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Massimo Carlotto. I racconti della memoria

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Massimo Carlotto. I racconti della memoria

Claudio Milanesi

To cite this version:

Claudio Milanesi. Massimo Carlotto. I racconti della memoria. Noir de noir. Un’indagine pluridisci- plinaire, 2010, 9789052016306. �hal-01819643�

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Massimo Carlotto I racconti della memoria

CLAUDIO MILANESI

Université de Provence

Oltre che romanzi, non fiction novels e opere teatrali, Massimo Carlotto ha scritto anche diversi racconti. A volte, i racconti sono una sorta di laboratorio di preparazione di temi, personaggi, figure di stile che appariranno poi nei romanzi, in altri casi servono a espandere segmenti narrativi che non trovano spazio logico all’interno dei romanzi stessi. Se il noir è, come ha più volte affermato lo stesso Carlotto, un quadro che serve per raccontare altro, nei racconti, a parte i piccoli noir d’occasione, questo altro viene decisamente in primo piano. I suoi racconti sono in gran parte racconti noir, piccole gemme di genere disseminate in quotidiani (alcuni dei primi racconti appaiono sull’Unione sarda), riviste (fra le quali Micromega), miscellanee d’occasione (come l’antologia Crimini curata da Giancarlo De Cataldo nel 2005, o la più recente Città in nero. Nove storie italiane a cura di Marco Vichi del 2006). Adottando il più delle volte il punto di vista del colpevole, Carlotto elabora quello studio della personalità criminale che troverà la sua più completa realizzazione in Arrivederci amore ciao (2001) e in L’oscura immensità della morte (2004).

Due racconti della memoria

Nel caso dei due racconti della memoria, “San Basilio, 8 settembre 1974” (2003) e “Il comizio di Almirante” la voce narrante è invece, come nel Fuggiasco (1994) e ne Le irregolari (1997), una sorta di doppio dell’autore stesso, cioè un ex militante dei movimenti extraparlamentari degli anni Settanta che a trent’anni di distanza ne ricorda due episodi: la morte del giovane manifestante Fabrizio Ceruso durante gli scontri seguiti all’intervento della polizia per far sgombrare le case occupate nel quartiere di San Basilio a Roma, l’8 settembre

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1974, e la guerriglia urbana scatenata a Padova dal comizio del segretario del MSI Giorgio Almirante, durante la campagna elettorale per le elezioni amministrative del 15 giugno 1975. In entrambi i casi, l’occasione del racconto è data dalla reazione del narratore ai tentativi odierni di negare, occultare o manipolare la realtà dell’esperienza dei movimenti extraparlamentari degli anni Settanta e dello scontro spesso mortale fra forze dell’ordine e gruppi neofascisti da un lato e giovani di sinistra dall’altro.

Nel primo racconto, il narratore reagisce contro vecchi militanti che sembrano oggi voler dimenticare o negare quella realtà di trent’anni prima tendendo ad occultarne soprattutto il peso e l’importanza che vi ebbe la violenza.

Nel secondo, a far scattare la molla della rivendicazione del passato proprio e della propria generazione è invece l’odierna riabilitazione da parte della televisione di Stato della figura dell’allora segretario del MSI Giorgio Almirante (1914-1988), già capo redattore del quotidiano fascista il Tevere e capo di gabinetto del Ministero della Cultura Popolare della Repubblica di Salò, segretario di redazione della rivista La difesa della razza negli anni della guerra e poi fondatore e segretario del Movimento Sociale Italiano. Assistendo alla Rai alla consegna di un premio dedicato alla memoria di Almirante, la voce narrante reagisce con rabbia, rivendicando l’integralità dell’esperienza antifascista dell’epoca, la quale comportò, oltre agli ideali e alle speranze, anche la pratica della violenza collettiva, che andava dal lancio delle molotov fino allo scontro fisico con la polizia e i gruppi neofascisti.

A una classe dirigente che la manipola a fini politici e a una generazione che la occulta per opportunismo, Carlotto risponde con la rivendicazione delle necessità della memoria, di una memoria che non taccia nulla per omissione o peggio per deliberata volontà. Questo non significa evidentemente voler riproporre oggi quella esperienza come modello, ma è una coerente scelta intellettuale non fondata sul diniego del passato proprio e della propria generazione.

