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Un seul monde Eine Welt Un solo mondo

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Academic year: 2021

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(1)

COOPERAZIONE

Partenariati di sviluppo:

nel caso ideale da pari a pari

La Liberia, uscita dall’inferno,

guarda con speranza al futuro

Le rimesse degli emigrati superano

di gran lunga i contributi stanziati

dall’aiuto pubblico allo sviluppo

Eine Welt

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Sommario

DOSSIER DSC ORIZZONTI FORUM PARTENARIATI DI SVILUPPO Nel caso ideale da pari a pari

All’approccio paternalistico in voga agli albori della cooperazione è subentrata una nuova concezione di partenariato secondo la quale il donatore e il beneficiario dell’aiuto sono partner che si incontrano da pari a pari

6

«Non basta la sola cooperazione allo sviluppo»

Intervista con Pietro Veglio, direttore esecutivo svizzero presso la Banca mondiale

12

Un partenariato per favorire la crescita dell’autonomia

Nel Mali, con il sostegno svizzero, sono stati creati nuovi partenariati destinati a consolidare le capacità umane ed istituzionali a livello regionale

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LIBERIA

La «terra della libertà» emerge dall’inferno

Dopo avere attraversato una delle guerre più sanguinarie d’Africa, la Liberia guarda con speranza al futuro

16

Desiderio di pace

Vivian Gartayn alla ricerca di un metodo pacifico per risolvere i problemi

20

La migrazione richiede il dialogo

Walter Fust, direttore della DSC, su migrazione e sviluppo

21

Cotone organico come alternativa

La Svizzera promuove in Kirghizistan la coltivazione di cotone biologico

22

Le rimesse degli emigrati, un buon affare per tutti

I parenti emigrati all’estero sono i finanziatori più importanti della lotta contro la povertà nei paesi in via di sviluppo

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Europa: la speranza è l’ultima a morire

Lo scrittore ucraino Jurij Andruchovyc˘ riflette sullo strano rapporto che unisce l’Europa e l’Ucraina

29

La rivoluzione delle danze africane

Riflessioni su una recente rivoluzione artistica che fa molto parlare di sé

30

Editoriale 3

Periscopio 4

Dietro le quinte della DSC 25 Che cos’è... la transizione? 25 Servizio 33

Impressum 35

La Direzione dello sviluppo e della cooperazione (DSC), l’agenzia dello sviluppo in seno al Dipartimento federale degli affari esteri (DFAE), è l’editrice di «Un solo mondo». La rivista non è una pubblicazione ufficiale in senso stretto; presenta infatti anche opinioni diverse. Gli articoli pertanto non esprimono sempre il punto di vista della DSC e delle autorità federali.

«Sette problemi li abbiamo già risolti!»

I programmi della DSC in Bangladesh sono incentrati sul supporto all’auto-aiuto e mirano alla riduzione della povertà

24

(3)

«In effetti, perché mai l’ucraino Andruchovyc˘ dovreb-be poter visitare il polacco Stasiuk usufruendo di un visto gratuito? Non sia mai! Che paghi e, per di più, lasci da qualche parte le sue impronte digitali, gli è già andata bene per uno che la sorte ha fatto nascere tra prostitute e criminali!»

Gentile lettrice, cortese lettore, potrà leggere queste righe a pagina 29 della presente edizione. Sono state scritte dall’autore che ospitiamo quest’anno, lo scrit-tore ucraino Jurij Andruchovyc˘. Non par vero, ma la sua «Carta bianca» ricorda a noi svizzere e svizzeri che, per altre cittadine e cittadini extracomunitari, l’Euro-pa è qualcosa di fondamentalmente diverso che per noi. Un’ottica, questa, che stimola la riflessione. Chi siamo noi, come ci poniamo di fronte all’Europa e alla solidarietà con i diseredati di questo mondo? La Sviz-zera da dove dovrebbe prendere, senza rubare, quel miliardo di franchi necessario a sostenere l’integra-zione dei nuovi paesi dell’Unione Europea? La nostra situazione finanziaria è allarmante e continuiamo a pro-porre misure di risparmio per non lasciare alle future generazioni un indebitamento eccessivo. Da dove dunque prendere questo miliardo? Si tratta di do-mande difficili, seppur necessarie, che vanno ben ponderate.

La Liberia, un paese che la guerra civile e il terrore han-no gettato sul lastrico, ha un nuovo simbolo di spe-ranza. La sua neoeletta presidente Ellen

Johnson-Sir-leaf ha visitato nel marzo di quest’anno la Svizzera, in-contrando in particolare il Presidente della Confede-razione Leuenberger e la Consigliera federale Calmy-Rey. Insieme hanno deciso che il direttore della DSC Walter Fust si sarebbe recato in missione in Liberia per chiarire sul posto con i suoi specialisti dell’Aiuto uma-nitario e i partner locali come la Svizzera avrebbe po-tuto assistere maggiormente la Liberia a breve termi-ne. Il risultato è già noto: oltre ai 4,9 milioni di franchi preventivati all’inizio dell’anno, la Svizzera farà avere alla Liberia tre altri milioni per alcuni programmi bila-terali nel campo del settore sanitario, delle infrastrut-ture stradali, dell’istruzione e della buona gestione de-gli affari pubblici. Gentile lettrice, cortese lettore, vo-gliate leggere a proposito a pagina 16 il servizio sulla Liberia.

I due articoli qui menzionati invitano a confrontarsi con il tema delle frontiere, e ciò in senso positivo. Infatti, solo chi riesce a guardare oltre il proprio naso allarga gli orizzonti, si avvicina a cose nuove, e si apre agli al-tri. Questa stessa problematica interessa quotidiana-mente anche i partenariati di sviluppo, tema del dos-sier del presente numero, e richiama d’altronde il tito-lo di questa rivista: un sotito-lo mondo.

Harry Sivec

Capo Media e comunicazione DSC (Tradotto dal tedesco)

(4)

Cor

dula Kr

opke / agenda

UNEP / Africa Lakes

Laghi agonizzanti

(bf) Grazie ai suoi 680 laghi, l’Africa dispone di più acqua di ogni altro continente. Ma gli africani non potranno goderseli a lungo, visto che stanno rapida-mente prosciugandosi. Il Lago Ciad, per esempio, si estendeva nel 1963 ancora su 22’902 chilo-metri quadrati. Oggi, a causa dei periodi di siccità e del fabbiso-gno d’acqua dei contadini, si è ridotto a soli 304 chilometri quadrati – un settantacinquesimo della sua superficie originale. Il livello del Lago Vittoria è sceso di un metro negli ultimi dieci anni: il secondo maggior serba-toio di acqua potabile della terra approvvigiona infatti oltre 30 milioni di individui. Un nuovo atlante del Programma del-l’ONU per l’ambiente (UNEP) illustra la moria dei laghi avva-lendosi di immagini satellitari. «È un monito», dice il capo dell’UNEP Klaus Töpfer, «ci ricorda che dobbiamo gestire in modo più sostenibile i laghi d’Africa se vogliamo vincere la povertà».

Resteremo senza banane e senza mais?

(gn) Dopo il riso, i cereali e il latte, le banane sono il quarto alimento più importante al mondo. Originariamente la ba-nana proviene dall’Asia

sud-orientale, dove è coltivata da millenni. Ora è però minacciata di estinzione: il fungo «Black Sigatoka» distrugge intere pian-tagioni e sta avanzando a livello planetario. Dato che le banane sono coltivate principalmente come monocolture e che si pro-pagano solo attraverso la ripro-duzione vegetativa, la gamma del loro patrimonio genetico è ri-strettissima. La maggior parte dei frutti oggi in commercio è della stessa famiglia. Non esistono pressoché più varietà selvatiche o tradizionali che resistano alla malattia crittogamica. «Molti dei geni che potrebbero salvare la banana sono andati persi», teme NeBambi Lutaladio della FAO. Problemi simili si profilano an-che per il mais. Questo cereale altamente selezionato necessita continuamente di nuovi incroci

per poter assicurare rese elevate. Anche se le banche dei geni conservano nel mondo oltre 250 mila varietà di mais, sussiste il pericolo di un impoverimento genetico: i ricercatori hanno in-fatti constatato che, a seguito di un cattivo stoccaggio, oltre la metà di queste scorte cruciali per la selezione sono diventate inuti-lizzabili.

