• Aucun résultat trouvé

Il pensiero e la prassi cristiana di fronte alla tortura: elementi per un bilancio critico

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2022

Partager "Il pensiero e la prassi cristiana di fronte alla tortura: elementi per un bilancio critico"

Copied!
22
0
0

Texte intégral

(1)

Article

Reference

Il pensiero e la prassi cristiana di fronte alla tortura: elementi per un bilancio critico

BONDOLFI, Alberto

BONDOLFI, Alberto. Il pensiero e la prassi cristiana di fronte alla tortura: elementi per un bilancio critico. Annali di scienze religiose, 1997, no. 2, p. 301-318

Available at:

http://archive-ouverte.unige.ch/unige:12946

Disclaimer: layout of this document may differ from the published version.

(2)

A

LBERTO

B

ONDOLFI

IL PENSIERO E LA PRASSI CRISTIANA DI FRONTE ALLA TORTURA:

ELEMENTI PER UN BILANCIO CRITICO

«È più facile predicare sulla tortura che fondare la sua proibizione».

Schopenhauer perdonerà, così spero, l’adattamento del suo motto ri- guardante la morale in genere, poiché esso viene qui postulato in uno spirito che vuol essere vicino al suo filosofare1. Scopo del presente scritto ed al contempo sua struttura di fondo è innanzitutto quello di informa- re sulle attitudini passate e presenti della morale cristiana nei confronti della tortura, inoltre quello di dare una risposta argomentata a questo quesito a livello di principio e infine quello di indicare alcune vie per un superamento di questa pratica nei fatti. Nel contempo si vuole qui anche rifiutare argomentativamente i tentativi attuali di rilegittimare la pratica della tortura a partire da situazioni-limite in cui pensano di do- versi trovare alcuni governi contemporanei implicati in conflitti armati.

Il termine tortura può assumere vari significati, rendendo così mag- giormente confusa la discussione normativa propriamente detta. Per que- sto motivo intendo proporre qui una definizione di lavoro, passibile evi- dentemente di revisione o ulteriore precisazione: tortura, sempre secon- do questa definizione di lavoro, è ogni afflizione diretta e intenzionale di dolore fisico o psichico ad una persona coinvolta in un procedimento penale o perlomeno in uno stato di fermo, a sua volta legale o meno, con lo scopo di ottenere attraverso di essa, vantaggi od informazioni utili.

La sommaria ricostruzione storica che seguirà non porterà alla luce materiali storici finora sconosciuti, bensí cercherà solo di sintetizzare informazioni molto disperse e di metterle al servizio di un’argomenta-

1 Questo testo riprende, rielabora ed amplifica le considerazioni che ho tenuto in una prolusione alla Facoltà di Teologia di Lucerna il 26 giugno 1996. Una prima versio- ne di questo testo era apparsa sotto il titolo: «Folter in der christlichen Tradition: Wie kann man aus den Fehlern der Vergangenheit lernen?», in Schweizerische Kirchenzei- tung (1996) 687-698. Una versione più ampia è apparsa quindi in italiano con il titolo:

«Il pensiero e la prassi cristiana di fronte alla tortura: elementi per un bilancio critico», in Annali di scienze religiose 2 (1997) 301-318. È questo testo che riprendo in questa sede, attualizzando l’informazione storica ed aggiungendo un paragrafo sulla discussio- ne e problematizzazione contemporanee. La citazione di Schopenhauer risale al famo- so detto: «Moral zu predigen ist leicht, sie zu begründen hingegen schwer», premesso all’ed. della sua opera: cf F. SCHOPENHAUER, «Preisschrift über die Grundlage der Mo- ral», in ID., Kleinere Schriften III, Frankfurt/M., Suhrkamp Verlag 1989, qui a p. 629 (con cit. dei testi paralleli).

(3)

zione etica quanto mai urgente, in un mondo in cui c’è ancora chi di- fende pubblicamente la legittimità morale della tortura stessa. Ne ho fatto personalmente l’esperienza in due viaggi in Cile, in cui ho potuto avere un contatto diretto sia con torturati che con persone che legitti- mavano questa pratica e probabilmente vi avevano anche presieduto2.

1

SEGNALI AMBIVALENTI

NELLA STORIA DELL’ETICA CRISTIANA La pratica della tortura è nota a molti popoli e presente in numerose procedure giudiziarie già a partire da epoche remote. Altrettanto antica è comunque anche la critica morale e politica alla tortura stessa3. Que- sta copresenza vale sia per l’area cristiana che per le tradizioni non cristiane, perlomeno per quelle europee.

Quando le prime comunità cristiane si stabilirono nel mondo romano la tortura era già parte integrante della cultura giuridico-penale dell’im- pero. Va comunque subito precisato che tale pratica, almeno per il perio- do repubblicano, era applicata ai soli schiavi, considerati giuridicamente come “cose”4. Uomini liberi non venivano torturati, sempre nel periodo che precede l’impero, nell’ambito di un processo penale. La distinzione tra “liberi” e “schiavi” era cosí interiorizzata nella cultura romana da prevedere persino la tortura di schiavi ritenuti innocenti, solo per since- rarsi della correttezza di una testimonianza data da un padrone libero5.

2 In queste occasioni ho presieduto una delegazione delle Commissioni europee Justitia et Pax. Cf il rapporto in Gesetz, Justiz und Repression in Chile, a cura della Deutsche Kommission Justitia et Pax, Bonn 1987.

3 Cf come tentativo di sintesi storica della tradizione cattolica: F. COMPAGNONI, «La tortura e la pena di morte nella tradizione della chiesa cattolica romana», in Concilium 14 (1978/10) 87-110. Cf anche la documentazione in L. CHEVALIER, «Torture», in R.

NAZ (a cura di), Dictionnaire de droit canonique, Letouzey, Paris 1935-1965, vol. 7, 1293-1313; R. LIEBERWIRTH, «Folter», in A. CORDES (a cura di), Handwörterbuch der deutschen Rechtsgeschichte, Schmidt Verlag, Berlino 20042, vol. 1, 1149-1152.

4 Cf alcune testimonianze in CICERO, Pro Cluentio, 63,177; Pro Sulla, 28,78; QUIN-

TILIANUS, Institutiones Oratoriæ, V, 4.

5 Per una ricostruzione storico-giuridica fondamentalmente completa cf P. FIORELLI, La tortura giudiziaria nel diritto comune, Giuffrè, Milano 1953, 2 voll., cosí come anche: F. HELBING - M. BAUER, Die Tortur. Geschichte der Folter im Kriminalverfahren aller Zeiten und Völker, Berlin 1926 (Scientia Verlag, Aalen 19832). Per un’informazio- ne più recente e che tiene maggiormente conto delle difficoltà ermeneutiche legate alle fonti giuridiche cf la solida monografia di M. SCHMOECKEL, Humanität und Staatsrai- son. Die Abschaffung der Folter in Europa und die Entwicklung des gemeinen Straf- prozess- und Beweisrechts seit dem hohen Mittelalter, Böhlau Verlag, Köln 2000. Una monografia maggiormente divulgativa: E. PETERS, Folter. Geschichte der peinlichen Befragung, Europa Verlag, Hamburg 2003.

(4)

Durante l’epoca dell’impero invece la tortura venne praticata anche contro cittadini romani, soprattutto in casi legati al crimen majestatis, cioè nell’ambito della criminalità a sfondo politico. Per questo preciso motivo furono torturati molti cristiani, sia liberi che schiavi. È in questo contesto che vanno interpretate le prime testimonianze della letteratura cristiana antica. Quest’ultime, presenti soprattutto nella produzione de- gli Apologeti6, cercano di evidenziare l’illogicità giuridica e morale di una simile pratica ed al contempo di giustificare l’esercizio pubblico della fede cristiana come non contraddittorio con i fini del mondo poli- tico romano. Così si esprime ad esempio Tertulliano nel De spectaculis:

«È un bene che siano puniti i colpevoli. Chi negherà ciò, se non il colpevo- le? Tuttavia non è necessario che gli innocenti si rallegrino del supplizio altrui, chè anzi sarebbe giusto che l’innocente si dolesse per il fatto che un uomo, suo simile, si sia reso così colpevole da esser sacrificato così crudel- mente. E chi mi garantisce, poi, che siano destinati alle belve, o a qualsiasi altro supplizio, sempre dei colpevoli, sí che non si colpisca l’innocenza o per una vendetta del giudice o per l’incapacità del difensore o per la violen- za della tortura? Quanto è meglio, dunque, non sapere quando i malvagi vengono puniti , perché io non sappia anche quando muoiono degli inno- centi, se pure dei pagani possono dirsi degli innocenti?»7.