I racconti diventano allora una ricostruzione coraggiosa e senza reticenze di due episodi rappresentativi del clima politico di Padova e di Roma alla metà degli anni Settanta, metafore di tutto il paese e di tutto un decennio, in cui si intrecciano la strategia della tensione, i movimenti giovanili, le occupazioni delle case, gli scontri fra polizia e manifestanti, i morti e i feriti nelle strade, l’arrivo delle droghe pesanti fra i giovani e le prime morti di eroina che ancora prima della pandemia dell’aids falciarono un’intera generazione.

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Lotta Continua

L’occasione del ricordo di “San Basilio, 8 settembre 1974”, è la festa di matrimonio di due vecchi militanti di Lotta Continua, il gruppo politico extraparlamentare di cui faceva parte lo stesso Carlotto prima di venir implicato nel caso giudiziario che ne segnò gli anni della giovinezza. Va detto che il profilo politico di questo gruppo, visto anche alla luce delle future biografie di alcuni dei suoi membri più influenti, può essere visto come una sorta di fotografia dell’evoluzione di tutta una generazione italiana, quella di chi aveva vent’anni negli anni Settanta, e ne ha quindi fra i cinquanta e i sessanta oggi. Ricordare la biografia di alcuni dei suoi membri è un po’ come rifare la storia delle ondate ideologiche, delle convulsioni, degli opportunismi e degli idealismi di tutto il Paese dal Sessantotto a oggi. Personaggi oggi così diversi come Adriano Sofri, oggi giornalista e intellettuale che ancora sconta una condanna per concorso morale dell’omicidio del commissario Luigi Calabresi, Erri De Luca, scrittore, opinionista, esperto di testi biblici e di viaggi e scalate, Paolo Liguori, dirigente dei programmi sportivi e direttore di TGCom, il giornale online del gruppo Mediaset, Enrico Deaglio, fondatore e direttore del settimanale Il diario della settimana, l’organo di stampa che si è contraddistinto per le sue tenaci battaglie contro il conflitto d’interessi, provengono tutti dalla stessa esperienza politica nel movimento e/o nel quotidiano Lotta Continua. E l’elenco potrebbe continuare: lo storico Guido Crainz, il giornalista e scrittore Giorgio Boatti, il leader di Prima Linea Marco Donat Cattin, morto in un incidente stradale nel 1988, il giornalista e conduttore del programma

“L’infedele” sul canale televisivo La 7 Gad Lerner, il chirurgo torinese Umberto Salizzoni, massimo esperto italiano di trapianti di fegato, ecc.1

Di questi personaggi pubblici non c’è traccia in “San Basilio”; la combriccola che si ritrova al matrimonio tardivo di due ex del movimento all’inizio del nostro decennio, è composta più da militanti di secondo piano che da leader di spicco e dall’aura carismatica. E il clima che vi si respira è quello di un generale imbarazzo nei confronti della propria storia e del proprio passato, che sembra rispecchiare la difficoltà più generale di tutto il Paese di confrontarsi con quegli anni. Infatti, durante il pranzo, il discorso cade inevitabilmente sui destini delle vecchie conoscenze, militanti dell’epoca. Unanime è il dolore per la condanna e le lunghe pene detentive comminate nei confronti di Adriano Sofri, Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani per l’omicidio del commissario Calabresi (17 maggio 1972), all’epoca dei fatti ritenuto da molti, Lotta Continua compresa, responsabile della morte dell’anarchico

1 Sulla storia di Lotta Continua e dei suoi aderenti, cfr. Cazzullo e Bobbio.

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Giuseppe Pinelli nella notte fra il 15 e il 16 dicembre 1969. Già più imbarazzato l’ambiente si fa quando vengono evocati i percorsi “molto diversi fra loro” di altri ex militanti del gruppo, e qui evidente è l’accenno alla scelta della lotta armata di alcuni e alle conversioni alla destra berlusconiana di altri. Poi, quando il narratore tenta di portare la rievocazione sulla tragica parabola di tre militanti di Lotta Continua dell’epoca, morti uno di infarto, l’altro per un’overdose di eroina il terzo suicida, ricordandone il ruolo attivo che ebbero negli scontri con la polizia a metà del decennio per impedire un comizio del MSI, l’imbarazzo si fa generale, e la rievocazione si interrompe: alcuni gli suggeriscono “moderazione”, altri cambiano discorso.

