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Punti di riferimento per una teoria della territorialita' umana

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Punti di riferimento per una teoria della territorialita' umana

RAFFESTIN, Claude

RAFFESTIN, Claude. Punti di riferimento per una teoria della territorialita' umana. In: COPETA Clara. Esistere e abitare. Prospettive umanistiche nella geografia francofona . Milano : Franco Ageli, 1986. p. 75-89

Available at:

http://archive-ouverte.unige.ch/unige:4421

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DELLA TERRITORIALITA' UMANA di Claude Raffestin *

1. Dalle scienze della natura alle scienze dell'uomo

Sino a circa venti anni fa, non ci si poneva il problema di una ter- ritorialità umana nelle scienze dell'uomo. Rari erano gli autori che si interessavano a fenomeni che scaturivano dalla territorialità umana , e questo malgrado già esistesse l'ecologia urbana (Park, Burgess, McKenzie, 1925) e la corrente behaviorista basata sui comportamenti e sulla perce- zione. La territorialità umana considerata tutt'al più una «curiosità», era ed è ancora fecondata dalle problematiche e dai metodi delle scienze naturali (cfr. Malberg, 1980). Tema marginale, la territorialità umana sta diventando un paradigma che obbligherà, verosimilmente, parecchie discipline a « ripensarsi ».

Come tema, essa è stata presa in prestito dai naturalisti che, sin dal XVII secolo, hanno osservato il comportamento territoriale degli ani- mali e, più specificatamente, degli uccelli. Se il termine di territorio è stato impiegato fin dal XVIII secolo, quello di territorialità non appa- rirà che molto più tardi (Carpenter, 1958). È lecito tuttavia stupirsi del fatto che le scienze dell'uomo non abbiano preso in considerazione il fenomeno della territorialità se non molto più tardi, per di più in una prospettiva di transfert analogico che, alla lunga, si è rivelato non solo dannoso ma anche sterile. Pericoloso nella misura in cui il transfert ob- bliga a « cancellare » certe specificità umane la cui eliminazione conduce ad assimilare territorialità umana e territorialità animale. Ogni modello è, per natura, riduttore, ma diviene inaccettabilmente riduttore quando sche- matizza in maniera incoerente. Certi biologi sono andati al di là del tol- lerabile, come ad esempio Laborit per il quale non esiste più specificità

* Dipartimento di geografia, Università di Ginevra.

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umana che non sia già presente negli animali. Il film « Mon onde d'Amérique» realizzato da Alain Resnais e ispirato dalle idee di Laborit, è a questo riguardo un esempio in materia di incoerenza. Non si cada in errore, questa non è una critica al film, ma alla trasposizione cinema- tografica di una teoria etologica.

Se Soja ha ben ragione di affermare che « L'uomo è un animale terri- toriale e la territorialità condiziona il comportamento umano, a tutte le scale dell'attività sociale» (Soja, 1971), ha tuttavia torto di fermarsi su una via ben intrapresa, poiché avrebbe potuto (dovuto?) aggiungere che l'uomo è un animale semiologico la cui territorialità è condizionata dai linguaggi, i sistemi di segni e i codici. L'uomo procede, in qualche modo, alla « costruzione linguistica del mondo ». (Gadamer, 1976).

È evidentemente necessario ma non sufficiente, utilizzare d'accordo con i naturalisti le nozioni di distanza, centralità, distribuzione, densità e territorio, ma è ancora più necessario in materia di territorialità umana non perdere di vista che « il rapporto dell'uomo col mondo è caratteriz- zato dalla libertà verso l'ambiente (Umweltfreiheit) », libertà che « im- plique la constitution langagière du monde » (Gadamer, 1976).

È giustamente questo che crea la differenza fra la territorialità uma- na e la territorialità animale. Ogni collettività «semiologizza il proprio ambiente: « Squadrata, codificata, la città in cui viviamo è una scrittura:

tutto è segno, targhe, nomi di strade, percorsi, zonings, parcheggi, divie- ti; essa ha segni, ma è decifrabile — leggibile ad oltranza — la definisco semiologica» (Cauquelin, 1979). Bisogna dunque dare all'espressione

« constitution langagière du monde » un significato ampio che corrisponde a quello formulato da Saussure per questa scienza che studia la vita dei segni nella-vita sociale» (Saussure, 196.5). Questa scienza Saussure l'ha chiamata semiologia: «Poiché non esiste ancora e non si può dire quello che diverrà, ma ha diritto di esistere, il suo posto è già determinato ».