Non è evidentemente ancora presente in Tertulliano un’indicazione ad impegnarsi pubblicamente contro la tortura ma perlomeno a non avallarla mediante la presenza a spettacoli violenti. Una posizione per quel tempo certamente fuori dal comune della cultura romana.

1.1. La cristianità antica

Questa prima attitudine apologetica nei confronti della tortura por- ta nel tempo però anche a un giudizio diverso a livello di principio fino a quel momento non ancora presente nella riflessione giuridico-politica del mondo latino. Quest’ultima aveva al più emesso nei confronti della tortura riserve riguardanti l’opportunità della sua applicazione, ma non ragioni di principio. In questo senso la critica degli Apologeti cristiani rappresenta un novum nella storia del pensiero etico-giuridico.

Una prima trattazione non solo episodica del tema è comunque ri- trovabile solo a partire da Agostino e più precisamente nella sua Città di Dio8. Secondo il vescovo di Ippona, la tortura non può in alcun modo

6 Tra i passi piú significativi cf LACTANTIUS: De moribus persecutorum, XIII, 1; ID., Divinæ Institutiones, V, 20; VI, 10; X, 12 e 16; TERTULLIANUS, Apologeticum, II, 10; e soprattutto De Corona, 11. CYPRIANUS, Ad Demetrium, 13 ed infine Ad Donatum.

7 TERTULLIANO, De spectaculis, La Nuova Italia, Firenze 19732 , 417-419.

8 Cf AGOSTINO, La citta di Dio, Bompiani, Milano 2001. Il testo in questione è ritro- vabile al libro XIX, 6, cosí come accenni nelle lettere no. 104, 133 e 153. Nella storia

(5)

essere applicata come strumento di investigazione giudiziaria o come indice di una prova di colpevolezza, poiché tale modalità prevede espli- citamente la possibilità di infliggere dolore ad un innocente. Inoltre tale pratica è segno evidente della debolezza dell’uomo nella sua ricerca della verità. Il giudice non è in grado di raggiungerla attraverso questa modalità e d’altra parte l’imputato non è pure in grado di dimostrare la sua innocenza né accettando di essere torturato né in altro modo. Que- sta ignorantia deve essere accettata dai cristiani come una specie di male necessario legato alle conseguenze del peccato: «Quanto sarebbe mag- giormente ragionevole e degno dell’uomo se il giudice in questa situa- zione riconoscesse la propria miseria e invocasse piamente il Signore:

“salvami nelle mie necessità”»9.

La grande autorità di Agostino non poté comunque impedire che nel medioevo la pratica della tortura continuasse, anche se l’autorità dei suoi scritti poté perlomeno portare alla proibizione, citata da alcuni Concili, della presenza di chierici o monaci a sedute di tortura10. Que- sta regolamentazione canonica non va comunque interpretata come disapprovazione di principio delle pratiche di tortura quanto piuttosto come l’applicazione del fondo secondo cui «ecclesia non sitit sangui- nem»11. L’influsso indiretto del testo agostiniano non poté comunque

della teologia questo testo non sarà purtroppo ripreso con vigore. Le voci piú autorevoli nell’attività di ripresa verranno dall’umanesimo, ad esempio con J.L. Vivés o dalla filo- sofia giuridica del primo illuminismo tedesco, cioè con Chr. Thomasius. Anche l’emi- nente giurista tedesco Anselm Feuerbach conosceva questa testimonianza di Agostino e si è occupato esplicitamente del testo. Cf A. FEUERBACH, «Der heilige Augustin über die Tortur», in Bibliothek für die peinliche Rechtswissenschaft und Gesetzkunde, vol. II, 1800. Sulla storia degli influssi del passaggio agostiniano cf il saggio di M.A. CATTANEO,

«Sant’Agostino critico della tortura», in M. FABRIS (a cura di), L’umanesimo di Sant’Ago- stino, Levante, Bari 1986, 455-465. Per il tema della pena in genere cf A. HOULON, «Le droit pénal chez Saint Augustin», in Revue de droit français et étranger 52 (1974) 5-29.

9 AGOSTINO, La citta di Dio, cit., XIX, 6.

10 Cosí ad es. il Concilio di Auxerre (573-603): «Non licet presbytero nec diacono ad trepalium ubi rei torquentur, stare» (can. 33) e quello di Macon (585): «Ad locum exami- nationis reorum nullus clericorum accedat» (can. 19). Le false decretali, attribuite a Papa Alessandro I affermano pure, per quanto riguarda le prove nel processo penale: «Confes- sio vero non extorqueri debet in talibus, sed potius sponte profiteri». (Tutte queste cita- zioni sono riprese dal già citato lemma Torture redatto da L. Chevalier per il Dictionnaire de droit canonique). Per uno studio approfondito del passaggio dall’Antichità classica al Medioevo cf M. SCHMOECKEL, «Die Tradition der Folter vom Ausgang der Antike bis zum Beginn des Ius Commune», in F. DORN - J. SCHRÖDER (a cura di), Festschrift für Gerd Kleinheyer zum 70. Geburtstag, C.F. Müller Verlag, Heidelberg 2001, 437-465.

11 Su questa dottrina mi sono espresso in extenso in «“Ecclesia non sitit sanguinem”.

Die Ambivalenz von Theologie und Kirche in der Frage nach der Legitimation der Todesstrafe», in AA.VV., Strafe und Todesstrafe, Institut für Menschenrechte, Freiburg 1993, 41-54.

(6)

impedire che laici applicassero la tortura nell’ambito di un processo ordinario, riprendendo così sia elementi della tradizione giuridica ro- mana, come pure disposizioni del diritto germanico.

1.2. Medioevo e prima età moderna

Proprio dalla cultura giuridica germanica provengono in gran parte i cosiddetti Giudizi di Dio12, o le ordalie come pratiche destinate a risol- vere i casi di dubbio presenti sempre in ogni pratica giudiziaria. Alcuni teologi del primo medioevo riprendono, senza manifestare difficoltà particolari, tali pratiche all’interno della propria riflessione e legitti- mandole. Tra le voci più note evoco qui quella di Incmar di Reims, che si limita a non accettare le accuse nei confronti di terzi ottenute dall’im- putato attraverso i tormenti13.

Tra quelle che invece disapprovano tali costumi va ricordata quella del Papa Nicola I. In una sua lettera dell’anno 866, redatta in occasione della conversione dei Bulgari, egli afferma che la tortura «non è per- messa né dalla legge divina che da quella umana»14.

La Chiesa del primo medioevo dimentica questa chiara affermazio- ne di Nicola I e si limita a combattere i Giudizi di Dio e le ordalie, soprattutto poiché queste ultime non sembrano essere compatibili con l’immagine cristiana di Dio, ma al contempo tollera e in alcuni casi, secondo alcuni interpreti, incoraggia persino la reintroduzione della tortura15. Questa pratica viene vista dal diritto canonico medievale come una istituzione del diritto romano e nella sua ripresa, dovuta soprattut- to alla scuola di Bologna, essa viene percepita sempre più come un’abi- tudine evidente che non abbisogna di legittimazione particolare.

Ci si potrà qui chiedere quale sia la causa principale che ha determi- nato tale lassismo nell’ambito della letteratura canonistica. La maggior parte degli storici concordano oggi nel localizzare tale fattore nella lot- ta contro gli eretici. Tale lotta sembrava così necessaria, da mettere in ombra ogni discussione sulla legittimità dei mezzi usati per combatter-

12 Su questa istituzione giuridica cf soprattutto H. FEHR, «Gottesurteil und Folter», in E. TATARIN-Tarnheyden (Hg.), Festgabe für Rudolf Stammler, Berlin-Leipzig 1926, 231- 254; CH. LEITMAIER, Die Kirche und die Gottesurteile, Wien 1953.