Solo uno degli invitati, quasi di soppiatto, lo raggiunge sulla terrazza del ristorante per riprendere il filo della memoria. Come il narratore, anche questo secondo personaggio ha passato un periodo in prigione,

“per aver lanciato molotov contro una sede missina” (p. 49), ed è probabilmente questa comune esperienza che sembra avvicinarli l’un l’altro. Si accende un dialogo, in cui il narratore rivendica le ragioni della verità e della serenità anche di fronte agli errori del proprio passato, e l’altro gli ribatte con quelle dell’opportunità e della necessità dell’oblio. Per il narratore, tutta l’esperienza di quegli anni va ricordata, pubblicamente, per coerenza con se stessi e il proprio passato; per l’altro, il movimento di quegli anni commise errori gravi di valutazione a proposito delle conseguenze della violenza collettiva, e inoltre, molti dei protagonisti di quell’epoca (lui compreso) hanno pagato con anni di prigione l’eccessiva disinvoltura con cui allora venivano ricordate e raccontate le gesta del movimento. I tempi sono cambiati, e le persone anche, sembra dire l’anonimo interlocutore, e i ricordi di certi episodi vanno “accantonati” sia perché di alcuni di essi non vi è di che essere fieri sia perché la vita delle persone che vi hanno preso parte, ora rientrate nei ranghi, con un lavoro, una famiglia, può venire sconvolta dall’eventuale ritorno del passato.

Quanti protagonisti di quei movimenti, sembra dire l’interlocutore, sono stati distrutti, e con essi il lavoro, la loro carriera, la loro famiglia, dal ritorno, anche a diversi decenni di distanza, di rivelazioni sulla loro partecipazione (vera o supposta) ad azioni illegali negli anni della loro giovinezza? In Italia, abbiamo già ricordato il caso dei tre esponenti di Lotta Continua, accusati il primo di essere il mandante, gli altri due di aver partecipato direttamente all’omicidio del commissario Luigi Calabresi. E in Germania, persino l’ex Ministro della Difesa del governo Schroeder, Joschka Fisher, venne coinvolto in una vicenda del genere a causa della (tardiva) pubblicazione di una serie di fotografie che lo ritraevano in azione alla fine degli anni Sessanta durante alcuni scontri

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con la polizia tedesca. Meglio allora tacere, non rivangare, lasciare che la memoria di quegli anni si perda…

San Basilio

Ciò nonostante, la cosa non finisce lì. Dopo che il dialogo fra i due vecchi compagni è stato interrotto per “il taglio della torta” nuziale, l’anonimo interlocutore romano riprende a parlare, anche se sempre a debita distanza dagli altri, come scosso dalla tenace rivendicazione della necessità della verità da parte del narratore. E racconta un episodio dimenticato di quegli anni, la morte di un giovane militante dei Comitati Operai di Tivoli, Fabrizio Ceruso, colpito da un proiettile sparato ad altezza d’uomo dalla polizia durante gli scontri per lo sgombero delle case occupate del quartiere romano di San Basilio, l’8 settembre 1974. Il vecchio militante, testimone e protagonista dell’occupazione e degli scontri, si lascia allora andare al filo della memoria. Ricorda l’occupazione, i tentativi di sgombero da parte della polizia, la durissima resistenza degli occupanti, le trattative, l’inganno delle forze dell’ordine che dopo aver promesso una sospensione degli sfratti ripetè senza preavviso l’assalto alle case all’indomani dei primi scontri. E poi i lacrimogeni, gli spari, e infine la morte di Ceruso, colpito da un proiettile proveniente dai reparti della Celere. E ricorda però che a quel punto, le armi comparvero anche nelle mani degli occupanti, con il risultato che tre membri delle forze dell’ordine vennero feriti uno al volto, l’altro al ventre e il terzo al torace.