(ibid.). Si comprende bene che per Saussure la semiologia inglobava la linguistica, anche se, per lui, la linguistica restava il più importante siste- ma di segni.

Trascurare il ruolo dei segni negli studi della territorialità umana, non lasciare spazio alla « sémiophanie » umana significa condannarsi a con- fondere ambiente e mondo. I naturalisti, a ragione, prendono in con- siderazione solo l'ambiente, al quale l'animale non può sfuggire, mentre l'uomo può farlo per mezzo della cultura che è «une série d'actes de communication » (Goody, 1979).

Le modalità della comunicazione umana possono mutare e questi cambiamenti hanno la loro importanza nello « sviluppo delle strutture e dei processi cognitivi, nell'accrescimento del sapere e delle capacità

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che hanno gli uomini di conservarlo e arricchirlo ». Lévi-Strauss ha insi- stito molto sul fatto che «l'universo è oggetto di pensiero, o almeno lo è come mezzo di soddisfazione dei bisogni », (citato da Goody). Oggetto di pensiero, cioè prodotto dal e per mezzo del pensiero, esso è anche og- getti vazione di un modello di questo universo.

In questo modo, la carta è stata una delle prime oggettivazioni del- l'« univers pensé »: il territorio rappresentato è prodotto con l'aiuto di segni (punto, linea, piano) e, attraverso il gioco di scala, costituisce un modo per sfuggire all'ambiente immediato. Ogni tipo di carta, in quanto modello di qualche cosa, rivela delle preoccupazioni differenti e di con- seguenza una territorialità specifica. Benchè sia inutile entrare nel dibat- tito dell'orale e dello scritturale, nel passaggio dall'uno all'altro — che ha non soltanto costituito un cambiamento del modo di comunicare, ma per di più un mutamento di pensiero — tuttavia è necessario metterlo in rilievo. La sostituzione della scrittura con l'oralità ha coinciso con l'emer- gere della città responsabile, dopo la rivoluzione agricola, di una delle più notevoli trasformazioni della territorialità umana. Territorialità uma- na che può essere definita come l'insieme delle relazioni intrattenute dal- l'uomo, in quanto appartenente ad un gruppo sociale, con l'esteriorità e l'alterità per mezzo di mediatori o strumenti. « Esistono motivi per cre- dere che l'uomo e lo strumento siano due fenomeni indissolubilmente legati, e che, se è stato necessario l'uomo per creare lo strumento, solo creandolo l'uomo è divenuto ciò che è» (Prieto, 1966). Per Prieto, lo strumento e la sua utilità definiscono meglio di qualsiasi altra caratteri- stica ciò che è « l'umano ».

I modelli della territorialità animale, elaborati dai naturalisti, sono sicuramente interessanti ma conviene collocarli in una posizione gerarchi- camente inferiore a quelli della territorialità umana dal punto di vista del-la loro complessità poiché essi praticamente non prendono in considera-zione la dimensione semiologica che si riferisce alla categoria degli stru-menti: « Non solamente dunque, lo strumento conferisce all'uomo la possibilità di agire sul mondo esterno, di sottometterlo ai suoi bisogni o interessi, ma gli fornisce classi di oggetti, cioè i concetti, di cui la sua intelligenza si serve per cogliere il mondo esterno, per concepirlo» (Prieto, 1966).

La territorialità umana non è dunque soltanto costituita da relazioni con territori concreti ma anche da relazioni con territori astratti come lingue, religioni, tecnologie, ecc: «Esiste una relazione complessa tra l'uomo, nella sua manifestazione societaria, e l'ambiente fisico in cui agisce: questa relazione è descrivibile come organizzata secondo una :.. serie di regole, comunicabili e implicite nelle relazioni societarie stesse»

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(Castelnovi, 1980). In questo modo, i mediatori e i processi di comuni- cazione costituiscono gli elementi fondamentali nello, studio della terri- torialità umana, elementi che devono avere un ruolo fondamentale in una teoria della territorialità umana.