La Svizzera, un paese in via di sviluppo

(bf) Con una presenza femmi-nile del 25 per cento in Consi-glio nazionale, la Svizzera si situa al 29° posto nella classifica mon-diale «Le donne nei parlamenti nazionali», stilata dall’Unione interparlamentare. La classifica considera 187 parlamenti nazio-nali. In testa figura il Ruanda che, a causa di una quota fissata

P

(5)

Hamish W

ilson / Panos / Strates

parte dei parlamenti di Cuba, Spagna, Mozambico, Paesi Bassi e Austria. La Germania si situa al 16° posto con il 31,8 percento. La Svizzera, malgrado una cre-scente presenza femminile, è retrocessa negli ultimi anni. Nel 2004 era al 22° posto, nel 1999 al 14° posto con il 22,5 per cento di deputate al Consiglio nazionale. È stata superata da vari paesi in via di sviluppo, segnatamente dal Burundi, dall’Afghanistan, dal Vietnam e dalla Namibia.

Cioccolato al latte di cammella

(bf) L’Organizzazione dell’ONU per l’alimentazione e l’agricol-tura (FAO) cerca investitori per un promettente mercato di circa 15 miliardi di franchi. Il denaro

La FAO è convinta che, tramite un’agricoltura mirata e l’assi-stenza veterinaria, sia possibile aumentare la produzione lattiera giornaliera per cammella da 5 a 20 litri. Per il latte fresco di cammella si pagano sui mercati africani circa 1,50 franchi. Considerando i circa 200 milioni di potenziali clienti nei soli paesi arabi, l’affare si prospetta redditi-zio. Il latte di cammella è povero di grassi, leggermente più salato del latte vaccino, possiede tre volte tanta vitamina C, lenisce le allergie e trova già impiego per i prodotti di lusso. Con i fondi stanziati dalla famiglia reale di Abu Dhabi, il cioccolataio vien-nese Johann Georg Hochleitner lancerà quest’autunno un cioc-colato a basso tenore di grassi. Egli importa il latte in polvere da

Al Ain negli Emirati Arabi, lo trasforma in cioccolato in Austria e lo reimbarca a destinazione del Golfo Persico. Un carico di ben 50 tonnellate al mese.

Aumenti e risparmio

(bf) Nell’ambito del più grande studio del suo genere, i ricerca-tori hanno osservato per quattro anni 286 progetti di agricoltura ecologica in 57 dei paesi più

po-rese in media del 79 per cento, senza pregiudicare i futuri rac-colti. Invece dei pesticidi, per la lotta antiparassitaria hanno im-piegato insetti, uccelli e animali da preda. Una maggiore quantità di humus nel suolo ha consen-tito di diradare la frequenza delle irrigazioni. «Considerata la cre-scita demografica, non si sa con certezza se questo tipo di agri-coltura potrà fornire in futuro cibo a sufficienza per tutti», afferma Jules Pretty dell’Univer-sità di Essex in Inghilterra, «ma la sua diffusione aumenterebbe in ogni caso la produttività e risparmierebbe l’ambiente.» Pretty spera perciò che lo studio inciti i governi e le organizza-zioni ambientaliste a migliorare la gestione del suolo.

(6)

Huber / laif

DOSSIER

Partner ieri (sopra) e oggi: dall’inizio della cooperazione svizzera allo sviluppo, le relazioni tra i donatori e i beneficiari dell’aiuto sono radicalmente cambiate. All’approccio paternalistico è subentrata una nuova concezione di partenariato da pari a pari.

Ar

chivio DSC

Ar

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Nel caso ideale

da pari a pari

Negli ultimi 50 anni i partenariati della cooperazione svizzera

hanno subito continui cambiamenti. All’approccio

paternalisti-co degli albori è subentrata una nuova paternalisti-concezione sepaternalisti-condo la

quale il donatore e il beneficiario dell’aiuto sono partner che si

incontrano sullo stesso livello. Infatti, con il passare degli anni

è maturata l’idea che è sicuramente meglio che i partner

pren-dano in mano la loro sorte e sviluppino le loro proprie strategie

per alleviare la povertà nei rispettivi paesi. Di Maria Roselli.

La gravità della situazione è nota: circa un quinto

dell’umanità vive in condizioni di povertà estrema, con meno di un dollaro al giorno. Gli Obiettivi di sviluppo del Millennio esigono un netto migliora-mento della situazione per almeno la metà di que-ste persone entro il 2015.L’ambizioso obiettivo po-trà tuttavia essere raggiunto solo se i governi, gli organismi di sviluppo, l’economia privata e la so-cietà civile nelle nazioni industrializzate e nei pae-si in via di sviluppo uniscono le forze per percor-rere insieme nuove vie in qualità di partner. Ogni anno nel mondo si investono circa 70 mi-liardi di dollari nella cooperazione allo sviluppo. Il contributo della Svizzera ammonta a circa 1,5 mi-liardi di franchi. Somme ingenti, che però da sole non garantiscono un miglioramento durevole del-le condizioni di vita dei più diseredati.Ai partena-riati spetta, di conseguenza, un ruolo sempre più importante nella cooperazione allo sviluppo. In-fatti, il successo delle agenzie di sviluppo si misu-ra in ultima analisi dal successo dei loro partner nei paesi industrializzati e, soprattutto, anche dei part-ner nel Sud e nell’Est del mondo, siano essi gover-ni o orgagover-nizzaziogover-ni non governative (ONG), isti-tuzioni pubbliche o private, istituti di ricerca o im-prese private.Un ruolo particolarmente importante nell’ambito della cooperazione svizzera è svolto dalle organizzazioni umanitarie, sia in Svizzera che quelle in loco, dalle agenzie dell’ONU e dalle isti-tuzioni finanziarie internazionali.

Addio al «piccolo contadino sottosvilup-pato»

Dagli albori della cooperazione svizzera allo svi-luppo negli anni 1960, la concezione e il modo di trattare con le organizzazioni partner sono radi-calmente mutati. «L’immagine del casaro bianco

nerboruto che mostra al piccolo contadino nepa-lese come si mescola il latte nella caldaia del for-maggio aveva connotato gli inizi della coopera-zione allo sviluppo. Un aiuto fornito con buone intenzioni e anche molto efficace nella sua imme-diatezza ma, visto col senno di poi, anche piutto-sto paternalistico», ci spiega Adrian Schläpfer, vi-cedirettore della DSC e capo del Settore Coope-razione bilaterale allo sviluppo.

Negli anni 1970 un simile paternalismo si è in se-guito manifestato a livello internazionale. Erano i tempi del cosiddetto «consenso di Washington», quando con i programmi di aggiustamento strut-turale venivano fornite ai paesi in via di sviluppo ricette per stabilizzare l’economia. L’idea che l’aiu-to allo sviluppo dovesse svolgersi «da pari a pari», è maturata negli anni 1980, quando il lavoro della DSC ha assunto in modo molto più sistematico un orientamento partecipativo.Questo perché ci si era resi conto che l’aiuto dall’esterno è sostenibile solo se i beneficiari assumono le loro responsabilità e se si considera il loro contesto politico ed economico.

La globalizzazione modifica il concetto di partenariato

Ma oggi, il solo approccio partecipativo non è suf-ficiente. Sullo sfondo della globalizzazione i parte-nariati assumono una nuova rilevanza. Ovviamen-te, l’idea della solidarietà continua a essere impor-tante come valore fondamentale nel contesto della politica di sviluppo, ma considerate le sfide ormai globali – quali il cambiamento climatico, le pan-demie come l’aids, oppure la stabilità dei mercati finanziari – la concezione dei partenariati subisce un cambiamento. In altri termini: in un mondo globalizzato la politica di sviluppo deve conside-rare maggiormente le problematiche comuni dei

Criteri di un buon partenariato

«Affinché un partenariato possa funzionare è neces-sario che siano rispettati vari criteri. Importanti sono in particolare la fiducia reci-proca, una convergenza dei valori, l’apertura e la trasparenza. Inoltre, è ne-cessario tematizzare sin dall’inizio la fine del parte-nariato, affinché il partner sappia esattamente che la DSC assicura il sostegno solo per un periodo limi-tato. Un progetto è riuscito solo quando non necessita più né dell’impulso esterno né delle risorse esterne. Un buon partenariato non deve dunque creare dipen-denze».