Ma è la conclusione della vicenda a presentare un nucleo particolarmente problematico, allora come oggi; la durezza degli scontri, la tenacia con cui i gruppi organizzati dell’estrema sinistra condussero la resistenza a fianco degli occupanti ottenne in effetti un risultato insperato: all’indomani della morte di Ceruso, le autorità assegnarono 500 alloggi agli occupanti di San Basilio, di Casal Bruciato e di Tivoli.

Come a suggerire che in questo, come in altri casi furono la violenza e l’uso di armi da fuoco a determinare il successo di quelle lotte per la casa che segnarono quegli anni nei quartieri popolari di molte città italiane.

L’anonimo interlocutore ha ricordato gli scontri, l’occupazione delle case, la morte del giovane autonomo, la comparsa delle armi da fuoco da una parte e dall’altra, l’effimero ma concreto successo della lotta, la parte che nel successo giocò l’uso della violenza e delle armi. Ma non è per questo convertito alla posizione del narratore quanto alla necessità di rivendicare pubblicamente, trent’anni dopo, l’integralità di quelle esperienze: “Pensi che possa raccontare gli scontri di San Basilio ai

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colleghi d’ufficio mentre prendiamo il caffé […] o la notte di Natale a cena da mio suocero?” (p. 55), conclude. È evidente che in questo caso un nodo problematico ostacola l’opera della memoria. Su questo Carlotto non si pronuncia, pur indicando alcune piste di riflessione attraverso il racconto. In primo luogo, la profondità del cambiamento delle persone che presero parte a quei moti. Nel racconto la si coglie a più riprese, nell’effetto ironico prodotto dall’intrecciarsi di ricordi tragici e di una realtà fatta di torte nuziali, digestivi, caffé, e bomboniere

“del commercio equo e solidale” (p. 55). Oppure nelle parole dell’anonimo interlocutore, che ricorda lo scarto enorme che esiste fra la vita che conduce oggi la maggior parte dei vecchi militanti e l’epopea esaltante, violenta e disperata della loro giovinezza. Bastano pochi accenni (i colleghi, il suocero, il natale) e con la consueta economia di mezzi espressivi, quella che ne caratterizza anche la produzione noir, Carlotto rende perfettamente il senso della vita “normale” dell’oggi e del suo contrasto insanabile con la partecipazione ai conflitti di ieri. Ma vi è un altro accenno forse decisivo che aiuta a capire meglio l’apparente irriducibilità di questo scarto. Ed è quando il narratore ricorda che quando lui era bambino i partigiani che avevano partecipato alla Resistenza, e i militanti che avevano vissuto le prime grandi tragedie dell’Italia repubblicana (Reggio Emilia, 7 luglio 1960, 5 dimostranti morti in scontri con la polizia; Avola, 2 dicembre 1968, 2 braccianti uccisi durante uno sciopero) le loro storie gliele raccontavano rivendicandole con fierezza e dignità. E allora dov’è la differenza?

Perché quegli scontri, quelle morti, quei lutti, quegli epici conflitti, potevano essere raccontati e questi altri no? Cos’è successo in questi anni? E questo silenzio imbarazzato ha a che fare con quello che venne fatto allora o con quello che sono diventati dopo gli attori di quelle vicende? È senza dubbio qui una delle chiavi del nodo tematico del racconto.

Ci torneremo alla fine, perché a complicare, ma al tempo stesso a rendere forse più intellegibili, le cose c’è il secondo racconto, “Il comizio di Almirante”.

Almirante a Padova

Anche stavolta il narratore è il personaggio dell’autore stesso, un vecchio militante della sinistra extraparlamentare degli anni Settanta. I ricordi stavolta riaffiorano richiamati alla mente da una trasmissione televisiva, non da un incontro con vecchi compagni. Alla tivù il narratore si imbatte in una trasmissione dedicata alla consegna del premio Giorgio Almirante. Sono gli anni del secondo governo Berlusconi, in cui alla Rai entrano in forza anche gli eredi del