A questo punto, mi viene in mente una metafora, vecchia di 3000 anni di storia: quella del labirinto. In essa il ruolo dei mediatori è cosi fondamentale che se, per astrazione, li si sopprime... ecco che il mito non esiste più! Senza Dedalo « fornitore di strumenti » non ci sarebbe più un simulacro per permettere a Pasifaè di consumare la sua passione per il toro; senza Dedalo, ancora, non si avrebbe lo spazio architetturale per rinchiudere il Minotauro; senza Dedalo, infine, non ci sarebbe ascia né filo per uccidere il Minotauro e uscire dal labirinto. Mediatore lui stesso, nel senso proprio del termine, Dedalo è in apparenza un personaggio secondario, mentre in realtà è proprio lui che scioglie le situazioni e per- mette il realizzarsi delle sequenze successive del dramma. Il mito del labirinto è fondato sull'invenzione e la produzione degli strumenti. Sono gli strumenti ed i concetti che danno significato alla territorialità umana per il fatto stesso che le maglie, i nodi e le reti sono prodotti da sistemi di strumenti tecnici, economici, sociali, culturali e politici. Queste ma- glie, nodi e reti costituiscono un sistema territoriale (mega-mediatore) mediante il quale ogni società regola i suoi rapporti con lo spazio per ac- quisire la propria autonomia (vedi fig. 1).

2. Strumenti territoriali e autonomia

La produzione territoriale combina sempre le maglie, i nodi e le reti. Tuttavia, in ogni civiltà la combinazione di questi tre strumenti è sol- lecitata in maniera differente a creare delle riserve. In altri termini, se queste civiltà ricorrono a questi tre strumenti essenziali, esse privilegiano l'uno o l'altro per costruire la loro autonomia che è il cuore della terri- torialità, la cui finalità è il controllo e la regolazione di tali « riserve ».

Nelle civiltà tradizionali predatrici, nomadi o semi-nomadi, si ritro- vano le tre invarianti territoriali, ma esse si presentano in modo fluido.

In effetti esiste una maglia, il territorio percorso, che viene delimitata"

ed è quest'area che costituisce la « riserva » delle risorse utili. I nodi sono giustamente dei punti di « fissazione » alimentare e di rifugio: sono le « riserve » che si rinnovano periodicamente in modo stagionale. Le reti sono costituite dai tragitti e dai percorsi regolarmente frequentati.

In Age de pierre, dge d'abondance, Marshall Sahlins ha dimostrato in modo perfetto che l'autonomia aveva dei rapporti stretti con l'obiet-

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tivo che i gruppi si assegnavano nella produzione territoriale:

I cacciatori-raccoglitori hanno, per forza di cose, un livello di vita oggetti- vamente basso. Ma se tale è il loro obiettivo, e se dispongono di mezzi di produzione sufficienti, i bisogni materiali possono generalmente essere sod- disfatti senza difficoltà (Sahlins, 1972).

In questo caso è il territorio delimitato da segnali che costituisce

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la riserva naturale. Appena i confini non vengono rispettati dai gruppi estranei, ed alcuni punti diventano inaccessibili o dei tragitti non percorribili ecco la crisi; è la perdita dell'autonomia che si traduce in uno squilibrio che può arrivare sino alla scomparsa del gruppo in que- stione. Nel territorio del gruppo primitivo, l'organizzazione privilegia soprattutto la dimensione orizzontale e sono gli uomini che « si muovo- no » passando da una « riserva rinnovabile » trovata, a un'altra. Essi vivono dunque costantemente nell'incertezza, per assenza totale di pre- visione, il loro grado di autonomia è una funzione della probabilità di rinnovamento delle risorse da una stagione all'altra. In altri termini, la riserva esiste ma non costituisce stock nel senso che essa non è che una riserva a tempo determinato, perfettamente conosciuta in quanto mi- surata.

Nelle tradizionali civiltà produttrici, il passaggio all'agricoltura e al- l'allevamento, codificherà in modo considerevole lo schema precedente Prima di tutto, c'è la sedentarizzazione, almeno per un «lungo periodo dell'anno, poiché esistono veri villaggi e un'organizzazione che mantie- ne il bestiame in contatto almeno periodico con l'habitat fisso » (Le-roi- Gourhan, 1964). La sedentarizzazione può essere interpretata come funzione della probabilità dello stockaggio delle risorse. Di fatto, le pri- me concentrazioni sedentarie saranno provviste « di strutture di prote- zione, palizzate o mura di difesa, recinto per bestiame e silos inter- rati» (ibid.).