Adrian Schläpfer, vicediret-tore della DSC, capo del Settore Cooperazione bila-terale allo sviluppo

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paesi in via di sviluppo e delle nazioni industria-lizzate.Walter Hofer, capo sostituto del settore Po-litica di sviluppo e cooperazione multilaterale del-la DSC, è convinto: «La politica estera e del-la politi-ca di sviluppo devono trasformarsi in una politipoliti-ca nazionale di prevenzione per consentire al paese di sopravvivere. Oggi più che mai un paese deve ri-conoscere che non può affrontare da solo la solu-zione di problemi globali. Ciò vale anche per la Svizzera». Il metro di misura di un buon partena-riato non è dunque più semplicemente la riuscita di un singolo progetto, ma il contributo che esso fornisce alla soluzione di problemi globali o per lo meno regionali. Proprio per questo, all’atto della scelta dei partner, si attribuisce una grande impor-tanza alla loro capacità di influenzare il sistema.

Armonizzare e allineare l’aiuto

Questo nuovo modo di operare nella cooperazio-ne allo sviluppo è riconosciuto sul piano interna-zionale ed è stato concretizzato già nel 2002, nel-l’ambito del partenariato di sviluppo di Monter-rey, e quindi nuovamente nel 2005, nell’ambito della cosiddetta Dichiarazione di Parigi. Un mi-gliore coordinamento fra i donatori a livello sia bi-laterale che multibi-laterale, nonché il comune orien-tamento delle risorse disponibili dovrebbero con-sentire di aumentare l’efficacia della cooperazione allo sviluppo.

La riflessione sottesa è quella di consentire a ogni paese in via di sviluppo di elaborare dapprima in

modo autonomo la propria strategia di riduzione della povertà e stabilire le priorità che devono in-dirizzare l’azione. I programmi dei donatori devo-no quindi orientarsi in funzione dei bisogni e del-le priorità così formulati. Inoltre, ci si prefigge di semplificare le pratiche, di evitare i doppioni e, gra-zie a questa armonizzazione, di ridurre i costi am-ministrativi. Questo modo di procedere è noto fra gli specialisti come «armonizzazione e allineamen-to» e suscita un grande interesse fra i partner nei paesi in via di sviluppo. I governi partner e le ONG in loco lo apprezzano poiché risparmia loro mol-to lavoro amministrativo con le varie organizza-zioni donatrici e, grazie ai documenti strategici di cui si sono dotati, consente loro di tenere nelle mani le redini del loro destino.

Ma a questo proposito si levano anche delle criti-che perché i paesi donatori convogliano sempre più spesso fondi per lo sviluppo direttamente nei bilanci statali anziché finanziare progetti. Peter Niggli, direttore di Alliancesud, mette infatti in guardia da un eccessivo ricorso all’aiuto al bilancio: «In pri-mo luogo, i paesi in via di sviluppo non sono li-beri nella formulazione delle loro strategie di lot-ta alla povertà, ma devono continuare ad accetlot-tare le condizioni imposte dai donatori in materia di politica economica. In secondo luogo, la società ci-vile e i parlamenti in diversi paesi in via di svilup-po si lamentano di non essere quasi mai consulta-ti quando i loro governi elaborano le strategie e negoziano l’aiuto al bilancio con i donatori.

(9)

Piepenburg / laif

Nicholl / laif

Jorgen Schytte / Still Pictur

es

Hartmut Schwarzbach / Still Pictur

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Gérar

d & Margi Moss / Still Pictur

es

tre, le esperienze fatte finora mostrano che i mez-zi forniti a titolo di aiuto al bilancio rimangono spesso bloccati presso il governo centrale». Walter Hofer mostra comprensione per questa cri-tica, ma ritiene che l’armonizzazione dell’aiuto comporti ben di più del semplice aiuto al bilancio. L’aspetto preminente è, secondo lui, la necessità di ridurre i cosiddetti costi di transazione dell’aiuto allo sviluppo, ossia i costi generati per trasferire l’aiuto allo sviluppo dal paese donatore al paese be-neficiario.

Tuttavia, anche per Hofer è palese che: «Benché la Svizzera approvi di principio l’idea dell’efficienza e del partenariato sottesa all’approccio di

armoniz-zazione e allineamento, non si rende certo schiava di

questo approccio».

Quando progetti e aiuto al bilancio si completano a vicenda

Nel Mozambico, un paese prioritario della co-operazione svizzera allo sviluppo, l’approccio di «armonizzazione e allineamento» è già applicato da anni. All’inizio degli anni 1990 vari paesi donato-ri si erano uniti in seno a un pool per sostenere in-sieme il budget nazionale del settore sanitario. L’idea che li aveva ispirati è avvincente: a che ser-ve mai un singolo ospedale ben gestito in uno Sta-to nel quale il setSta-tore sanitario non merita quesSta-to attributo? Il sistema che circonda questo ospedale, segnatamente gli altri ospedali e il settore sanita-rio, non cambia affatto solo in virtù della

presen-za di un unico ospedale funzionante. Le ricadute sul sistema sono perciò considerate importantissi-me.Convinta di questo,la DSC aveva svolto in Mo-zambico sin dall’inizio un ruolo importante per promuovere l’alleanza fra i paesi donatori. Nel frattempo, 18 paesi donatori si sono uniti e concedono al governo partner un aiuto al bilancio sia generale che settoriale per il settore sanitario; inoltre sono attivi in vari progetti con diversi part-ner locali.

Mentre l’aiuto al bilancio generale è finanziato dal Seco, la DSC provvede all’aiuto settoriale e al fi-nanziamento dei progetti. La DSC sostiene per esempio i progetti di «SolidarMed» e «Medici sen-za frontiere» che, a Maputo e Lichinga, lavorano con ospedali nazionali nel campo del trattamento dell’aids.

Questi progetti sono complementari rispetto al-l’aiuto al bilancio per il settore sanitario, poiché il loro scopo è di consolidare a lungo termine le ca-pacità del settore sanitario nazionale nel campo del trattamento dell’aids, affinché l’assistenza sanitaria possa essere offerta dallo Stato. «Si tratta di un buon esempio di come progetti e aiuto al bilancio per il settore sanitario possano avanzare mano nella mano: a livello locale si tenta di alleviare la situa-zione d’emergenza e di formare capacità locali, mentre a livello nazionale ci si prefigge di sostene-re il Ministero della sanità affinché assolva tutti i suoi compiti»,ci spiega Bures Hynek,incaricato del programma per il Mozambico della DSC.

Madagascar: se manca il dialogo con il governo

A volte si verificano casi nei quali la mancanza di impe-gno da parte del partner impone di sciogliere il partenariato: Per 30 anni il Madagascar è stato un paese prioritario della co-operazione svizzera, ma nel 1998 la collaborazione con il governo ha dovuto essere interrotta. La DSC ha nondimeno continuato a mantenere la sua presenza nel paese, ma ha voluto collaborare solo con istitu-zioni private: opere umani-tarie svizzere attive in loco e organizzazioni della so-cietà civile malgasce. «Per anni abbiamo dato prova di pazienza nei confronti del governo, ma il regime di Didier Ratsiraka era cor-rotto e radicato nell’oligar-chia locale», osserva Adrian Schläpfer. «Il go-verno parlava in modo del tutto inattendibile riguardo alla lotta contro la povertà. Dopo anni di tentativi fatti per condurre con il go-verno un dialogo impegna-tivo abbiamo dovuto con-statare che ciò non era possibile. Il ritiro è dunque stato inevitabile».

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Jorgen Schytte / Still Pictur

es

Jorgen Schytte / Still Pictur

es

Kimmig / laif

Piccole ONG, potenti istituzioni finanziarie

Ma chi sono i partner della cooperazione svizzera allo sviluppo? Elencarli tutti sarebbe un’impresa impossibile:la DSC collabora con centinaia di part-ner,segnatamente istituzioni pubbliche, ONG, im-prese private, e ciò sia a livello nazionale sia inter-nazionale, nei paesi in via di sviluppo e nei paesi in transizione. Non importa che si tratti di colla-boratori di ministeri o dirigenti delle istituzioni finanziarie internazionali, di ricercatrici presso isti-tuti di ricerca o di militanti di una ONG: tutte e tutti sono parte integrante dei partenariati per lo sviluppo.