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neofascismo, sull’onda dell’entrata al governo del partito postfascista di Alleanza nazionale. E oltre ad occupare sistematicamente poltrone e spazi televisivi, questi ultimi si dedicano con fervore alla riscrittura della storia, alla riabilitazione del fascismo del ventennio e del neofascismo del dopoguerra. Il narratore reagisce pensando che “una volta non si sarebbero permessi”. E così ricorda la mobilitazione che nel 1974 raccoglieva centinaia di firme per metter fuori legge il MSI, e il clima di tensione che regnava a Padova, fra reciproci agguati e scontri diretti fra fascisti e giovani del movimento. Ricorda poi che la mobilitazione era riuscita nel maggio dell’anno dopo a impedire il comizio di Alfredo Covelli (1914-1998), uno dei leader della Destra Nazionale del tempo, presidente del partito che univa neofascisti e monarchici, il MSI-DN. E poi, sul filo della memoria, ricorda che nel corso della stessa campagna elettorale, il 3 giugno 1975, sempre a Padova venne indetto il comizio del segretario del partito neofascista, Giorgio Almirante.

E lì la memoria gli gioca un brutto scherzo, non perché dimentichi, ma proprio perché ricorda tutto, non solo pagine eroiche e effimeri trionfi della guerriglia urbana, ma lutti, morti e sconfitte. Infatti, il narratore ricorda che il giorno del comizio di Almirante si era ritrovato nel corteo e aveva partecipato agli scontri violentissimi fra il movimento e le forze dell’ordine, decise a impedire che i giovani di sinistra bloccassero il comizio del leader neofascista. Ricorda poi che nel corso di quella convulsa giornata si era imbattuto nel padre di una sua giovane vicina di casa, Annalisa. E che questi l’aveva convinto ad accompagnarlo a Mestre per tentare di ritrovare la figlia, tossicomane, scomparsa da casa da qualche giorno. Ricorda che il padre, disperato, si era dovuto sorbire una lezioncina sulla lotta di classe da parte del giovane rivoluzionario, ma che poi grazie a lui aveva potuto ritrovare la ragazza, che era finita a Mestre in compagnia di uno spacciatore legato agli ambienti dell’estrema destra veneta. Al ritorno a Padova, ormai la giornata era terminata: la polizia era riuscita a respingere gli assalti dei giovani antifascisti, Almirante aveva potuto tenere il suo comizio anche se in un clima da stato d’assedio, e Spadafina, uno dei leader del movimento, era stato arrestato. La memoria poi non si ferma lì, a quella giornata già carica di violenza e sconfitta. Riaffiora il ricordo dei destini dei protagonisti di quel racconto: la giovane tossicomane muore di overdose poco tempo dopo, il leader antifascista rimane in carcere diversi anni, il narratore stesso finisce in prigione ed è lì che incontra lo spacciatore di Mestre che morirà di aids – primo di una lunga serie – di lì a poco. Un cupo sentimento di sconfitta invade la scena. Il racconto ritorna allora al presente, al narratore davanti allo schermo. Dove era comparsa la giovane presentatrice televisiva che parlava del segretario

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dell’MSI come di un padre della democrazia italiana. Non gli resta allora che premere “il tasto off del telecomando”.

Questo secondo racconto comincia con due pensieri del narratore (“una volta non si sarebbero permessi […] un tempo le cose sarebbero andate diversamente”, e finisce, seguendo il filo della memoria, con il ricordo di una sconfitta storica. I personaggi che compaiono nel racconto sono tutti dei perdenti: l’ex militante di Potere Operaio diventato tossicomane, Annalisa che muore di overdose, lo spacciatore neofascista vittima dell’aids, il leader antifascista in prigione, i giovani militanti ingenui e volonterosi ma inadeguati. Il comizio di Almirante si tiene lo stesso, e la distanza fra il sè che racconta e il sè raccontato si rivela nel commento del narratore al suo comportamento del tempo nei confronti del padre disperato alla ricerca della figlia: “Se oggi fosse ancora vivo gli chiederei scusa”, commenta il narratore, come a dire che oggi, a quasi cinquant’anni, si rende conto di quanto quella sua saccente vulgata marxista da primo della classe sputata in faccia a un padre disgraziato che cerca disperatamente la figlia tossicomane fosse del tutto fuori luogo.

Sconfitta?