13 Cf IMCARDI REIMS, «De presbyteris criminosis», in PL 125, 1091-1110.

14 Cf Denzinger, no. 648. «Quam rem (cioè la tortura) nec divina lex nec humana prorsus admittit, cum non invita, sed spontanea debeat esse confessio; nec sit violenter elicienda, sed voluntarie proferenda».

15 Cf P. FIORELLI, La tortura giudiziaria nel diritto comune, qui soprattutto vol. II, 217. Per il medioevo tedesco cf W. SCHÜNKE, Die Folter im deutschen Strafverfahren des 13. bis 16. Jahrhundert, Münster 1952 (Diss).

(7)

la. Così Innocenzo IV approva nel 1244 la legge penale dell’imperatore Federico II ed alcuni anni dopo promulga il seguente permesso: «gli eretici possono essere torturati se si esclude la loro mutilazione e non si mettono in pericolo di vita, affinché confessino i loro errori e denunci- no quelli degli altri, come si fa con i ladri ed i briganti»16.

Come si può notare la tortura non viene qui solo legittimata bensí introdotta nel proprio sistema giuridico, con la sola limitazione, per gli uomini d’oggi evidentemente grottesca, che non vi partecipino diretta- mente chierici e monaci. Inoltre, non solo vien fatto valere il noto prin- cipio secondo cui ecclesia non sitit sanguinem ma ci si orienta, senza alcuna problematizzazione, al modello inquisitorio di giustizia penale.

Quest’ultimo parte dalla premessa che un processo giusto consista nella possibilità data all’imputato di dimostrare la propria innocenza e per l’inquisitore nel provare la colpevolezza, data per acquisita, tramite pro- ve ottenute attraverso una confessione libera, o se necessario, appunto forzata. Vale in ogni caso il principio secondo cui la confessione di col- pevolezza sia da considerare come la migliore delle prove del delitto.

È appunto questa concezione del processo penale a perdurare du- rante tutta la prima età moderna e in alcuni casi fino alle costituzioni del XIX secolo o nelle costituzioni di Stati totalitari del nostro tempo.

Si capisce dunque il motivo per cui anche la scienza giuridica non abbia praticamente mai formulato una critica della pratica della tortu- ra, prima che non si mettesse in discussione tutto il metodo inquisito- rio. Le uniche voci discordi all’interno di questo consenso universale a favore della tortura sono date da alcuni umanisti come J.L. Vivés e Montaigne. Vivés si ricollega al già citato testo di Agostino e lo inter- preta a favore di un’illegittimità radicale della tortura per tutti i cristia- ni, affermando che: «gli argomenti contro la tortura sono molto cogen- ti, mentre quelli a favore sono nulli e deboli»17.

La Riforma protestante non porta invece risposte nuove e specifiche al nostro problema. La tortura continua ad essere praticata nelle varie regioni europee, poco importa se passate alla Riforma o meno18. Que- sta pratica si intensifica ancora maggiormente nella lotta intrapresa, pure in entrambi le confessioni, contro le cosiddette “streghe”. Cionono- stante, la teologia di Lutero costituisce anche per la nostra problematica un progresso nella misura in cui egli si oppone a uno uso strumentale

16 Cf l’edizione più tardiva in INNOCENS IV, In V Libros Decretalium, Venezia 1570.

17 Cf J.L. VIVÉS, Opera, Basel 1551, qui al vol. 5.

18 Martin Honecker, professore di etica sociale alla Facoltà di Teologia evangelica di Bonn, sostiene persino che ci sia stato un influsso indiretto della pretesa liceità evidente della pena di morte sull’esplosione dell’attività torturatoria nei secoli che hanno segui- to la Riforma. Cf M. HONEKCER, Grundriss der Sozialethik, De Gruyther Verlag, Berlin 1995, qui a p. 601.

(8)

della giustizia umana e dei suoi metodi, dunque anche della tortura, per combattere i propri nemici teologici. Gli eretici vanno combattuti con la Parola e non con la spada. Così «se la Parola di Dio non riuscirà a convertire gli eretici, ancor meno vi riuscirà il potere umano»19.

Zwingli e Calvino invece permangono sul terreno classico della dot- trina del braccio secolare e non si oppongono alla tortura ed alla con- danna capitale degli eretici e di coloro che furono ritenuti tali. Entram- bi i Riformatori svizzeri si premurano comunque di tener conto dell’ar- gomentazione di Lutero e giustificano i loro interventi repressivi nei confronti degli avversari teologici sostenendo che questi ultimi siano pericolosi anche e soprattutto per la convivenza civile.

L’epoca dell’assolutismo porta a un inasprimento ulteriore della prassi di tortura, e coinvolge, attraverso misure di censura, anche la discussio- ne teorica che conseguentemente si fa estremamente prudente e rara20. Vanno rilevate comunque due voci che hanno preparato la riflessio- ne abbondante sul tema della tortura, tipica dell’età dell’illuminismo.

Si tratta di due teologi ed al contempo esperti del diritto provenienti il primo dalla tradizione cattolica e l’altro da quella protestante. Le loro opere non hanno solo valore episodico o documentario, bensí costitui- scono la premessa affinché il discorso illuminista possa aver luogo e svilupparsi in tutta la sua forza argomentativa. Si tratta della Cautio criminalis21 del gesuita F. von Spee e della dissertazione De tortura ex

19 Cf M. LUTHER, «Von weltlicher Orbigkeit», in M. LUTHER, Ausgewählte Schriften.

Insel Verlag, Frankfurt 1983, 6 voll., qui vol. 4, 72: «wenn es ihm nicht gelingt, wird es der weltlichen Macht auch nicht gelingen».

20 Ho potuto rilevare per questo periodo che va fino alla prima metà del secolo XVII solo un’eccezione. Essa è data dall’opera di Grevius. Questo teologo arminiano olande- se redige l’opera dal titolo Tribunal reformatum, interessante per almeno due motivi. Si tratta innanzitutto della prima monografia dei tempi moderni dedicata globalmente al nostro tema ed al contempo essa è la testimonianza di un pensatore a sua volta vittima della tortura a causa delle sue posizioni ostili alla chiesa calvinista ufficiale d’Olanda.

Cf GREVIUS, Tribunal reformatum, Hamburg 1624.

21 Cf le edizioni moderne: F. VON SPEE, Cautio criminalis, Franke Verlag, Tübingen- Basel 1992, cosí come DTV-Taschenbuchverlag, München 19875. Attualmente la lette- ratura secondaria su von Spee diventa sempre piú abbondante. Cf innanzitutto: I.M.

BATTAFFARANO, «Von Spee zu Beccaria. Der Kampf um die Abschaffung der Folter und der Hexenprozesse in der frühen Neuzeit», in ID. (a cura di), Friedrich von Spee, L.

Reverdito ed., Rovereto 1989, 223-264; cf inoltre: G.R. DIMLER, Friedrich von Spee von Langenfeld: eine beschreibende Bibliographie, Rodopi, Amsterdam 1984; H.P. GE-

IELN, Die Auswirkungen der Cautio Criminalis von F. von Spee auf den Hexenprozess in Deutschland, Wasmund Verlag, Köln 1963; J.F. RITTER, F. von Spee 1591-1635. Ein Edelmann, Mahner und Dichter, Trier 1977; ed ultimamente: G. JEROUSCHEK, «Friedri- ch von Spee als Justizkritiker», in Zeitschrift für Strafrechtswissenschaft 108 (1996/2) 243-265; CHR. FELDMANN, Friedrich Spee, Herder Verlag, Freiburg i. Br. 1993; F. GUN-

THER (a cura di), Friedrich Spee zum 400. Geburtstag. Bonifatius Verlag, Paderborn 1995; K.J. MIESEN, Friedrich Spee, Panorama Verlag, Wiesbaden 1996; H. WEBER - F.