In Svizzera assumono una particolare importanza i partenariati con le organizazzioni umanitarie Ca-ritas, Heks, Pane per tutti, Sacrificio quaresimale, Terre des Hommes, Soccorso operaio svizzero (SOS) e molte altre: infatti, l’aiuto svizzero allo svi-luppo aveva preso avvio proprio con il lavoro

del-le opere umanitarie. La Confederazione vi si era aggiunta solo negli anni 1960. Helvetas è una del-le più vecchie organizzazioni umanitarie della Sviz-zera.

La collaborazione è tanto stretta che, per esempio in Bhutan, tutto il programma della DSC è attua-to da Helvetas, la quale si incarica pure della sua rappresentanza in loco. «I partenariati con le ONG in Svizzera sono importantissimi per la DSC per-ché,grazie alla loro esperienza,alle loro conoscenze e ai loro partner nel Sud, forniscono un importante contributo all’implementazione e all’impostazio-ne della cooperazioall’impostazio-ne svizzera», ci dice Konrad Specker, capo della Sezione ONG della DSC.

Influenza importante

Altrettanto importante è la collaborazione con tut-te le organizzazioni dell’ONU, in particolare con il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo

Romania: la fine di un partenariato

La Romania dovrebbe pre-sumibilmente aderire all’UE nel 2007. Questo paese in transizione si dibatte però tuttora con grandi pro-blemi. Le privatizzazioni e la riorganizzazione delle imprese continuano a causare licenziamenti di massa. Nell’ambito della transizione è necessario adeguare le leggi sul lavoro e, nel campo della socialità, è necessario trovare nuove soluzioni. Il Soccorso operaio svizzero (SOS) realizza dal 2002, su mandato della DSC, un progetto in materia di lavoro e sindacati. Il SOS gestisce fra l’altro con partner locali dei centri di collocamento in cinque città. Alla fine del 2007 questi partenariati do-vranno essere sciolti a causa dell’ingresso nell’UE. L’obiettivo di SOS è ora quello di assistere i suoi partner in questo diffi-cile frangente. «Abbiamo già incominciato nel 2003 a programmare con loro il nostro ritiro affinché, quando sarà il momento, possano reggersi sulle loro gambe. Ora li aiutiamo a trovare nuovi partner per consentire loro di prose-guire il lavoro anche oltre il 2007», afferma Claude Nicolet, incaricato del pro-gramma presso il SOS.

A seconda dell’ambito di sviluppo in cui intende operare, la Svizzera si avvale di partner diversi: organizzazioni umanita-rie, ONG locali, imprese private, ministeri o orga-nizzazioni internazionali, quale la Banca mondiale.

(11)

Reporters / laif

ne del nuovo Consiglio per i diritti umani», ci spie-ga Walter Hofer.

La situazione di partenza per una cooperazione allo sviluppo più efficace è, in effetti, continuamente migliorata negli ultimi 50 anni e ciò ha già per-messo di conseguire alcuni successi: se due gene-razioni fa la metà dell’umanità viveva ancora in condizioni di assoluta povertà, oggi questa percen-tuale è scesa al 20 per cento. La strada imboccata sembra essere quella giusta, ma agli attori della cooperazione allo sviluppo rimane ancora molto da fare. ■

(Tradotto dal tedesco)

(UNDP), il Fondo delle Nazioni Unite per l’in-fanzia (UNICEF), il Fondo delle Nazioni Unite per le attività in materia di popolazione (UNFPA) e, ovviamente, i partenariati con le istituzioni fi-nanziarie internazionali, segnatamente la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale. L’adesione alla Banca mondiale (1992) e l’adesio-ne all’ONU (2002) erano contestate in seno alla popolazione, ma in seguito si sono rivelate di emi-nente importanza per la Svizzera e la sua coopera-zione allo sviluppo. «La Banca mondiale non rap-presenta assolutamente una panacea per le istitu-zioni di sviluppo, ma il fatto di detenervi un seggio ci consente di partecipare alle decisioni più im-portanti. Nel caso dell’ONU è successo qualcosa di simile: la situazione della Svizzera in materia di politica estera è infatti notevolmente cambiata da quando ha acquisito lo statuto di membro.Abbia-mo per esempio potuto influenzare la

costituzio-Mano nella mano con l’economia privata in Sudafrica

I mezzi della cooperazione pubblica allo sviluppo sono limitati. Per alleviare in modo sostenibile la po-vertà sono dunque neces-sari anche l’impegno e le risorse dell’economia privata. La DSC e il Segre-tariato di Stato dell’econo-mia (Seco) hanno perciò intensificato negli ultimi anni la collaborazione con l’economia privata. Un esempio proveniente dal Sudafrica mostra come funzionano le cose: la disoccupazione è uno dei maggiori problemi di quel paese. Nel 2001 la DSC e dieci imprese svizzere hanno lanciato la «Swiss-South African Cooperation Initiative» (SSACI). Quest’ultima è un fondo d’investimento privato a scopo sociale che incen-tiva finanziariamente pro-grammi di organizzazioni locali volti a promuovere la formazione e la qualifica professionale dei giovani sudafricani. Al finanzia-mento partecipano in parti uguali la DSC e le imprese svizzere (fra le quali Holcim e Novartis). Il consiglio di amministrazione si com-pone di rappresentanti della DSC, delle imprese e delle organizzazioni della società civile locale.

(12)

Cor

dula Kr

opke / agenda

Signor Veglio, lei ha al suo attivo 37 anni di servizio nella cooperazione allo sviluppo svizzera. Com’è cambiato in questi anni il modo di intendere i partenariati con le isti-tuzioni del Sud?

Oggi, a differenza di allora, si sa che la leadership spetta ai paesi in via di sviluppo. Devono essere, infatti, loro stessi a determinare le modalità del processo di sviluppo economico, sociale e politi-co. La leadership tuttavia non va lasciata ai soli go-verni, vanno coinvolti anche la società civile e il settore imprenditoriale.

Al momento dell’adesione della Svizzera alle istituzioni di Bretton Woods, alcune istituzioni svizzere attive nella cooperazio-ne erano scettiche. Lei che bilancio trae di questo partenariato?

Mi ricordo bene la votazione del 1992, allora le grosse organizzazioni private svizzere avevano dato un appoggio condizionato affinché la Sviz-zera cercasse di orientare le politiche della

Ban-ca mondiale a favore delle popolazioni povere. Es-sendo la Svizzera riuscita ad avere un posto nella direzione esecutiva ha potuto difendere una po-litica che va in questa direzione. Infatti, tentiamo di essere fermi sui principi inalienabili, ma non in modo dogmatico, bensì in modo flessibile, che tenga conto della situazione dei singoli paesi. Per-sonalmente mi sono battuto per snellire le pro-cedure interne, per far in modo che certe politi-che, che i paesi industrializzati hanno dettato alla Banca mondiale, non siano applicate in modo bu-rocratico a discapito dei partner nel Sud.

Lei presiede anche il Committee on

Develop-ment Effectivness (CODE) della Banca

mon-diale. Quali sono le nuove sfide poste ai par-tenariati per migliorare la loro efficacia?

Innanzitutto, direi che è un onore per la Svizze-ra presiedere il CODE. Il comitato svolge un ruo-lo importante perché permette, tra l’altro, di ren-dere l’apparto burocratico della Banca mondiale più efficace e flessibile. In materia di

armonizza-Armonizzare e allineare le pratiche e le politiche delle istituzioni

internazionali preposte alla cooperazione allo sviluppo, come

ad esempio la Banca mondiale, è di primaria importanza.

So-prattutto, se si considera che la sola cooperazione allo

svilup-po non è sufficiente per ridurre in modo decisivo la svilup-povertà nel

mondo. Lo afferma Pietro Veglio, direttore esecutivo svizzero

presso la Banca mondiale, nell’intervista di Maria Roselli.