È forse allora il senso di sconfitta a segnare l’esperienza del cuore dei Settanta e a marcarne la differenza con l’epopea partigiana e antifascista che si prolunga fino al 1960 e persino negli scioperi dei contadini siciliani alla fine del 1968? I reduci degli anni Settanta devono continuare, per fedeltà al proprio passato, a rivendicare la propria storia, fatta di ideali, di antifascismo, di pratiche spesso anche violente rese necessarie dal contesto di duro scontro “politico e di classe”, come dicevano i volantini di allora, ma questa storia è come compromessa alla radice perché non ha prodotto una vittoria chiara e definita. Se con le armi gli occupanti di San Basilio avevano ottenuto l’assegnazione delle case popolari, a Padova già nel 1975 i giovani antifascisti non riuscivano più a impedire un comizio di Giorgio Almirante. Il seme della sconfitta era già germogliato: carcere, eroina, aids, la morte era già in agguato, minando i sogni e le speranze di tutta una generazione. E così, trent’anni dopo, la vedova di quello stesso Almirante che riuscì a tenere il proprio comizio con l’appoggio delle forze dell’ordine nel 1975, è alla televisione a celebrarne il ricordo come fosse un padre della patria. La memoria gioca brutti scherzi: partita da “un tempo le cose andavano diversamente” arriva a un, non detto ma sottinteso, “in realtà le cose sono uguali oggi come allora”.

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Storia non risolta. Risultati contraddittori. Storia non condivisa.

Giudizio storico ancora sospeso. Mondo politico e cultura ancora profondamente conflittuali. Storia scritta dai tribunali. Sconfitta politica.

Tutto questo ha impedito per trent’anni che le realtà di quegli anni fossero dette senza reticenze. La posizione di Carlotto sulla questione è però chiara. Se esiste una possibilità di far valere e di integrare questa esperienza nella coscienza nazionale, questo non può che derivare dalla verità, dalla visione dell’integralità di quell’esperienza e non da una sua manipolazione che ne lasci zone d’ombra e porzioni nascoste.

Quanto al dovere della memoria, l’impressione è che il grido di Carlotto cominci a venire ascoltato. Perché va detto che se su quegli anni i partecipanti alla lotta armata, dal capo delle Brigate Rosse Renato Curcio fino alla carceriera di Aldo Moro Anna Maria Braghetti, hanno molto detto e molto scritto, quella che per tre decenni era mancata era la voce di quei tanti, ingenui e idealisti partecipanti al movimento, il cui impegno venne stritolato dalla svolta terroristica della seconda metà degli anni Settanta. Negli ultimi anni, infatti non sono stati più solo gli aderenti alle BR a scrivere e a pubblicare memorie e interviste, ma anche quei semplici militanti che gli anni Settanta li hanno vissuti all’interno dei movimenti, da protagonisti o da semplici partecipanti e/o testimoni. Penso ai romanzi di Silvia Contarini (2005), Roberto Grassi (2005), Marco Philopat (2002), quest’ultimo non testimone diretto ma tramite delle memorie di un leader del movimento milanese dell’epoca, Andrea Bellini. Forse qualche piccolo passo verso la coscienza è stato fatto. E i contributi di Carlotto in questo sono stati essenziali.

Vi è però tutta una zona grigia che deve poi ancora essere portata alla luce, ed è quella intermedia fra i movimenti e il terrorismo, quell’enorme zona di frontiera, fatta di tante “stelline del firmamento della lotta armata” (“Cuori rossi”, p. 116) in cui precipitarono centinaia di militanti dell’epoca, e da cui uscirono (loro, gli altri, e l’Italia tutta) con le ossa rotte, fra spaccature interne, criminalità comune, prigione, esilio, pentimenti e accidentati cammini di redenzione. Su questa esperienza, Carlotto non è mai stato tenero. Il Pellegrini di Arrivederci amore ciao e i due militanti oggi tranquilli borghesi del racconto “Cuori rossi” ne rappresentano l’essenza, pur nella trasfigurazione romanzesca di genere. Ma di aperte opere della memoria su quella zona grigia ancora non ne esistono. E la mediazione finzionale permette solo in parte di colmare i vuoti della conoscenza e della coscienza collettiva, che è in fondo uno dei meccanismi fondamentali che stanno alla base dei romanzi di Massimo Carlotto. E così, dopo un detour per la storia, la memoria, i suoi silenzi e le sue luci ritorniamo al romanzo, e a alle sue potenzialità espressive e conoscitive. Ma questo è un altro inizio…

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Bibliografia

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Références

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