(9)

foris christianorum proscribenda22 del giureconsulto Christian Thoma- sius di Halle. Entrambi i saggi ebbero una larga diffusione e rendono ormai politica e non solo morale o giuridica la discussione sull’abolizio- ne della tortura. Von Spee dà avvio alle sue riflessioni a partire dal- l’esperienza personale avuta nel contatto con le donne accusate di stre- goneria e conferma nella sua Cautio criminalis di riferire solo a partire da esperienze vissute in prima persona. Il noto gesuita mette in eviden- za in questa opera il nesso esistente tra l’ideologia della denuncia, del sospetto a priori, la pratica della tortura e la confessione della propria colpevolezza. Ne esce una radicale critica del luogo comune secondo cui la confessione sia la miglior prova in ambito penale23.

Sessant’anni più tardi viene richiesto al giureconsulto Christian Tho- masius di Halle di redigere un rapporto per meglio giudicare un caso di stregoneria. Richiamandosi esplicitamente a von Spee24 ne allarga le prospettive, introducendo esplicitamente la dimensione politica di tut- ta la problematica. Secondo Thomasius «Quæstio (cioè la tortura) om- nibus tyrannis præbet occasionem, sub specie iustitiæ in subditos sævien- di. Potentioribus in quacumque republica præbet viam tortura innocen- tibus et sibi invisis nocendi»25.

Entrambi gli Autori ora sommariamente evocati possono essere con- siderati come precursori o “illuminatori” degli Illuministi che porte- ranno la discussione attorno a nuovi livelli, ancora rilevanti fino ai no- stri giorni.

GÜNTHER, Friedrich Spee, Trier 1996; sul contesto geografico-storico cf: F. GUNTHER (a cura di), Hexenprozesse und deren Gegner im trierisch-lothringischen Raum, Dadder Verlag, Weimar 1997.

22 Anche in questo caso posso rimandare a un’edizione moderna. Cf CHR. THOMA-

SIUS, Über Folter, Weimar 1960; cosí come: CHR. THOMASIUS, Über die Hexenprozesse, DTV-Verlag, München 1986; sulla letteratura secondaria cf R. LIEBEWIRTH, Christian Thomasius, sein wissenschaftliches Lebenswerk, Weimar 1955; M.A. CATTANEO, Delitto e pena nel pensiero di Christian Thomasius, Milano 1976; ID., «Beccaria e Sonnenfels.

L’abolizione della tortura nell’età teresiana», in ID., Illuminismo e legislazione penale, LED, Milano 1993, 63-76. W. SCHMIDT, Ein vergessener Rebell. Leben und Wirken des Chr. Thomaius, Diederichs Verlag 1995.

23 Secondo il motto: confessio est regina probationum.

24 Cf W. EBNER, «Christian Thomasius und die Abschaffung der Folter», in Jus Com- mune 4 (1972) 73-80; G. JEROUSCHEK, «Christian Thomasius, Halle und Hexenverfol- gungen», in Jus (1995) 576-581; G. SCHWERHOFF, «Aufgeklärter Traditionalismus. Chr.

Thomasius zu Hexenprozess und Folter», in Zeitschrift der Savigny- Stiftung für Recht- sgeschichte. Germanistische Abteilung 104 (1987).

25 Cf l’edizione citata alla nota 22, qui a p. 164. «La tortura permette ad ogni tiran- no, sotto il pretesto della giustizia, di infierire sui sudditi. A coloro che hanno maggior potere in uno Stato ha dato l’occasione attraverso la tortura, di nuocere a innocenti e a oppositori».

(10)

1.3. La discussione illuminista

L’influsso diretto di Thomasius è ancora reperibile nella decisione di Federico II (del 1740) di abolire in maniera quasi completa la pratica della tortura sul proprio territorio. In questi anni prende inizio una pro- duzione letteraria sull’argomento che partendo da Montesquieu e Volta- ire raggiunge, negli anni ’60 del XVIII secolo anche altre regioni del con- tinente europeo e provoca ulteriori decisioni politiche in senso riformi- sta. Nota è soprattutto quello intrapresa dall’imperatrice Maria Teresa.

È in questo contesto che appare il libretto Dei delitti e delle pene dell’aristocratico Cesare Beccaria. In poco tempo esso diventa un mani- festo diffuso in tutta Europa e testimone di tutta una rimessa in discus- sione del diritto penale in genere e dei problemi della tortura e della pena di morte in particolare26. Il suo pensiero sul nostro argomento ha valore epocale e viene riproposto fino ai nostri giorni senza perdere alcuna attualità. La sua dottrina viene persino considerata come un punto di non ritorno che può essere oggetto di ulteriori sviluppi, ma non di ripensamenti radicali. La critica di Beccaria non si limita alla prassi del- la tortura ma coinvolge tutto il sistema penale, con particolare atten- zione al sistema inquisitorio che precede il processo. Nel celebre libret- to il tema della tortura, non viene solo evocato come fenomeno inso- stenibile per i sentimenti, ma come prassi che rivela una sua negativa ma reale razionalità in vista di fini:

- per ottenere dall’inquisito una confessione di colpevolezza e poter cosí raggiungere la “verità” sulla sua mens rea,

- al fine di poter utilizzare giuridicamente le contraddizioni in cui cade l’imputato nel corso dell’inchiesta,

- e infine per poter ottenere un massimo di informazioni utili su even- tuali complici e su altri delitti commessi dall’imputato.

Beccaria si dà la pena di controbattere a tutti questi argomenti in dettaglio. Il centro della sua tesi si ritrova comunque nella rimessa in discussione della premessa secondo cui l’inquisito debba essere consi- derato a priori come colpevole e che quindi solo attraverso la propria confessione potrà oggettivamente migliorare la propria condizione. Lo studioso milanese rivolta completamente l’onere della prova affidan- dola esclusivamente al giudice che inquisisce ed alle prove che egli stes-

26 Cf C. BECCARIA, Dei delitti e delle pene, Einaudi, Torino 1981. La letteratura su Beccaria è evidentemente immensa e non puó essere qui evocata in extenso. Mi limito ad alcuni titoli cui mi sono ispirato: R. ZORZI, Cesare Beccaria. Il dramma della giusti- zia, Mondadori, Milano 1996; per i problemi legati al diritto penale cf il volume collet- taneo: G. DEIMLING (a cura di), Cesare Beccaria: die Anfänge moderner Strafrechtspflege in Europa, Kriminalistik Verlag, Heidelberg 1989; E. WEIS, Cesare Beccaria, Verlag der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, München 1992.

(11)

so dovrà poter esibire al processo, senza alcun ausilio da parte della tortura o di altri mezzi di pressione sull’imputato.

Anche qualora, per delirio di ipotesi, la tortura potesse essere legit- timata, essa sarebbe ulteriormente criticabile come ingiustamente di- scriminante poiché renderebbe piú facile la propria discolpa a coloro che sopportano piú facilmente i dolori fisici che a coloro che facilmente soccombono. Tale discriminazione è moralmente inaccettabile27.

L’orizzonte teorico da cui parte l’argomentazione di Beccaria non è da considerare come uniforme e unitario. Si ritrovano nei suoi scritti elementi tipici della tradizione utilitarista, così come pure elementi del diritto naturale di stampo razionalista e contrattualista. Questa posizio- ne, che si potrebbe caratterizzare come “mista”, viene interpretata nel- la letteratura secondaria sia come punto di forza che come “tallone di Achille” della stessa. Ed è proprio su questo punto che si dirige la criti- ca di Kant a Beccaria. Prendendo spunto dal discorso sulla pena di morte, il filosofo di Königsberg28 ritiene che voler negare a quest’ultima perti- nenza morale significherebbe cadere nelle contraddizioni di una teoria puramente utilitarista della giustizia.

Lo scopo della pena, sempre secondo Beccaria, è quello di poter raggiungere una certa sicurezza sociale attraverso la sua minaccia attra- verso l’autorità pubblica. Questo scopo generale e preventivo della san- zione penale puó essere raggiunto se vengono sottoposte a pena solo quelle azioni delittuose che sono chiaramente antisociali, evitando in- vece quelle che hanno un significato negativo solo per il cosiddetto foro interno. Per questo motivo Beccaria nega pertinenza ai cosiddetti delitti contro la religione o ai delitti di magia, continuando così sulla linea già tracciata da Thomasius ed altri giuristi del primo illuminismo tedesco. Un’enfasi particolare viene espressa attorno al carattere pub- blico delle leggi e sull’impossibilità giuridica di leggi segrete. Per quan- to riguarda invece la misura delle pene da irrorare, Beccaria si muove su una linea tesa ad orientarsi al danno sociale provocato dal delitto più che sul criterio di colpevolezza soggettiva del reo.