«Non basta la sola cooperazione allo sviluppo»

Pietro Veglio ha iniziato

la sua attività presso il Servizio della cooperazione tecnica, oggi Direzione dello sviluppo e della cooperazione (DSC), alla fine del 1969. In seguito, ha assunto varie mansioni direttive quale caposezione e coordinatore sia presso la sede centrale che all'estero. È stato altresì Governatore supplente presso la Banca interame-ricana di sviluppo. Dal 1992 al 1997 ha lavorato quale consigliere del Direttore esecutivo sviz-zero presso la Banca mondiale a Washington, poi come esperto di valu-tazione in seno alla Divisione delle valutazioni. Dal 1998 al 2001 Veglio è stato direttore per l'analisi della qualità delle politiche bilaterali di aiuto allo svi-luppo presso l’Organizza-zione per la cooperal’Organizza-zione e lo sviluppo economico (OCSE) a Parigi. Dal 2002 Veglio riveste la carica di Direttore esecutivo sviz-zero e di membro del con-siglio di amministrazione presso la Banca mondiale. Dal 2005 presiede il

Committee on Develop-ment Effectiveness (CODE),

un comitato che delibera sugli orientamenti delle nuove politiche operative e sulle raccomandazioni delle valutazioni indipen-denti.

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Jörg Böthling / Still Pictur

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Gerar

d & Margi Moss / Still Pictur

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zione e allineamento il comitato ha invitato la Banca mondiale a collaborare attivamente con al-tri donatori e altre entità. Cosa molto importan-te perché in certi casi la Banca mondiale importan-tende ad apparire come un elefante in un negozio di por-cellana. Anche a livello di Comitato di aiuto allo sviluppo (DAC) dell’OCSE c’è l’impegno dei donatori bilaterali di concordare delle forme co-muni di intervento. Proprio per evitare che ognu-no curi solo il suo orticello. Il problema è però dato dalla prassi e dalle procedure vigenti in ma-teria operativa ed amministrativa. Infatti, ogni do-natore bilaterale risponde a un parlamento e a una amministrazione pubblica.Accettare dei resocon-ti di un progetto, senza potere idenresocon-tificare neces-sariamente le attività concrete che si sono finan-ziate, come avviene con l’aiuto al bilancio, pone delle sfide alle amministrazioni nazionali, perché molti contribuenti vogliono sapere come sia sta-to speso ogni singolo franco.

Restiamo sul tema dell’aiuto al bilancio. È una strada maestra da seguire o da intra-prendere con molta cautela?

L’aiuto al bilancio si giustifica soprattutto quan-do si opera nell’ambito di politiche settoriali, se si vuole per esempio migliorare progressivamen-te la capacità del sisprogressivamen-tema nazionale di realizzare politiche educative e sanitarie più efficaci. Natu-ralmente devono essere date le condizioni indi-spensabili per un tale intervento. D’altra parte an-che il sostegno di progetti mirati, per esempio per finanziare opere d’infrastrutture, è giustificato e spesso urgente. Si tratta di modalità di finanzia-mento complementari.

Per la singola ONG che implementa i pro-getti cosa cambia?

Nel caso dell’aiuto al bilancio, le organizzazioni locali ricevano il finanziamento dal governo e non dalle agenzie estere, è questa la grande differenza.

Ma il coinvolgimento della società civile in questi casi è veramente garantito?

Dipende, a volte i governi sono effettivamente poco propensi a rivolgersi a delle ONG. Mentre nel caso di un aiuto mirato, il donatore estero de-cide autonomamente quale ONG vuole finanzia-rie. Ma anche in questo caso i donatori bilaterali generalmente non operano contro la volontà del governo.

La Svizzera è lontana dallo stanziare lo 0,7 per cento del Reddito nazionale lordo per la cooperazione allo sviluppo. Saranno soprat-tutto i nostri partner a pagare il prezzo di quest’inadempienza?

L’obbiettivo dello 0,7 per cento è stato fissato qua-si 40 anni fa. A tutt’oggi sono pochisqua-sime le na-zioni che lo raggiungono. È chiaro che mi augu-rerei una partecipazione maggiore.Tuttavia, il solo aiuto allo sviluppo non basta. Importante è anche il commercio estero e, soprattutto, l’accesso dei paesi in via di sviluppo ad altri mercati. In que-sto senso i negoziati di Doha sono fondamenta-li. Non bisogna inoltre dimenticare l’importanza degli investimenti privati. E da ultimo vi deve es-sere la coerenza delle politiche dei paesi indu-strializzati, per esempio la coerenza fra l’aiuto allo sviluppo e la politica commerciale. Oggi i paesi in via di sviluppo chiedono ai paesi industrializ-zati di sopprimere i sussidi all’agricoltura ed i dazi doganali e la Svizzera su questo è interpellata in prima persona. ■

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Ian Cartwright / Panos / Strates

Bamako è sempre più invasa dai rifiuti. Per fre-nare il moltiplicarsi delle discariche abusive, il go-verno maliano ha autorizzato la capitale ad in-stallare una discarica nella piccola località limitrofa di Tienfala. Le autorità locali, che non erano sta-te consultasta-te, hanno sollecitato l’aiuto della co-operazione svizzera. Con il sostegno di esperti hanno analizzato l’impatto di un simile impianto sul loro territorio, poi hanno interpellato il Mi-nistero dell’ambiente per negoziare le modalità. Questo partenariato va ben oltre un semplice so-stegno circoscritto: «Grazie alla perizia tecnica messa a disposizione, il comune di Tienfala ha po-tuto sviluppare le proprie capacità di analisi e di negoziazione», osserva Ahlin Byll, incaricato di programma presso la DSC.

In questo paese, ancora segnato da quattro decenni di centralismo, le istanze politiche locali in cari-ca dal 1999 imparano poco a poco a gestire gli af-fari pubblici e a difendere gli interessi dei loro

cit-tadini. La DSC sostiene questo processo di cre-scita puntando su relazioni di partenariato. Jean-Luc Virchaux, direttore dell’ufficio della coope-razione svizzera a Bamako, definisce così i punti di forza del partenariato: «Le controparti devono riconoscersi le differenze reciproche, condivide-re gli obiettivi e lavoracondivide-re nella traspacondivide-renza. Il fi-nanziatore non impone il suo progetto di svilup-po. Sostiene le iniziative del partner, pur stabi-lendo alcune condizioni. In questo tipo di rela-zione il beneficiario dell’aiuto può costruire la propria autonomia e sviluppare le sue capacità».

Frutteti inaccessibili

L’Assemblea regionale di Sikasso ha negoziato un partenariato con la DSC.A questa comunità man-cano i mezzi e l’esperienza necessari ad assume-re i compiti che gli sono stati attribuiti con il de-centramento, in particolare lo sviluppo del po-tenziale economico locale. La DSC ha portato gli

In Mali il decentramento è una realtà dal 1999. La Svizzera

so-stiene questo processo che offre reali prospettive di sviluppo

al paese. Pertanto, la Svizzera ha creato molti partenariati

de-stinati a consolidare le capacità umane ed istituzionali a

livel-lo regionale. Alcuni dei suoi partner iniziano pian piano a fare

sentire la propria voce. Di Jane-Lise Schneeberger.

Un partenariato per favorire la

Suddivisione territoriale

Il Mali ha conservato a lungo l’amministrazione centralizzata ereditata dal-l’era coloniale. Nel 1991, alla capitolazione del ditta-tore Moussa Traoré, il paese contava solamente 19 comuni, tutti urbani. Lo stesso anno fu avviata una vasta riforma dello Stato. Nel 1993 venne votata una legge sul decentramento, intesa a fissare la demo-cratizzazione a livello locale e a vivacizzare l’economia. Essa definisce tre livelli di collettività territoriali: il co-mune, la circoscrizione e la regione. Il decentramento è divenuto effettivo dopo le municipali del 1999, con l’avvio delle attività di 703 consigli comunali, 49 con-sigli di circoscrizione e otto assemblee regionali. Gli enti territoriali mancano tuttavia di risorse umane e materiali per assumere tutti i loro compiti. Se il trasferi-mento di competenze è ben progredito, quello delle ri-sorse si fa invece attendere.

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Giacomo Pir

ozzi / Panos / Strates

David Reed / Panos / Strates Ron Giling / Still Pictur

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eletti al Pays-d’Enhaut, in Alta Savoia, per mostrare loro ciò che possono fare istanze decentrate in materia di promozione economica. Dopo questo viaggio, l’assemblea si è fissata una priorità: svi-luppare nove settori di produzione agricola, fra cui quella del mango.

