli istituti di credito sono disponibili a prestare, sempre più famiglie richiedono mutui attratte dal basso costo del denaro, la domanda cresce, e così anche gli investimenti nel comparto edile: il settore del mattone è in piena fioritura e i prezzi degli immobili residenziali aumentano esponenzialmente.

Un’ulteriore importante causa della crisi è l’innovazione del sistema finanziario statunitense e, sul suo esempio, anche di quello europeo. Negli anni Novanta si assiste a una forte crescita dell’attività bancaria d’investimento, trainata dall’accelerazione dei mercati over the counter (OTC) e in particolare dei derivati. All’interno del settore creditizio prende infatti piede un nuovo approccio. Il modello conservatore di originate-to-hold che aveva finora contraddistinto la gestione bancaria si trasforma progressivamente in originate-to-distribute.

In altre parole tradizionalmente gli intermediari si concentravano per lo più su profitti modesti e distribuiti nel lungo periodo, ovvero sulla differenza tra interessi attivi e passivi, tenendo in bilancio i crediti erogati (Keeley 2010: 23). A partire dalla metà degli anni Novanta le istituzioni finanziarie iniziano a pretendere più profitto e, soprattutto, a breve termine. Ecco quindi che il loro approccio muta: invece di tenere i prestiti concessi li vendono a banche d’investimento che a loro volta li distribuiscono. Così facendo generano un profitto immediato, possono continuare a prestare denaro senza contravvenire ai requisiti patrimoniali e aumentare esponenzialmente i propri guadagni. Questa nuova gestione si riflette anche negli stipendi degli operatori finanziari: alla retribuzione fissa vengono ad aggiungersi ingenti bonus per tutti quei profitti generati nel breve periodo, a prescindere dalla possibilità che gli affari in questione possano, a lungo andare, far registrare delle perdite.

Questa evoluzione è promossa anche da una regolamentazione lassista. Nel 1999 negli Stati Uniti viene abrogato il Glass-Steagall Act, una legge introdotta dopo la Grande Depressione che disponeva la separazione tra banche commerciali e d’investimento. In Europa questa divisione già non era obbligatoria. A ciò viene ad aggiungersi la pressione esercitata sulle istituzioni finanziarie statunitensi dal governo Clinton prima e da quello Bush poi, affinché

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venissero concessi mutui anche a famiglie a basso reddito. Per incentivare questa pratica, dal 1992 il governo induce Freddie Mac e Fannie Mae19 ad acquisire un maggior numero di mutui a basso merito di credito dagli intermediari.

La possibilità di rivendere i prestiti, l’azione dei governi a favore della proprietà immobiliare e la bolla della liquidità in corso inducono le banche a prestare anche a soggetti a rischio. Da qui la nascita dei cosiddetti mutui subprime, ovvero quelli concessi a debitori in passato già insolventi o che non erano in grado di fornire garanzie circa il proprio reddito. La loro capacità di rimborsare il prestito, di fatto molto bassa, interessava poco i creditori, visto che avrebbero comunque ceduto il mutuo a un altro istituto, e con esso anche il relativo rischio.

Ma cosa fanno le banche d’investimento e le società quali Freddie Mac con i crediti acquistati20? Li cartolarizzano in strumenti derivati: i CDO (collateralized debt obbligation) e gli MBS (mortgage-backed securities). Come già accennato la banca d’affari acquista, finanziandosi a breve termine, crediti in quantità, molti dei quali a lungo termine e non affidabili (in prima linea mutui subprime ma anche debiti da carte di credito, finanziamenti auto, ecc.). Attraverso una società veicolo (SPV) appositamente creata, li impacchetta quindi in obbligazioni garantite dal flusso di cassa delle attività sottostanti. La SPV, spesso costituita in paradisi fiscali, permette principalmente di rimuovere i mutui dal bilancio dell’intermediario, rendendo così possibili nuove acquisizioni. Di fatto, però, in caso di perdite queste sono assorbite dall’istituzione finanziaria che l’ha costituita. La differenza tra i due tipi di derivati risiede semplicemente nella tipologia di attività sottostanti: i CDO sono garantiti da un portafoglio di prestiti di diversa natura mentre gli MBS da soli mutui.

A questo punto dal pacchetto (pool) di attività rischiose è possibile crearne di sicure. Esso viene infatti diviso in tre o più tranche a seconda della loro priorità di rimborso. Il flusso di cassa generato dalle attività sottostanti, ovvero dal rimborso mensile delle rate dei mutui e degli altri prestiti, viene utilizzato innanzitutto per il pagamento della prima tranche, poi per la seconda e infine per la terza. Così facendo il rischio viene distribuito e, teoricamente, ridotto.

Le agenzie di rating attribuiscono quindi alla prima tranche un alto merito di credito (AAA, tranche senior), alla seconda una sicurezza media (BBB, tranche mezzanine) mentre l’ultima non viene valutata ed è la prima ad assorbire le perdite (equity, spesso tenuta in portafoglio dall’emittente). Per rendere l’investimento ancora più sicuro e allettante, la prima tranche viene solitamente assicurata contro un’eventuale insolvenza tramite un CDS

19 Si tratta rispettivamente della Federal Home Loan Mortgage Corporation e della Federal National Mortgage Association, due società sponsorizzate dallo stato il cui ruolo è garantire la liquidità nel mercato immobiliare.

20 Con il venir meno della separazione tra banche commerciali e d’investimento, molti intermediari si occupano sia della concessione dei mutui che della loro cartolarizzazione, moltiplicando così i rischi per i risparmiatori.

Références

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