L’illuminista milanese non è comunque disposto a legittimare, a par- tire da questa sua simpatia per la prospettiva utilitarista, la punizione dell’innocente quando quest’ultima dovesse rivelarsi particolarmente utile per la società. Vale per lui il principio nulla pœna sine culpa, come base irrinunciabile per ogni sistema penale che si voglia ritenere giusto. Sem- pre in questa prospettiva vale anche il principio che ogni inquisito deb- ba valere come innocente fino a quando la sua colpevolezza sia chiara-

27 Cf soprattutto il § XVI «Dei delitti e della pene», cit.

28 Tra molti titoli cf perlomeno i seguenti: I. PRIMORAC, «Kant und Beccaria», in Kant- Studien 69 (1978) 403-421; M.A. CATTANEO, «Beccaria e Kant. Il valore dell’uomo nella filosofia di Kant», in ID., Illuminismo e legislazione penale, cit., 15-61.

(12)

mente dimostrata da un giudice imparziale e indipendente. Anche in questo caso lo Stato deve comminare una pena “minima” che impedisca la vendetta privata ed abbia un massimo di effetto deterrente. Ogni pena che vada al di là di questo limite va vista come vendetta ingiustificata.

In tale contesto non c’è piú alcuno spazio legittimatorio per la prati- ca della tortura e quindi la sua disapprovazione in Beccaria assume ca- rattere di assolutezza29, anche se il suo orizzonte argomentativo è piú teleologico che deontologico.

Andrebbero qui evocati anche gli sviluppi e le recezioni ulteriori del pensiero di Beccaria in ambito italiano ad opera del Verri e del Manzo- ni. La loro notorietà mi permette di non approfondire ulteriormente questo capitolo storico comunque estremamente interessante anche per una lettura in chiave etico-teologica di tutta la vicenda legata all’aboli- zione della tortura30.

1.4. La situazione e discussione contemporanee

La discussione contemporanea sull’abolizione della tortura si rivela forse meno attraente di quella ora riferita nell’età dell’Illuminismo. A livello puramente verbale infatti non ritroviamo praticamente piú alcu- na voce disposta a legittimare moralmente o giuridicamente la pratica succitata. Proprio la recente vicenda legata al conflitto medio-orientale, in cui un tribunale dello Stato di Israele ha cercato di dare legittimità ad una pratica di “lieve costrizione fisica”, ha messo in evidenza come tale consenso sia da considerare come universale di fatto. La discussione giuridica e morale si è spostata dunque sul terreno della migliore strate- gia per prevenire e impedire le pratiche torturatorie. Solo l’ultimo con- flitto bellico in Irak ha messo in evidenza la fragilità di questo consenso e la necessità di riprendere la discussione di principio in modo da poter mettere definitivamente “fuori legge” ogni pratica di tortura comunque legalizzata attraverso regolamenti “interni” o strumenti analoghi.

La battaglia pratica non è diventata comunque piú facile di quella teorica. Al contrario: poiché la tortura è unanimamente disapprovata nessuna istanza statale vuol solo lasciare sorgere il dubbio che essa la tolleri o persino la organizzi. Ciononostante, la tortura è ancora molto

29 Cf per questa intepretazione M. MAESTRO, Cesare Beccaria e le origini della rifor- ma penale, Feltrinelli, Milano 1977.

30 Del Verri cf il libretto: Osservazioni sulla tortura, Feltrinelli, Milano 1979 (scritto nel 1777 ma pubblicato postumo solo nel 1804). Per quanto riguarda il Manzoni cf la sua Storia della colonna infame, Bompiani, Milano 1985. Per un’analisi accurata delle posizioni manzoniane cf M.A. CATTANEO, Carlo Goldoni e Alessandro Manzoni. Illumi- nismo e diritto penale, Giuffrè, Milano 1987.

(13)

diffusa e le istanze che la combattono hanno molte difficoltà a provar- ne efficacemente l’esistenza, perlomeno a livello di processi penali. Come spiegare dunque tale persistenza del fenomeno, sia in Stati dittatoriali e talvolta persino in Stati a regime democratico31?

Una prima risposta è di tipo pratico ed è in connessione con la pos- sibilità di effettuare interventi di tortura a partire da procedure appa- rentemente democratiche e giuridicamente corrette, cioè a partire da pratiche “legali”. La maggior parte di simili interventi utilizzano lo spa- zio che anche Stati democratici lasciano agli organi di polizia nel tempo che passa dall’arresto al processo penale. Il carattere “segreto” della fase istruttoria viene oggi legittimato, sia giuridicamente che eticamen- te, con le esigenze di una comprovazione credibile dei delitti commessi dall’imputato senza pericolo che le prove vengano inquinate o attraver- so il cosiddetto “pericolo di fuga” per l’imputato. Tali argomentazioni sono sí ben fondate, ma vanno temperate con le esigenze di difesa del- l’imputato stesso e con alcuni suoi diritti fondamentali che non posso- no in alcun caso essere alienati anche in questa fase. Si pensi al contatto con i familiari (se necessario anche controllato ma non impedito). Così vari Stati, sia dittatoriali che “democratici”:

- conoscono nella loro legislazione penale delitti troppo vaghi nella loro descrizione fattuale oppure promulgano leggi speciali (come ad esempio molte legislazioni “antiterrorismo”) che comportano una propria procedura penale, diversa da quella ordinaria prevista da un normale codice di procedura penale. Il caso di Guantanamo, carcere

“speciale” per persone che non hanno nemmeno lo statuto di “pri- gioniero di guerra” previsto dalla Convenzione di Ginevra è ancora maggiormente problematico, poiché la carcerazione non prevede nemmeno la necessità di tenere un processo penale32.

- Questa procedura particolare comporta la possibilità, per gli organi di polizia (in molti Stati ancora “militarizzata” nel suo statuto inter- no), di poter far capo ad alcune eccezioni procedurali: cosí ad esem- pio il cosiddetto arresto come “incomunicado”, in cui la persona arrestata viene isolata dal resto della comunità civile al punto da non

31 Cf tra molte pubblicazioni Alltag, Macht, Folter, a cura di P. Schulz-Hageleit, Patmos Verlag, Düsseldorf 1989; F. MATSCHER (a cura di), Folterverbot, sowie Religions- und Gewissensfreiheit im Rechtsvergleich, Engel Verlag, Kehl am Rhein 1990 (= Schriften des Österreichisches Instituts für Menschenrechte 2); AA.VV., Tortures, tortionnaires, espérance chrétienne: actes de la rencontre internationale de Bâle, Ed. du Cerf, Paris 1992.

32 Come prima documentazione cf C. BONINI, Guantanamo, Einaudi, Torino 2004;

per una prima discussione giuridica cf G. NOLTE, «Guantanamo und Genfer Konven- tion: eine Frage der lex lata oder de lege ferenda?», in AA.VV., Krisensicherung und humanitärer Schutz, Festschrift für D. Fleck, BWV, Berlino 2004, 393-404; B. SCHÄFER, Guantànamo Bay: Status der Gefangenen und habeas corpus, Menschenrechtszentrum der Universität Potsdam, Potsdam 2003.

(14)

poter comunicare né con un proprio avvocato o con i propri fami- liari per un periodo relativamente lungo, tale da permettere la tortu- ra e una minima riabilitazione, in vista della presentazione dell’im- putato alla stampa.

- In questo contesto evidentemente il principio dell’habeas corpus viene a perdere ogni efficacità concreta: l’imputato viene torturato in modo da ottenere al piú presto una sua confessione, tale da ottenerne in sede processuale una condanna sicura.

- Le possibilità della difesa sono praticamente nulle all’interno di una simile procedura poiché il primo contatto tra imputato e difensore avviene dopo la tortura e quindi anche dopo la confessione autoac- cusatoria33.

Come si puó ben vedere è possibile avere opportunità aperte per la tortura anche presso sistemi penali “democratici”. La lotta alla tortura dovrà dunque concentrarsi sempre più sulle procedure di polizia ri- guardanti l’arresto e le prime fasi dell’imprigionamento preventivo, af- finche la possibilità “tecnica” della tortura diventi sempre piú impossi- bile o perlomeno fortemente difficile.