La regione di Sikasso produce manghi in abbon-danza, ma molta frutta marcisce sul posto, tra l’al-tro perché i frutteti non sono accessibili agli

au-derazione. Il partenariato tra le due istituzioni, considerato esemplare, ha indotto la FNAM a ri-organizzarsi. Un processo di riflessione interna ha mostrato che per migliorare la sorte degli arti-giani, il sindacato doveva in particolare riforma-re le modalità di gestione e di amministrazione e consolidare le strutture decentrate. «La FNAM sta organizzando un sistema contabile trasparente, requisito indispensabile per ricevere un

contri-Cooperazione quasi trentennale

Il Mali è un paese priorita-rio della DSC sin dal lon-tano 1977. La Svizzera allinea le sue azioni alle priorità fissate dal governo maliano nel Quadro strate-gico di lotta alla povertà (CSLP) e a due programmi settoriali decennali. Inoltre, contribuisce a dinamizzare le economie locali. In que-st’ambito gli aiuti concer-nono principalmente l’agri-coltura, fonte di sostenta-mento per oltre il 70 per cento della popolazione, e il settore in gran parte informale dell’artigianato, in particolare la formazione professionale. Altri pro-grammi si occupano di sanità e istruzione. L’aiuto svizzero si concentra sulla regione amministrativa di Sikasso, nel sud del paese. Contrariamente alle zone sahariane del nord, questa regione beneficia di un clima umido ed offre forti potenzialità agricole. Oltre il 65 per cento della popolazione è però po-vera, una proporzione su-periore alla media nazionale.

tocarri. Uno studio ha dimostrato che occorrerà costruire 1’700 chilometri di tracciati per rom-pere l’isolamento delle zone di produzione. La metà dei costi sarà sostenuta dagli enti territoria-li, il 20 per cento dalla DSC, il cui contributo con-fluirà nel budget dell’Assemblea regionale. Paral-lelamente si cerca di strutturare il mercato e tro-vare sbocchi. L’Assemblea dovrà inoltre chiedere al governo di intervenire contro l’estorsione di tasse non ufficiali presso posti di blocco stradali, un sistema che aumenta il costo dei trasporti.

Il sindacato degli artigiani si riforma

Altri partner provengono dalla società civile. È il caso della Federazione nazionale degli artigiani del Mali (FNAM), che riunisce 93 categorie pro-fessionali, dalle sarte ai maniscalchi. Fino a poco tempo fa, la DSC ha fornito un aiuto classico, fi-nanziando singoli progetti. Oggi, invece, si ap-presta a finanziare direttamente il budget della

fe-buto al bilancio», afferma Pierre Gautier, consu-lente incaricato di gestire questo processo parte-cipativo. L’aiuto svizzero sarà versato all’ufficio centrale e verrà poi suddiviso fra i coordinamen-ti regionali.

Contrariamente ad altri donatori la Svizzera, quando sostiene il bilancio di qualche partner «de-centrato», non lo fa in collaborazione con il go-verno centrale. «In un paese come il Mali occor-re equilibraoccor-re gli aiuti di bilancio tra la capitale e le comunità decentrate, per assicurarsi che una parte vada ai più poveri», spiega Jean-Luc Vir-chaux. La DSC partecipa, infatti, attivamente al dialogo politico tra i finanziatori ed il governo maliano sulla realizzazione delle strategie nazio-nali di lotta alla povertà, ma nel contempo si ado-pera affinché questo dialogo possa un giorno es-sere condotto dagli stessi attori maliani e non più dalle agenzie di cooperazione. Virchaux è, per-tanto, convinto: «Quando gli eletti di Tienfala, di Sikasso o i responsabili del FNAM saranno in gra-do di negoziare con lo Stato centrale, lo considere-remo un successo per la cooperazione svizzera». ■

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La Liberia non smetterà mai di stupirci. Dopo avere

attraver-sato una delle guerre più sanguinarie d’Africa, fornisce due

no-vità molto diverse tra loro: l’ex-presidente Charles Taylor è

sta-to deferista-to dinanzi al Tribunale speciale per la Sierra Leone;

sul-l’altro versante, quello della speranza, i liberiani hanno portato

alla presidenza una donna, Ellen Johnson-Sirleaf. Di Colette

Braeckmann*.

Per comprendere la Liberia e le sue violenze oc-corre ricordare le origini di questo paese atipico. Le radici del male risalgono al XIX secolo, quan-do degli schiavi americani liberati deciquan-dono di ri-conquistare ciò che considerano come la terra dei loro antenati. Sono neri, brandiscono la Bibbia, ma nella loro testa l’America è onnipresente.

Bat-tezzano la loro capitale Monrovia in ricordo del presidente americano James Monroe e si ispirano alla Costituzione americana. Nonostante i loro guanti bianchi e i cappelli a cilindro, i pionieri di-sprezzano profondamente le popolazioni autoc-tone. Le riducono al lavoro forzato, le privano del diritto di voto fino al 1945 e bandiscono i loro

La «terra della

libertà» emerge

dall’inferno

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Holland. Hoogte / laif Holland. Hoogte / laif

stesso Samuel Doe, dopo avere regnato con il ter-rore e la corruzione, è catturato ed atrocemente torturato da Prince Johnson, un tenente genera-le di Chargenera-les Taylor, e il paese verrà messo a ferro e fuoco.

Charles Taylor rappresenta la sintesi di tutte le contraddizioni. Nato da padre libero-americano e da madre autoctona, studia a Boston ed assume la carica di ministro dell’economia nel governo di Samuel Doe. Successivamente fonda il

Natio-nal Patriotic Front of Liberia (NPFL). Questo

mo-vimento ribelle è impregnato di idee panafrica-niste e marxiste, ma i suoi combattenti sono bam-bini-soldato drogati che imbracciano armi auto-matiche e indossano parrucche e camicette da donna.

Il boomerang della violenza

Nonostante l’interposizione di una forza africa-na regioafrica-nale di quattromila uomini,Taylor riesce a conquistare il potere. Nel 1997 si fa eleggere alla presidenza con il 75 per cento dei voti. La vio-lenza non è il suo solo asso nella manica: di fron-te agli afroamericani pro Stati Uniti si affida ad una bizzarra rete francofona, che comprende il presidente ivoriano Félix Houphouët-Boigny, il presidente del Burkina Faso Blaise Com- paoré e il colonnello libico Muammar Gheddafi, che vuo-le estendere la sua influenza a tutta l’Africa occi-dentale.

bambini dalle scuole. Recentemente l’arcivesco-vo di Monrovia Michaël Francis ha affermato che «questo complesso di superiorità e la violenza nei confronti degli indigeni, trattati come cittadini di seconda classe, sono all’origine dei mali della Li-beria. Questo sistema genererà una sommossa di una violenza estrema».

Bambini drogati, armati e camuffati

Nonostante l’oppressione delle popolazioni indi-gene, il paese tiene le fila nella divisione interna-zionale del lavoro: dopo avere impiegato ed espor-tato decine di migliaia di schiavi, chiamati «lavo-ratori sotto contratto», si trova un’altra vocazione fin dal 1918. Con i progressi dell’industria auto-mobilistica, il caucciù diventa una materia prima strategica. La società americana Firestone gestisce, come uno Stato nello Stato, immense piantagio-ni di alberi di caucciù. Successivamente, la Libe-ria renderà apprezzabili favori agli Stati Uniti: un centro di ascolto di sommergibili viene installato sul suo territorio, e la CIA vi organizza un suo quartier generale.