Le palizzate non rappresentano solamente una difesa, ma anche la delimitazione di un'area di trasformazione dello spazio originario; la palizzata delimita e sottolinea il territorio prodotto. Il terreno recinta- to per il bestiame e i silos per il grano sono riserve per eccellenza, cioè luoghi di stockaggio che permettono l'esistenza di un gruppo umano già importante. « Con decine di individui, riuniti intorno alle riserve ali- mentari e protetti dall'ambiente naturale e dai loro simili per mezzo di apparati difensivi » (Ibid.). All'ambiente naturale si oppongono i campi « addomesticati » da associazioni vegetali, campi lavorati e col- tivati con regolarità. La sedentarizzazione rivela un alto grado di auto- nomia fondato non più sulla mobilità degli uomini che si recano da un punto all'altro, ma sulla creazione di un sistema di riserva. Sistema di riserva che mobilizza le risorse per tenerle a disposizione degli uomini in uno o più punti fissi. Esiste un sistema nella misura in cui esiste una « catena di risorse » dalla produzione di un nuovo stato di natura da preservare con il lavoro sino a che i beni siano ammassati, prima forma di capitalizzazione. È chiaro che in questo tipo di civiltà è la ma- glia che viene attualizzata da tutta la produzione territoriale e viene

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dunque privilegiata poiché è il pezzo forte del sistema di riserva. La maglia agricola è il luogo di produzione per eccellenza e la riserva deri- va direttamente da essa. Si conosce bene tutto il cerimoniale che, nel- l'antichità, era consacrato alla pratica della confinazione. Il culto per Terminus nell'antica Roma ne è testimone eloquente. L'autonomia di queste civiltà era tutta nell'organizzazione, il controllo e la difesa delle maglie agricole. Si pensi alla quadrettatura regolare del suolo nell'antico Egitto, base della proprietà... e dell'imposta fondiaria. All'indomani del- le inondazioni, bisognava ritrovare la maglia da coltivare, fonte della ric- chezza futura e promessa di un rinnovo annuale delle riserve. L'auto- nomia dipende dalla padronanza delle maglie difese contro l'esteriorità.

L'apparizione o meglio l'emergenza della città costituirà, secondo la bella espressione di Leroi-Gourhan, il « fulcro » della nuova organizza- zione spaziale: « Essa è chiusa nella sua cinta difensiva, centrata sulle riserve di cereali e sul tesoro ». Ancora una volta si ritrova questa no- zione di limite-muro, cinta, mura, la cui esistenza, come si è visto, rivela la prima manifestazione della produzione territoriale. Tuttavia, con la città, il « système de réserve » diviene più complesso. Non esiste più solamente il luogo materiale, le « grenier », la riserva propriamente detta nella città, ma vi è costruzione, produzione di un territorio di cui la città diventa il centro. Produzione diversificata poiché l'autonomia della città è funzione del suo approvvigionamento. Braudel ha dimostrato bene nei suoi lavori che la città deve dominare una superficie agricola periurbana la cui grandezza dipende direttamente da quella della popo- lazione urbana da nutrire. L'autonomia urbana può essere-assicurata solo controllando la produzione cerealicola dei dintorni o controllando le stra- de che congiungono un'area cerealicola alla città. Da quel momento il sistema di riserva diventa una vera catena di elementi territoriali arti- colati gli uni con gli altri. La città delle civiltà tradizionaliste costituisce una nodosità. Da questo momento, anche se lentissimamente e progres- sivamente, il sistema delle riserve è collegato a nodi urbani. Il nodo, come strumento territoriale, è privilegiato.

La città mette allora in atto una politica per controllare il sistema di riserva che comprende la superficie di produzione cerealicola, le vie di circolazione che conducono alla città, il mercato urbano e i luoghi di stockaggio. Le città pre-industriali hanno conosciuto una autonomia che dipendeva dal loro grado di controllo di questa articolazione, presa nel suo insieme, e dei suoi elementi presi a sé.