2

ARGOMENTI E CONTROARGOMENTI ETICI La tortura non va comunque combattuta solo con strategie giuridi- che e con misure di polizia, bensí anche con argomenti di principio, risalenti alla riflessione etico-filosofica ed etico-teologica con i rispetti- vi punti in comune e le loro specificità.

È stato merito di Beccaria l’aver messo in evidenza che considerazio- ni di utilità sociale non siano mai pertinenti in questo contesto. La pra- tica della tortura contraddice direttamente il principio del rispetto del- la dignità umana34. Quest’ultima categoria è comune sia alla riflessione filosofica che a quella teologica anche se essa viene ad assumere, nei rispettivi contesti, un significato specifico. La diversità di contesto e di motivazione non deve però condurre a materializzazioni diverse del medesimo principio. Al contrario: la dignità dell’uomo è unica e non divisibile secondo approcci diversi.

33 Questi elementi li derivo dall’esperienza cilena di cui già ho parlato alla nota 2.

34 La letteratura sulla categoria di “dignità umana” è immensa sia in filosofia che in sede di diritto. Segnalo qui due opere che ritengo chiarificatrici anche per il problema che qui ci occupa. Cf W. WOLBERT, Der Mensch als Mittel und Zweck. Die Idee der Menschenwürde in normativer Ethik und Metaethik, Aschendorff Verlag, Münster 1987;

G. LÖHRER, Menschliche Würde, Alber Verlag, Freiburg i. Br. 1995.

(15)

Si tratta, in questo contesto, di saperla comprendere e di saperla applicare adeguatamente al nostro problema. Essa viene di fatto troppo sovente compresa come una realtà quasi empirica, presente misteriosa- mente nella nostra corporeità. Le pratiche di tortura la ledono in ma- niera grave.

Se si leggono comunque con attenzione i testi kantiani si potrà os- servare come la dignità umana sia proposta come idea regolativa e non come fatto empirico. La tortura intacca la dignità umana poiché stru- mentalizza in maniera completa la corporeità umana. Quest’ultima non è da considerare semplicemente come una manifestazione secondaria della personalità, bensí come espressione diretta dell’identità della per- sona stessa. Per questo motivo la maggior parte delle legislazioni ricor- re al principio dell’integrità della corporeità umana, applicandolo an- che in altri ambiti come quello della medicina o della vita familiare.

Nella tradizione questo principio viene compreso in maniera squisi- tamente deontologica prescindendo cioè in maniera totale da ogni con- siderazione riguardante le conseguenze fattuali dell’applicazione del principio stesso. Ció non comporta evidentemente il fatto che un’argo- mentazione di tipo teleologico, orientata cioè a considerare primaria- mente le conseguenze dell’azione posta, comporti automaticamente la possibilità di legittimare moralmente la tortura.

Quest’ultima può essere disapprovata in maniera cogente e senza eccezioni di sorta se ci si sforza di definire in maniera inequivocabile la tortura stessa. Essa va infatti vista non semplicemente come provoca- zione di dolore fisico e psichico contro la volontà di una persona, poichè tale provocazione potrebbe essere legittima in un altro quadro ed altre condizioni (come ad esempio in medicina quando si dovesse intervenire necessariamente per poter salvare la vita fisica di una per- sona provocandole grandi dolori). La tortura costituisce la provoca- zione di dolore fisico e psichico all’interno di un contesto preciso che è quello giudiziario precedente un processo. In questo quadro, la co- strizione fisica e psichica contraddice all’essenza stessa di un processo equo per tutte le parti in causa e non può quindi mai essere approvata moralmente.

La riflessione teologica, da parte sua, introduce ulteriori elementi sulla categoria di “dignità umana”. Essa si fà carico innanzitutto della recente ricerca esegetica che ha messo in evidenza con molta chiarezza e pertinenza il fatto che gli scritti biblici vedono la corporeità non come una dimensione secondaria dell’esistenza umana bensí come espressio- ne fondamentale della personalità. I libri dell’Antico e Nuovo Testa- mento parlano dell’uomo sempre come di un tutto da cui non si posso- no arbitrariamente separare parti autonome. È piuttosto la tradizione neoplatonica a voler separare parti distinte nell’uomo. Anche la dottri- na biblica secondo cui Dio ha creato l’uomo “a sua immagine” confer-

(16)

ma la correttezza della prospettiva ora citata35. Anche la corporeità dunque prende parte a questa analogia divina e una mancanza di rispet- to per questa corporeità comporta anche un giudizio negativo squisita- mente teologico. Si capisce dunque per quale motivo si consideri a giu- sta ragione la tortura anche come un peccato contro Dio creatore della corporeità umana.

Non ci si deve comunque rappresentare tale carattere di immagine divina nell’uomo in maniera troppo cosistica, quasi fosse una qualità empiricamente verificabile. Se ciò fosse il caso si capirebbero allora le difficoltà mosse ad esempio dal filosofo australiano Peter Singer36 alle argomentazioni classiche con cui si proteggono tutti i membri della specie homo sapiens a partire dalla loro semplice appartenenza alla specie stessa.

P. Singer ritiene che il semplice richiamo alla specie non sia argomento sufficiente a legittimare la proibizione assoluta di uccidere e di infligge- re sofferenza poiché si potrebbero dare casi di non appartenenti alla specie che comunque debbano essere protetti quasi fossero uomini e si danno anche casi di uomini che non possiedono le qualità richieste per poter avere tale protezione incondizionata ed assoluta. Questa non è comunque la sede per problematizzare ulteriormente questa discussio- ne contemporanea di etica che riguarda soprattutto il comportamento da tenere in casi limite presenti soprattutto nell’attività medica.

Da un punto di vista teologico, ciò che mi sembra importante sottoli- neare è il fatto che la qualità che l’esistenza umana acquisisce nel suo essere come “ad immagine di Dio”, una qualità che risale a un’iniziativa gratuita di Dio stesso, creatore e conservatore del mondo37.

Questa percezione del cosmo e dell’uomo non garantisce comunque l’elaborazione di risposte concrete, quasi di “ricette” cristiane al pro- blema della tortura e della sua abolizione. Essa qualifica peró la tortura come un peccato che non solo lede diritti che gli uomini si sono garan- titi vicendevolmente, ma anche l’iniziativa di amore che Dio stesso ha istaurato con tutta l’umanità. La tortura va dunque percepita, almeno da parte del credente, come “colpa teologica” che richiede un’adeguata riflessione critica nei confronti anche della prassi che i cristiani hanno avuto al riguardo lungo la propria storia. Essa non è stata solo moral- mente condannabile, ma ha rappresentato anche una forma di infedeltà nei confronti del proprio messaggio fondatore.

35 Cf soprattutto Gen 1,27ss.

36 Cf P. SINGER, Etica pratica, Liguori, Napoli 1989.

37 Nel linguaggio teologico si parla di creatio e di gubernatio mundi.

(17)

3

LE VIE DELLA PRASSI

Già a partire da alcune illustrazioni precedentemente citate si è potu- to costatare come la tortura costituisca sí un’attività particolarmente brutale e disapprovabile, ma non per nulla cieca o priva di una sua logi- ca interna. Per questo motivo una lotta in vista della sua abolizione deve tener conto dei meccanismi interni che la reggono e diffondono. Si trat- terà dunque di prevedere misure sia di ordine giuridico che di altro ordine in vista di questa abolizione generale38. Il diritto costituisce infat- ti uno strumento indispensabile per la realizzazione, parziale ma reale, della giustizia. Bisognerà dunque farne un uso oculato in questo ambito.

Tentativi di lotta con mezzi giuridici alla tortura sono noti fin dal secolo dei lumi. Tali tentativi sembreranno forse alla nostra sensibilità contemporanea come astratti ed obsoleti. Personalmente sono convin- to del contrario, appunto per il fatto che la tortura non è da considera- re come una prassi “primitiva”, priva di teoria, bensí come una strate- gia che puó vantare una sua razionalità distruggitrice. Per questo moti- vo essa va combattuta anche sul piano intellettuale. Troppo spesso si incontrano infatti goffi tentativi di “comprensione” della tortura che sembrano essere quasi delle giustificazioni morali indirette. Bisognerà dunque opporvisi con decisione e con rigore argomentativo.