Nel 1980 il sergente maggiore d’origine indige-na Samuel Doe prende il potere nel corso di un colpo di Stato. Il Presidente William Tolbert viene assassinato e tredici suoi ministri sono fucilati. La marina di guerra americana, che incrocia di fron-te a Monrovia, non muove un dito. E non infron-ter- inter-verrà nemmeno dieci anni più tardi quando lo

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Ron Giling / Still Pictur

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L’oggetto della vita quotidiana

La daba

Una volta ritrovata la pace, i contadini liberiani hanno potuto ricominciare a colti-vare i campi. La daba, una zappa tradizionale, è il loro principale strumento di la-voro. È anche utilizzata in altri paesi africani occiden-tali, dove la maggior parte dei lavori agricoli è effet-tuata a mano. Artigiani lo-cali fabbricano quest’at-trezzo rudimentale fissando un raschiatoio di ferro piatto ad un’impugnatura di le-gno. Gli agricoltori se ne servono per arare, ra-schiare, tracciare solchi e diserbare. Esistono vari tipi di daba. La più diffusa è munita di un corto manico. Utilizzabile con una sola mano, questo attrezzo ha il vantaggio di lasciare l’altra mano libera per strappare le erbacce o seminare. In compenso costringe chi la utilizza a lavorare ricurvo o accovacciato, posizioni ol-tremodo scomode. La daba a manico lungo permette di mantenere la schiena di-ritta. Alcune culture locali considerano tuttavia il suo utilizzo come un segno di pigrizia.

del Golfo di Guinea. In dieci anni la maggior par-te del legno delle forespar-te liberiane è stato espor-tato in maniera fraudolenta. L’olandese Guus Kouwenhoven, proprietario delle due principali società forestali della Liberia (42 per cento della superficie sfruttabile), ne fu il maggior profittato-re.A giugno di quest’anno è stato condannato da un tribunale dell’Aja a otto anni di prigione. In cambio di concessioni per l'esportazione di legni pregiati «Mister Gus» forniva armi alle milizie di Charles Taylor.

Una posta in gioco per l’intera regione

Dopo gli anni di terrore, la calma delle elezioni del 2005 assomiglia ad uno stato di grazia. Dal-l’investitura del gennaio scorso, la nuova presi-denza difende il buongoverno e tenta di riformare il sistema giudiziario. Prevede di creare un nuo-vo esercito nazionale formato da un massimo di duemila uomini, nella speranza che i 15 mila ca-schi blu della Missione delle Nazioni Unite in Li-beria possano prolungare la loro presenza e con-solidare la pace. Ellen Johnson tenta altresì di convincere le migliaia di liberiani della diaspora a rimpatriare.

La stabilizzazione e lo sviluppo della Liberia rap-presentano una sfida cruciale per l’intera regio-ne. Nella Sierra Leone la pace, sempre fragile, po-trebbe trarne beneficio. In Guinea e Costa d’A-vorio diminuiranno le probabilità di un conflitto armato. Questa pacificazione regionale priverà d’occupazione le migliaia di combattenti prodot-ti dalla Liberia, bambini soldato divenuprodot-ti adulprodot-ti che saranno obbligati ad accettare i programmi di riconversione, giacché il loro «know-how» omi-cida non sarà più richiesto da nessuno. ■

(Tradotto dal francese)

* Colette Braeckmann è giornalista presso il

quotidia-no belga «Le Soir» e collaboratrice di «Monde diplo-matique». Ha scritto diversi libri sull’Africa.

Charles Taylor ed i suoi alleati esportano la vio-lenza. Foday Sankoh, uno dei suoi tenenti, crea in Sierra Leone il Fronte rivoluzionario unito (RUF), con soldati drogati e camuffati che si «specializ-zano» nelle mutilazioni. La vicina Guinea, a sua volta minacciata dalle orde armate di machete, si appella alla protezione degli Stati Uniti. Taylor contribuisce anche a destabilizzare la Costa d’Av-orio, d’intesa con Blaise Compaoré, che sostiene i ribelli ostili al presidente ivoriano Laurent Gbagbo.

Charles Taylor pagherà infine il prezzo di questa sorda rivalità franco-americana, allorché il movi-mento per la democrazia in Liberia (Model), in-coraggiato da Laurent Gbagbo, ed in seguito il movimento Liberiani uniti per la riconciliazione e la democrazia (Lurd), sostenuto dalla Guinea, si lanciano all’attacco di Monrovia. Il boomerang della guerra, così a lungo lanciato al di là delle frontiere, finisce per tornare in Liberia. Nell’ago-sto del 2003 il dittatore liberiano è costretto ad abbandonare il potere e si rifugia in Nigeria. Nel marzo del 2006 Lagos acconsente al suo arresto e al trasferimento a Freetown, capitale della Sierra Leone, dove deve rispondere di crimini di guer-ra e di crimini contro l’umanità. Per Ellen John-son-Sirleaf la detenzione rappresenta un ovvio sollievo. Se fosse giudicato in Liberia, l’ex presi-dente avrebbe infatti la possibilità di rilanciare le reti economiche e mafiose che l’hanno sostenuto per 14 anni.

Uno Stato criminale

La violenza è costata la vita a circa 200 mila per-sone, ha causato l’esodo di 800 mila civili verso i paesi limitrofi e provocato il crollo totale dello Stato. Ha anche spezzato diverse generazioni di bambini, immersi in tutti gli eccessi (droga, stu-pri, mutilazioni, crudeltà sistematica). Il tasso di analfabetismo ha sfiorato il 70 per cento. Questa violenza è anche legata ad immensi traf-fici di oro, diamanti e legno.Taylor aveva trasfor-mato la Liberia in uno Stato criminale, privo di amministrazione e servizi pubblici, attraverso il quale transitavano i diamanti della Sierra Leone e sul quale pesavano le speculazioni sul petrolio

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(bf ) Dopo la visita in Svizzera della presidente li-beriana Ellen Johnson-Sirleaf nel marzo del 2006, la DSC ha aumentato il suo impegno in Liberia. Oltre al previsto credito di 4,9 milioni di franchi, stanziati nel quadro della cooperazione 2006 con partner come ONU, CICR ed organizzazioni non governative, si aggiungeranno 3 milioni di franchi per programmi bilaterali nei settori della sanità,del-le infrastrutture stradali, dell’istruzione e del buon-governo. Questi programmi sono in fase di pro-gettazione. Durante la guerra (1989-2003) l’Aiu-to umanitario della DSC ha prestal’Aiu-to aiuti d’emergenza, e dal 2004 aiuti alla transizione, con un impegno particolare nei seguenti ambiti:

Rimpatrio e reintegrazione:profughi e rifu-giati sono aiutati a rimpatriare. Parallelamente ven-gono create condizioni atte a favorire una reinte-grazione sostenibile (accesso ad acqua potabile e servizi sanitari), i bambini soldato sono reintegra-ti nella vita civile e i giovani aiutareintegra-ti a superare il trauma della guerra. Inoltre si punta sulla preven-zione dell’aids e l’aiuto alle vittime di questa ma-lattia.

Sicurezza alimentare:la popolazione è sostenuta

con attività atte a garantirle il sostentamento e ad assicurarle un reddito (produzione agricola, risa-namento della rete viaria).

Consolidamento della pace e riconciliazio-ne nazionale:contributi al programma di disar-mo degli ex combattenti e a progetti in ambito dei mass media (Talking Drums, Star Radio).

Aspetti regionali:sostegno ai paesi limitrofi qua-le contributo alla stabilità della Liberia. Progetti re-gionali di promozione della pace. Disponibilità ad interventi urgenti in caso di crisi in un paese limi-trofo. Contributi ai progetti del Programma ali-mentare mondiale (PAM), del Comitato interna-zionale della Croce Rossa (CICR), dell’Alto com-missariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (ACNUR), dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) e ad ONG svizzere ed internazionali come Action Contre la Faim, Fondation Hirondelle, Esercito della salvezza, Medici senza frontiere Svizzera, Search for Common Ground,Tear Fund Switzer-land,World Vision Switzerland, ma anche alla So-cietà della Croce Rossa liberiana e a piccole ONG locali. Cifre e fatti Superficie 111’370 km2 Popolazione 3,04 milioni di abitanti

Il bilancio della guerra

200 mila morti, 350 mila rifugiati nei paesi limitrofi e 500 mila profughi interni

Composizione etnica

Una trentina di etnie autoc-tone – fra cui i kpellé, i bassa e i kru – rappresen-tano il 95 per cento della popolazione; piccola per-centuale di popolazione libero-americana discen-dente dagli schiavi liberati (2,5 per cento)

Lingue

Inglese (lingua ufficiale), anglo-liberiano e una ventina di lingue indigene

Religioni

Cristianesimo (40 per cento), animisti (40 per cento) e islam (20 per cento)

Principali materie prime

Diamanti, legno, minerali del ferro, caucciù

Particolarità economica

La Liberia è un paradiso fiscale specializzato nella concessione di bandiere ombra. Sulle 1533 navi da trasporto che battono ban-diera liberiana, 1460 appar-tengono ad armatori stranieri.