È a partire dal XIV-XV secolo, quando le città hanno cominciato a svilupparsi, che il rapporto città-campagna, ha assunto un tono con- flittuale. Non è un gioco pari, ciò che la campagna perde la città non

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lo guadagna, e viceversa, ma è il realizzarsi di una dominazione urbana sempre più reale, sempre più pesante, sulla campagna che manifesterà la sua opposizione attraverso rivolte più o meno frequenti, più o meno puntuali. Il rapporto città-campagna si identifica insomma, con la storia dell'acquisizione o della perdita dell'autonomia.

La storia del contado delle città italiane come Pisa e Pistoia, per non citare che degli esempi, è ben conosciuta. Il contado è sotto il con- trollo della città e deve fornire il grano a buon mercato affinché il pane sia a buon mercato per poter mantenere bassi i salari degli artigiani che lavorano nel settore tessile o in qualche altra forma di artigianato. La campagna non ha la libertà di produrre il proprio territorio, essa deve adattarlo in funzione dei bisogni della città. Bisogni che possono cam- biare se la città è riuscita a trovare altrove una fonte cerealicola meno cara. In questo caso, il paesaggio del contado muta; si abbandona la coltura dei campi e si obbligano i contadini a divenire allevatori di montoni per fornire la lana agli artigiani. L'eteronomia dei contadini in rapporto alla città è sensibile, e lo è tanto più in quanto i ricchi borghesi controllano spesso una parte importante delle terre nei dintorni. La produzione territoriale è quasi interamente condizionata dagli attori ur- bani e dai loro obiettivi.

Vie di circolazione vengono aperte, costruite, ben mantenute e con- trollate per aumentare il livello di autonomia della città; esse sono in qualche modo « raggi » che si saldano al « fulcro » costituito dalla città.

Si conosce bene l'importanza assunta dalle strade nell'emergenza o nella sparizione di poteri urbani. Se il sistema d'assi si sconvolge, la prospe- rità aumenta o declina.

Il mercato urbano costituisce di per sé un meccanismo di regola- zione, in effetti determina i prezzi delle risorse. Ma la città utilizza, attra- verso i suoi regolamenti, il mercato per accrescere indebitamente le sue riserve. In effetti certe città avevano delle regole che proibivano ai con- tadini di far uscire dalla città il grano che vi avevano portato. Da quel momento il grano non vénduto era svenduto e ingrossava le riserve urba- ne. Per mezzo di questi regolamenti, la città diventava una trappola di risorse. Molto spesso, le città possedevano delle istituzioni per lo sto- ckaggio, tipo « Chambre des blés », che si incaricavano dell'approvvigio- namento della collettività e assicuravano cosi i mezzi per superare le crisi, per resistere alla penuria o alle carestie.

Il sistema di riserva comprendeva così diversi strumenti territoriali:

i campi coltivati, le strade, i mercati e i granai. Le strategie tendevano a controllare tutto o almeno due degli elementi, i mercati e i granai per esempio. In questo modo ogni produzione territoriale è contempo-

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rancamente una produzione, specifica di tempo per poter durare.

Se durante il periodo pre-industriale il sistema di riserva verteva soprattutto su dei beni essenziali, quali i cereali, soprattutto il grano, altri strumenti territoriali hanno dovuto essere realizzati per assicurare il meccanismo generale dello stockaggio. Si pensi, specificatamente, alle società idrauliche fondate per il controllo, la gestione e la ripartizione dell'acqua. In questo caso, l'autonomia è basata sulla gestione di una risorsa primaria.

Vestigia di ciò è ad esempio il tribunale dell'acqua a Valenza.

Con l'avvento delle civiltà contemporanee da alcuni definite « razio- nali » (Poirier, 1972), l'integrazione dei sistemi urbani privilegerà la terza invariante territoriale: la rete. Si dovrebbe dire le reti poiché in effetti queste si sono moltipllcate. Certo, le reti di circolazione degli uomini e dei beni sono state attivate da molto tempo, ma la novità risie- de nell'avvento e la moltiplicazione delle reti di comunicazione distinte dalle reti di circolazione. Oggigiorno, una delle condizioni dell'autonomia risiede nel controllo delle reti di comunicazione dell'informazione. L'in- formazione è, con l'energia, la risorsa essenziale che circola attraverso reti, sempre più complesse: « L'effettivo governo di ampie aree dipende in gran parte dall'efficienza della comunicazione » (Innis, 1950). In pochi secoli, si è passati da reti di comunicazione interpersonali informali a reti formali e a reti di comunicazione di massa. Esistono, attualmente, più di un centinaio di satelliti di telecomunicazione in orbita. Saturano quasi completamente lo spazio mondiale.