Tracce efficaci di simile rigore sono ravvisabili anche nei tentativi intrapresi a livello di diritto internazionale per impedire il diffondersi di pratiche di tortura. Esse hanno messo in evidenza anche una certa efficacia pratica che non va sottovalutata anche all’interno della rifles- sione teorica.

3.1. Accordi a vari livelli

A livello mondiale l’ONU ha a piú riprese pubblicato e ratificato testi di accordi internazionali riguardanti il nostro tema. Tali testi non costituiscono solo una dichiarazione d’intenti, ma sono giuridicamente vincolanti per tutti gli Stati membri.

- La Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 10 dicembre 1948, all’art.

5 esclude in linea di principio ogni pratica di tortura come illegale.

- La cosiddetta Convenzione di Ginevra concretizza il suddetto divieto anche per i soldati e per altre persone coinvolte in conflitti bellici e

38 Per quanto riguarda il significato e la portata del diritto per la prassi etica cf A.

BONDOLFI, «Diritto e giustizia», in D. MIETH - J.P. WILS (a cura di), Concetti fondamen- tali dell’etica cristiana (Giornale di Teologia 228), Queriniana, Brescia 1994, 58-82.

(18)

protegge anche la situazione dei cosiddetti prigionieri di guerra. Es- senziale è soprattutto l’art. 17 di questa Convenzione poichè stipula che i prigionieri di guerra che si rifiutano di rispondere alle domande degli inquisitori «ne pourront être ni menacés, ni insultés, ni exposés à des désagrements ou désavantages de quelque nature que ce soit».

- Una Dichiarazione ulteriore dell’ONU del 1975 esclude all’art. 3 la possibilità di legittimare la tortura come pratica legata a situazioni eccezionali o di guerra.

- La convenzione dell’ONU contro la tortura del 10 dicembre 1984 prevede all’art. 2 che ogni Stato membro ha il dovere di mettere in atto misure preventive per combattere il sorgere di pratiche tortura- torie sul suo territorio. L’art. 17 della medesima convenzione preve- de la creazione di un comitato contro la tortura. Composto da 10 esperti questo comitato ha operato a partire dal 1988. Nel 2002 la Santa Sede ha pure aderito a questa Convenzione senza emettere alcuna riserva e quindi si deve considerare tale testo come normati- vo anche per il diritto della Città del Vaticano.

- Per quanto riguarda il nostro continente, il Consiglio d’Europa, che a differenza dell’Unione Europea raccoglie praticamente tutte le na- zioni del continente, ha formulato una convenzione contro la tortu- ra promulagata nel 1987 ed ora ratificata già da molti Stati europei.

Un Comitato permanente ne sorveglia il rispetto nei diversi Stati con un diritto di ispezione.

Tutte queste misure di diritto internazionale valgono a livello mon- diale e sono state ulteriormente precisate a livello regionale e professio- nale. Cosí già nel 1950 fu pubblicata una convenzione europea per i diritti dell’uomo che prevede esplicitamente all’art. 3 una proibizione tassativa della tortura. Una dichiarazione dell’ONU del 1982 sancisce all’art. 2 il principio che nessun medico potrà partecipare ad operazio- ni di tortura, fosse anche solo in funzione passiva.

Tutti questi testi giuridici, se analizzati da un punto di vista squisita- mente etico, richiamano anche alcune difficoltà specifiche che qui in- tendo brevemente evocare.

La tortura appare a tutti noi, perlomeno di primo acchito, come una realtà facilmente descrivibile e definibile. Uno sguardo un pò piú ap- profondito e smaliziato mette in evidenza il fatto che ci sono anche forme di tortura non facilmente descrivibili come tali e che non lasciano apparentemente alcuna traccia empiricamente verificabile. Ció vale sia per forme molto raffinate di tortura psicologica e per nuove tecniche (che ricorrono soprattutto all’uso della scarica elettrica) che non lascia- no traccia di ferite visibili o controllabili con strumentazione medica.

Queste forme di tortura sono qui evocate evidentemente non tanto per mostrare l’inutilità della lotta contro di essa quanto per mettere in evidenza il fatto che si possano dare fenomeni disapprovabili da un pun-

(19)

to di vista morale, ma che difficilmente possono essere oggetto di descri- zione precisa e giuridicamente rilevante. Le difficoltà della lotta contro la tortura si rivelano nelle questioni di dettaglio. Ciononostante penso che sia sensato, anche da un punto di vista puramente giuridico, mante- nere le formulazioni attuali del divieto di tortura. Definizioni piú globa- li, ma piú imprecise potrebbero dare adito alla continuazione di abusi.

Al di là delle difficoltà di ordine definitorio il divieto di tortura man- tiene anche una valenza moralizzatrice continua (è ció che la lingua giuridica tedesca chiama sittenbildende Funktion des Strafrechts) poi- chè manifesta, attraverso la lettera della legge, la disapprovazione pub- blica di simili pratiche.

Una difficoltà ulteriore è data in questo contesto dall’organizzazione della prova del fatto. Chi è l’istanza deputata a provare che c’è stata attività di tortura? Evidentemente quest’istanza non puó essere la vitti- ma stessa, bensí l’autorità di polizia deputata alla sorveglianza di possi- bili vittime. Con ció si viene a postulare che non sia possibile combatte- re efficacemente la tortura senza coinvolgere direttamente le forze di polizia in questa stessa lotta. Da una parte, si rivelano utili i vari codici di comportamento che le organizzazioni sindacali delle forze di polizia hanno emanato in vari Paesi. Ma al di là di questo sforzo collettivo, ma soggettivo, bisogna intraprendere uno sforzo anche a livello di legisla- zione attorno ai termini di carcerazione preventiva o di carcerazione nelle sedi di polizia. Vale qui il principio contrario a quello che regge l’attività giudiziaria nei confronti dell’imputato. Bisogna partire cioè dal fatto che l’abuso sia sempre possibile e si nasconda quasi sempre dietro l’angolo. Non bisogna dunque prevedere margini troppo grandi di discrezionalità nell’ambito dell’attività della polizia poiché ció ren- derebbe piú facile la pratica della tortura ad insaputa delle autorità giu- diziarie. Anche i casi di tortura in regimi democratici si sono sempre innestati nei piccoli spazi di discrezionalità affidati agli organi di poli- zia. Nel caso della guerra irakena, poi, gli effetti disastrosi di un conflit- to bellico iniziato senza mandato della comunità internazionale si sono sommati a quelli di un potere discrezionale dato alle truppe occupanti.

Al mancato jus ad bellum si è sommato anche un mancato rispetto dello jus in bello.

Uno strumento efficace in questo ambito è dato dalle visite fatte in prigione senza preavviso da parte di autorità di sorveglianza riconosciu- te come tali a livello internazionale. Tali misure si rifanno al primato del principio della fiducia su quello della repressione e del controllo39.

39 Per un’informazione sulle attività del Consiglio d’Europa in questo ambito cf Comité européen pour la prévention de la torture et des peines ou traitements inhu- mains ou dégradants: 3e rapport général d’activités du CPT, 1992, Strasbourg, Conseil de l’Europe 1993 (= CPT/Inf 93-12).

(20)

3.2. Sull’ambivalenza etica della lotta contro la tortura

Tutte le iniziative ora citate anche se non hanno abolito la tortura l’hanno perlomeno isolata. Questo fenomeno di isolamento e di con- centrazione in pochi luoghi sospetti va valutato in maniera differenziata da un punto di vista etico. Si tortura infatti di meno ma in maniera ancora maggiormente segreta e ció rende l’abolizione ancora piú ardua.

Appaiono qui evidenti i limiti di una sola strategia interna al diritto.

I limiti di quest’ultimo possono esssere superati almeno parzialmente se, accanto alle misure di controllo, vengono previste anche misure positive come ad esempio dei contributi internazionali in vista della formazione di poliziotti e di guardie carcerarie in funzione preventiva oppure dei finanziamenti per gli avvocati che indagano e difendono in questo ambito.