Il controllo di queste reti è divenuto una importante posta politica ed economica, nell'esatta misura in cui esse sono utilizzate non . - solo per la diffusione e la trasmissione dell'informazione, ma anche per il controllo e la sorveglianza dello spazio planetario.

Se le reti condizionano sempre più l'autonomia delle collettività, ciò è dovuto al fatto che l'informazione «è diventata una risorsa-base (al- cuni diranno una nuova materia prima, una nuova fonte di energia) per la gestione della società» (Mattelart e Piemme, 1983). Essa è multi- forme, varia dalle proibizioni ai brevetti, passando dai dati tecnici, la pubblicità e la finzione. Non è dunque per caso che « l'industria dell'in- formazione è diventata un settore economico avanzato».

Perciò dire che l'informazione è divenuta una merce è banale. Tutta- via, da questa banalità bisogna tirar fuori una grave conseguenza: l'au- tonomia dipende sempre più dall'accesso a questa informazione. Se la ripartizione delle risorse rinnovabili e non-rinnovabili deriva da fattori non umani, climatici, pedologici e geologici, la distribuzione dell'infor- mazione deriva da decisioni umane: « esistono ormai paesi ricchi e paesi

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poveri di dati (data rich and data poor) ». L'informazione è dunque fondamentale per tutte le politiche. L'accesso o il non-accesso all'infor- mazione determina il processo di territorializzazione, deterritorializzazio- ne e riterritorializzazione delle società: i sistemi di segni valorizzano o svalorizzano, costruiscono o distruggono, fanno apparire o scomparire:

« Favoriscono l'accesso di larghi strati di tecnici alla costruzione di nuo- ve sedi di potere e ricompongono la distribuzione sociologica della vec- chia classe operaia» (Ibid.). La ripartizione dei lavoratori e la distribu- zione dei capitali sono condizionate da una nuova logica informazionale che si elabora in nodi primaziali ma la cui diffusione è assicurata da reti sempre più astratte.

Senza la rete l'informazione non ha valore. Tutto sommato l'informa- zione conta poco, ciò che conta è la rete per comunicarla e diffonderla. La famosa teoria delle località centrali di Christaller, che data del 1933, dimostra che i nodi sono stati relativamente più importanti che le maglie a partire dalla rivoluzione industriale, ma dopo gli anni '50, i nodi sono stati sostituiti dalle reti e l'invenzione della teoria dell'informazione da parte di Claude Shannon ne è sintomo.

La teoria della comunicazione organizza ora il sistema territoriale e il processo territorializzazione-deterritorializzazione-riterritorializzazio- ne, attraverso il quale è possibile acquisire, perdere o ritrovare l'auto- nomia. Manca una teoria delle reti che dovrebbe completare la teoria delle località centrali. Si giunge a questo paradosso: lo sviluppo straor- dinario delle reti di comunicazione è una condizione basilare dell'autono- mia ma nel contempo costituisce la possibilità di una perdita di autono- mia culturale senza precedenti.

Ci si può chiedere se all'antico despotismo orientale delle società idrauliche non corrisponderebbe, presentando d'altronde le stesse con- dizioni, un despotismo occidentale delle società informazionali.

Entram-bi i despotismi sono fondati su reti di natura diversa certo, ma le cui pro-blematiche sono congruenti.

Ciò che è stato detto delinea a piccola scala una possibile ecogenesi (Hussy, 1980). Ecogenesi nella quale si legge un processo di territoria- lizzazione-deterritorializzazione-riterritorializzazione responsabile della successione delle differenti territorialità umane. A questo punto è utile tentare di tracciare una teoria della territorialità umana.

3. Schema per una teoria

« Ego, hic et nunc » potrebbe essere la locuzione fondatrice del prò-

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cesso: « Una fenomenologia dello spazio, come una fenomenologia del tempo, partirà dal mio corpo, Qui e Ora, e lo considererà come centro»

(Moles, Rohmer, 1972) poiché, « senza un soggetto vivente, né il tempo né lo spazio esistono » (Uexküll, 1956). Il centro, soggetto vivente è fonte di segni di ogni ordine, materiali e immateriali: «Esiste un tipo particolare di strumenti, la cui apparizione si è verificata verosimilmente, abbastanza tardi...: sono gli strumenti chiamati "segni" la cui funzione consiste nella trasmissione di messaggi » (Prieto, 1966). Produrre un segnale, è dar vita a un « acte sémique » che serve a informare un recet- tore di qualche cosa. Si è già visto che uno degli atti semici particolar- mente importanti, è quello del tracciare o iscrivere confini. Il confine è un segnale che ordina, contiene e regola il territorio. André Chastel ha fatto delle osservazioni simili per gli strumenti architetturali quando scrive che « L'architettura comincia dal segno... la finalità dei segni nello spa- zio si ritrova periodicamente con iniziative come la Torre Eiffel, la fascia di grattacieli intorno all'Empire State o al lago Michigan, il Golden Gate o il Cristo di Rio » (Chastel, 1981).

Tutto ha origine con il « regere fines » dell'« Io » o del « Noi », cioè la proiezione nello spazio concreto o astratto di una informazione « giu- sta » di cui l'Io e/o il Noi sono portatori. L'insieme dei confini definisce, inquadra, distingue una interiorità caratterizzata da un contenuto. Que- sta proiezione è la prima sequenza della fase di territorializzazione, essa stessa parte di un ciclo territorializzazione-deterritorializzazione, riterrito- rializzazione (vedi fig. 2).

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I modelli del tipo Von Thünen, polarizzati sul problema della rendi-ta, riescono a rendere conto e a illustrare questa prima fase della territo- rializzazione. La città trasmette dei segnali, i prezzi, che, tenuto conto delle ipotesi proprie ai modelli, contribuiscono a strutturare lo spazio agricolo che la circonda. In questo modo si produce un territorio intor-no alla città e si attua un sistema di relazioni, è questo sistema che giustamente definisce la territorialità, non tutta la territorialità ma alme- no quella che fa riferimento alle relazioni economiche. La territorializ- zazione che sbocca, in questo caso, su un insieme di maglie delimitate che partono da un nodo collegato ad una rete, resta stabile, cosi come la territorialità, purché i segnali varino tra limiti ben determinati. Una modificazione sensibile dei segnali — i prezzi — o la loro scomparsa produrrà, a termine, dei cambiamenti nella territorializzazione. A termi-ne poiché bisogna tener conto dell'isteresi del sistema, cioè un ritardo dell'effetto sulla causa. Se la modificazione nell'emissione dei segnali persiste, si entra nella seconda fase del ciclo, cioè la deterritorializzazio-ne.

Ciò equivale, in un certo modo, ad una crisi dei confini e nello stesso tempo ad una crisi delle relazioni, dunque della territorialità precedente. Per comprendere questa seconda fase, bisogna introdurre un secondo ciclo che sottende il primo, cioè il ciclo dell'informazione che potrebbe comprendere tre fasi: innovazione, diffusione, obsolescenza. Si vede, im- mediatamente, che questo ciclo è ricalcato su quello del prodotto inven-tato da Vernon, innovazione-sviluppo-maturità. L'innovazione che si rea-lizza in un qualsiasi punto, può restare senza conseguenze se non viene dapprima accettata e poi diffusa. Così, nel modello di Van Thünen, si può immaginare che un artigiano inventi un procedimento che necessiti di una più grande quantità di tale o tal altro prodotto agricolo. Se l'inno-vazione non è accettata e non si diffonde fra gli artigiani, essa non viene accolta e dunque non succede nulla. Al contrario, se la diffu-sione ha successo, la campagna entrerà in una fase di deterritorializzazio-ne che costituisce la fase critica con caduta della domanda per certi pro-dotti e crescita della domanda per il prodotto proposto dall'innovazione. La diffusione continua conduce a una riterritorializzazione, dunque a una nuova territorialità, a un nuovo insieme di relazioni con l'esteriorità e con Palterità. Sino a quando una nuova innovazione ha successo la nuo-va territorializzazione resta relativamente stabile. L'obsolescenza di una informazione si attua quando nuove informazioni, nello stesso ordine di attività, emergono e si diffondono. Si può tentare di schematizzare que-sto processo (v.d. p. 85).

Questo schema è evidentemente straordinariamente riduttore nella misura in cui non esiste solo un'unica innovazione, ma numerose, che

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si combinano, si equilibrano o al contrario creano delle nuove sinergie.