La realtà di questo mondo mostra evidentemente anche i limiti di simili strategie. Non va dimenticato infatti che sono stati molti Stati democratici ad aver assunto la formazione dei quadri delle polizie di molte dittature. In alcuni casi la formazione di quadri atti ad esercitare una repressione fisica sugli avversari politici di un regime faceva e fa parte del programma stesso di assistenza nella formazione dei quadri della polizia. Si puó in questo caso esigere che tali programmi di for- mazione siano svolti in luoghi pubblici e non in caserme piú o meno segrete.

Per quanto riguarda il criterio del carattere pubblico di ogni misura giuridica si deve rilevare come essa corrisponda a un’esigenza etica che va evidentemente fatta risalire alla critica che il pensiero illuminista ha svolto al carattere segreto della politica assolutistica. D’altra parte, non va dimenticato come anche al giorno d’oggi la discrezione sia rimasta caratteristica di molte decisioni a carattere giuridico e politico, cosí che, almeno a livello di risultati concreti ottenuti, talvolta attraverso lo strumento della discrezione si sono avuti risultati piú efficaci che attra- verso condanne pubbliche di singoli regimi politici. Ciò vale soprattuto per i rapporti che Stati democratici vogliono tenere con Stati dittatoria- li, ma non vale nei confronti di Stati democratici che si rifanno a rego- lamentazioni segrete. Anche qui la rivelazione a posteriori di regola- menti riguardanti le tecniche di interrogatorio in Irak non può che es- sere disapprovata da un punto di vista etico.

L’applicazione del principio di discrezione nei confronti di regimi totalitari che esercitano la tortura ha invece il vantaggio di permettere loro di “salvare la faccia” e quindi di essere disponibili per compromes- si pratici anche se la facciata del regime non viene a mutare, almeno in pubblico. Evidentemente fa capolino qui anche il pericolo della doppia morale cui, in nome del bene dei perseguitati, si fanno ulteriori conces- sioni. È difficile per ognuno di noi in questi casi, rifarsi al principio già

(21)

noto secondo cui “cum vulpibus vulpinandum est”40 ed al contempo non cadere in forme di rigorismo lontane dalla vita reale. L’ambivalen- za nei mezzi da adottare nella lotta nei confronti della tortura è struttu- rale e permanente, ed anche la riflessione etica dovrà farsi carico di questa aporia.

3.3. La prassi teologica e politica dei cristiani

Le riflessioni proposte fino a questo punto hanno rinunciato ad es- sere esplicitamente riferite al messaggio cristiano nel suo contenuto teo- logico. Si è infatti privilegiata la dimensione storica dei problemi. A mo’ di conclusione siano comunque consentite alcune riflessioni a ca- rattere teologico.

La teologia dovrà esercitare in questo ambito innanzitutto una forte umiltà poichè per troppi secoli la pratica della tortura è rimasta legata alla lotta all’eresia legittimata teologicamente41. Evidentemente, questo fenomeno va interpretato a partire dalle premesse teoriche che caratte- rizzavano sia l’ecclesiologia che la teoria politica di quei secoli. La com- prensione del contesto non implica comunque un’approvazione mora- le senza distinzioni del fenomeno stesso. Proporre tale interpetazione significherebbe cadere nel medesimo storicismo relativista che la rifles- sione teologica stessa ha costantemente condannato.

Inoltre, sarà necessario coinvolgere nello studio storico teologico non solo le fonti dottrinali “dotte”, bensí anche un’analisi critica delle pratiche di tortura legate alla vita quotidiana dei secoli che ci hanno preceduto42.

L’umiltà cui si è appena accennato riguarda anche la fragilità morale dei cristiani al giorno d’oggi. Non mancano infatti esempi, soprattuto in area latino-americana, in cui la pratica della tortura è esercitata per- sino da parte di credenti praticanti. Questo triste fenomeno dovrebbe renderci particolarmente prudenti e consci del fatto che noi tutti pos- siamo esser in pericolo di essere disponibili per simili pratiche.

Il compito della riflessione teologica non si puó comunque limitare a un’analisi storico-dottrinale critica e a una sua attualizzazione. Vanno

40 L’espressione risale ad T. ACCETTO, Della dissimulazione onesta, Einaudi, Torino 1997.

41 Per una ricostruzione critica di questa lotta cf G.G. MERLO, Contro gli eretici, Il Mulino, Bologna 1996.

42 Cf la ricca produzione della scuola parigina degli Annales. Per il nostro tema cf anche R. VON DULMEN, Theater des Schreckens: Gerichtspraxis und Strafrituale in der frühen Neuzeit, Beck Verlag, München 1985.

(22)

presi in considerazione anche alcuni elementi a carattere metodologico e sistematico, anche se ancora molto frammentari:

- bisogna rendersi conto che non sono proponibili “ricette specifica- mente cristiane” per argomentare e lottare efficacemente contro la tortura. Questa riflessione e questa lotta sono comuni ai credenti ed agli “uomini di buona volontà”;

- per il cristiano comunque anche la piú secolare delle proprie azioni riceve, nel contesto della fede, un suo significato genuinamente teo- logico. Il dolore tragico di chi soffre sotto la persecuzione e l’arbi- trio mette radicalmente in discussione una rappresentazione troppo ingenua dell’onnipotenza di Dio. Il lamento di Giobbe mantiene, anche post Christum natum tutta la sua permanente attualità.

La solidarietà dei cristiani con i torturati non si esaurisce dunque solo nella prassi politica tesa alla sua abolizione43. Essa deve assumere anche la forma della copresenza con i torturati nella protesta e nella preghiera. Una giustificazione argomentata e razionale di questa prassi di preghiera per e con i torturati, praticata attualmente da gruppi come l’ACAT44, non è possibile se non all’interno dell’atto di preghiera stes- so. Essa si nutre di una speranza che è superiore ad ogni nostro sforzo e che è comprensibile solo in un orizzonte di fede. Solo nella fusione tra militanza concreta e “grido della preghiera” si potrà trovare un minimo di coerenza pratica, al di là della frammentarietà di ogni nostro sforzo.

43 Cf tra le varie testimonianze: L. VISCHER (a cura di), Gefolterte, Folterer, christliche Hoffnung, Ev. Arbeitsstelle Oekumene Schweiz, Bern 1991; AA.VV., Pardon et justice.

Colloque théologique de Toulouse, Ed. du Cerf, Paris 1993; E. FUCHS, «Comment cela est-il possible? Réflexions sur les racines spirituelles et éthiques de l’acceptation de la torture», in G. AURENCHE, La torture. Le corps et la parole, Ed. Universitaires, Fribourg 1985; L. VISCHER, ...sie wissen nicht, was sie tun, Ev. Arbeitsstelle Oekumene Schweiz, Bern 1989.

44 Si tratta dell’association des chrétiens pour l’abolition de la torture et des execu- tions capitales. Per maggiori informazioni cf www.acat.asso.fr.

Références

Documents relatifs

arti e nella vita etica se prima non sono maturati cambiamenti significativi nelle relazioni della società civile [...] Il messaggio comico, allora, in quanto segno del

Sommario In questo lavoro si introducono le attivit` a sperimentali fi- nalizzate alla realizzazione di un servizio per la ricerca della modulistica pubblicata dalle

Uno di questi imponenti interventi è quello fatto nei confronti della produzione agricola, con la battaglia del grano.. Il progetto é ambizioso, ed é quello di

rema IV (il Teorema V si deduce da esso come si può dedurre il Teorema III dal Teorema II ; valgono anche qui osservazioni analoghe a quelle della nota

L’accès aux archives de la revue « Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, Classe di Scienze » ( http://www.sns.it/it/edizioni/riviste/annaliscienze/ ) implique l’accord

nella quale esso si presenta come del tutto naturale ; si ottengono cos due gene- ralizzazioni della definizione usuale della trasformata nel semipiano di

Un principio di Massimo Forte per le frontiere minimali e una sua applicazione alla risoluzione del problema al contorno per l’equazione delle superfici di area minima.. Rendiconti

L’accès aux archives de la revue « Rendiconti del Seminario Matematico della Università di Padova » ( http://rendiconti.math.unipd.it/ ) implique l’accord avec les