E a tutto ciò va aggiunto che la linearità dello schema si accorda male con il carattere sistemico delle trasformazioni.

La territorialità umana può essere espressa in questo caso dalla evo- luzione delle fasi di un doppio ciclo. Essa è dunque, per essenza, dina- mica, è fatta di continuità e discontinuità. Si può parlare della no- zione di ciclo della territorialità non soltanto a piccola, ma anche a grande scala. Sia le società che gli individui passano attraverso dei cicli di territorialità. Cicli condizionati da sistemi di informazione e da modelli che generano le nostre azioni.

In questa prospettiva la territorialità viene definita dall'incon- tro di due processi, uno territoriale (TDR) e l'altro informazionale (IDO). Questo incontro si inscrive in una problematica relazionale:

« Tutto è relazionale e nulla esiste e può esistere al di fuori di questi fenomeni di rapporto » (Lupasco, 1971). La territorialità appare così co- me l'interazione tra due sistemi, uno spaziale e l'altro informazionale nella prospettiva di assicurare l'autonomia di una collettività nel tempo.

Questa teoria in embrione non è chiaramente che l'abbozzo di una idea da provare nell'elaborazione dei modelli. Per il momento, essa costi- tuisce un asse di riflessione che si fonda sull'ipotesi che le relazioni con l'esteriorità e con l'alterità sono largamente condizionate dalle modifica- zioni che sopravvengono nei sistemi di segnali. Questi mutamenti di segnali obbligano ad adattarsi per mantenere l'autonomia della colletti- vità.

4. La territorialità umana: tema o paradigma?

La geografia umana, fino ad ora, non ha visto nella territorialità che un tema in più da annettere al suo corpus. Tema, è vero, sempre più presente nei differenti rami rurale, urbano, sociale, economico o poli- tico. Ma si tratta più di una aggregazione che di una integrazione. Aggre- gazione tematica provocata dal successo di opere fondamentalmente empiriche il cui interesse è più nel descrittivo che nell'esplicativo (Hall, 1971; Goffman 1973).

D'altronde la prossemica e la messa in scena della vita quotidiana interessano la territorialità a grande scala nella prospettiva del compor- tamento, prospettiva fortemente influenzata dall'etologia animale. Né Hall né Goffman sono riusciti a formulare una teoria che avrebbe permesso l'elaborazione di modelli. Ci troviamo in presenza di un

«arcipelago» di conoscenze piuttosto che di un «continente» che

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sarebbe caratterizzato dalla continuità. Ora solo la continuità permette dei progressi, poiché anche se la teoria non è soddisfacente, costituisce la sola promessa di una riorientazione delle ricerche. Sarebbe errato pen- sare che la teoria debba avere, all'origine, molto più che un ruolo euri- stico: è sufficiente che essa fornisca piste che costituiranno altrettanti

« ponti » tra le isole dell'arcipelago.

L'urgenza di una teoria è reale poiché, se la territorialità umana emerge nelle scienze dell'uomo, ciò deriva dal fatto che esse si sono confrontate con una problematica dell'esistere, presente confusamente in tutte le nostre società e alla quale noi non riusciamo a dare delle rispo- ste. Il nuovo asse delle ricerche geografiche potrebbe trovarsi tra il deserto e il formicaio, tra il nulla e il troppo. Ogni territorialità è sottesa da un asse di popolamento. La ricerca di una pianificazione ottimale, sia dal punto di vista fisico che dal punto di vista sociale, passa per una analisi della territorialità umana. Il « troppo poco » del deserto sbocca su una impresa incerta e aleatoria, il « troppo » del formicaio mette in crisi i sistemi di controllo e di regolazione. Nei due casi l'autonomia del gruppo è, nel tempo, minacciata. In termini di informazione, invece, vi è, in un caso, insufficienza di segnali, e nell'altro eccesso di segnali. Le due si- tuazioni sono generatrici di rotture e di incertezze.

La territorialità umana, come analisi di sistemi di relazioni, diviene per la geografia umana un vero paradigma che può permettere di trovare una interfaccia tra scienze e quotidianità, tra pratica e conoscenza. Essa è, in ogni caso, una istanza referenziale nella soluzione dei problemi che implicano lo spazio, in senso lato, come bene raro.

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