Cenni storici

1822Su iniziativa di una società filantropica ame-ricana, alcuni schiavi liberati si insediano in suolo africano ed edificano la città di Monrovia.

1847La Liberia diviene il primo Stato indipen-dente dell’Africa nera.

1931La Società delle Nazioni condanna il lavoro forzato imposto agli autoctoni dai libero-americani.

1945In carica dal 1944, il presidente William Tub-man accorda agli autoctoni il diritto di voto.

1980Con un sanguinoso colpo di Stato il capora-le Samuel Doe rovescia il regime del presidente William Tolbert. Inizio della dittatura.

1989Charles Taylor fonda il National Patriotic Front

of Liberia.Dà inizio ad una guerra civile,nonostante

i tentativi di mediazione della Comunità econo-mica degli Stati dell’Africa occidentale (Cedeao), che invia sul posto un gruppo di osservatori mili-tari (Ecomog).

1992Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Uni-te impone alla Liberia un embargo sulle armi. Il Segretario generale dell’ONU nomina un rappre-sentante speciale incaricato di facilitare il dialogo tra la Cedeao e i belligeranti.

1990Prince Johnson,un tenente generale di Char-les Taylor, si dissocia; con un migliaio di dissidenti crea il Fronte indipendente nazionalpatriottico della Liberia e fa assassinare il presidente Doe.

1993Grazie alla Cedeao un accordo di pace è sot-toscritto nel Benin. Il Consiglio di sicurezza costi-tuisce la Missione di osservazione delle Nazioni Unite per la Liberia (Monul).

1997Charles Taylor riesce a farsi eleggere con il 75 per cento dei voti, ma la riconciliazione nazio-nale fallisce e la guerra civile si riaccende in tutta la sua violenza, che si estende anche ai paesi limi-trofi.

2003Il Tribunale speciale per la Sierra Leone spic-ca un mandato di spic-cattura contro Charles Taylor. Sotto la pressione internazionale quest’ultimo si di-mette rifugiandosi in Nigeria. Il 18 agosto le par-ti in conflitto sottoscrivono un accordo di pace glo-bale. La Missione delle Nazioni Unite per la Libe-ria (Minul) si dispiega a inizio ottobre. I 3500 soldati che avevano partecipato all’Ecomog passa-no sotto l’autorità delle Nazioni Unite.

2005Ellen Johnson-Sirleaf vince le elezioni pre-sidenziali. È la prima donna eletta a capo di uno Stato africano.

2006A fine marzo Charles Taylor è arrestato in Ni-geria, quindi trasferito in Sierra Leone per essere processato dal Tribunale internazionale.

Atlantico Costa d’Avorio Sierra Leone Burkina Faso Mali Monrovia Guinea Liberia

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Ron Giling / Still Pictur

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Vivian Gartayn, 22 anni, è

reporter e redattrice presso la Star Radio Liberia (www.starradio.org.lr), inoltre frequenta il secondo anno di sociologia e comu-nicazione di massa presso la University of Liberia.

Desiderio di pace

Una voce dalla Liberia

I liberiani della mia generazione, tra i venti e tren-ta anni, sono cresciuti in una nazione in cui la vio-lenza sembrava l’unico modo di risolvere i pro-blemi. A partire dall’inizio della guerra civile, nel 1989, fino ad oggi, questa tendenza è rimasta. Du-rante la guerra civile, che è continuata per più di quattordici anni, i ragazzi ed i giovani erano abi-tuati ad eseguire i perversi piani dei politici. Era-no abituati a prendersi ciò che volevaEra-no con il po-tere delle armi e la violenza. Questi ragazzi e que-sti giovani hanno ora la mia età. Sebbene la guerra sia finita, permane in loro l’attitudine di ottene-re con la violenza ciò che vogliono, come si fa-ceva durante la guerra. Ed è per questo che ora l’esercizio dei nostri diritti costituzionali, attraverso la protesta, appare preferibile all’uso del dialogo. In quasi ogni contea della Liberia, specialmente a Monrovia, le persone che hanno subito un torto, manifestano regolarmente nelle strade per farsi dare ascolto. Durante le manifestazioni, che ri-spetto a quelle di una volta sono relativamente pa-cifiche, le attività normali si bloccano. Certe vol-te si verificano atti di vandalismo e violenza tan-to da richiedere l’interventan-to della polizia anti-sommossa liberiana e delle truppe di pace del-l’ONU. Specialmente ora, con il governo della prima Presidente donna d’Africa, si registra una serie di dimostrazioni. Ha dato l’avvio alle prote-ste il partito d’opposizione Congress for

Democra-tic Change i cui membri, avvalendosi dei propri

di-ritti costituzionali, sono scesi in strada per

mani-festare contro i risultati dei ballottaggi delle ele-zioni del 2005.

Poi è stata la volta delle vedove dei soldati delle Forze armate liberiane scese in strada impugnan-do utensili da cucina per richiedere le indennità per i loro mariti defunti. La loro azione è stata se-guita da diverse manifestazioni da parte degli stes-si soldati delle Forze armate per richiedere il pa-gamento dell’indennità di licenziamento e dei sa-lari arretrati. Queste ultime dimostrazioni sono state molto violente, tanto che le truppe di pace dell’ONU sono dovute intervenire sparando dei colpi sulla folla.

Poi, durante il periodo di transizione, è stata la vol-ta degli impiegati svol-tavol-tali che per rivendicare il pa-gamento di salari arretrati hanno indetto uno sciopero selvaggio che è durato più di una setti-mana, portando le normali attività ministeriali ed istituzionali del governo ad uno stallo totale. Nel-l’aprile di quest’anno gli impiegati statali aveva-no in programma un altro sciopero che avrebbe dovuto iniziare subito dopo la protesta delle For-ze armate, ma vista la violenza verificatasi negli scontri, la Presidente ha vietato qualsiasi dimo-strazione.

Sorprendentemente, appena dopo le azioni di protesta, la Presidente o altre autorità, si sono ri-volti ai dimostranti dando loro del denaro ed or-ganizzando degli incontri per discutere delle loro rivendicazioni. Non è stato invece così nel caso delle proteste delle Forze armate. Infatti, la Presi-dente è stata inflessibile e ha annunciato un’in-chiesta penale contro i capi della rivolta. Il Mini-stero della Difesa ha inoltre richiesto una forma-le forma-lettera di scuse da parte dei militari, senza la quale non riceveranno i loro salari.

Penso che se questo modo di attirare l’attenzio-ne e di risolvere i problemi dovesse continuare, le generazioni a venire non saranno in grado di cambiare molto. Credo inoltre che ora che abbia-mo un governo eletto dal popolo che lotta per ri-solvere i problemi provocati dalla devastazione e dai traumi della guerra civile, dovremmo adotta-re un modo più pacifico per risolveadotta-re i problemi. Solo così i ricordi della guerra e della distruzio-ne che essa ha causato verranno cancellati dalle nostre menti. ■

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ina Steinauer

Nel luglio del 2006 si è svolto per la prima volta a Rabat, in Marocco, un dialogo a livello ministeriale fra l’Africa e l’Europa sul tema «Migrazione e svi-luppo». Lo spunto era stato dato dai tragici destini dei migranti intenzionati a immigrare illegalmen-te in Europa passando appunto dal Marocco. A estendere l’invito con lo scopo di discutere a livel-lo politico le interrelazioni fra migrazione e svi-luppo erano i governi di Spagna e Marocco, cui si erano aggiunti quelli di Francia e Senegal. Tutti hanno ben presto concordato sul fatto che la migrazione legale deve essere regolarizzata e svol-gersi secondo un iter ordinato. I paesi europei han-no ricohan-nosciuto la dimensione demografica del loro proprio sviluppo e considerano la migrazio-ne come migrazio-necessaria e positiva. I ministri africani, dal canto loro, hanno ribadito di non voler veder partire la loro manodopera migliore, ma che per questo necessitano in generale di un maggiore svi-luppo e di persone con una buona formazione. La conclusione è così apparsa ovvia: sviluppo e cooperazione allo sviluppo devono servire a mi-gliorare in Africa lo sviluppo economico e socia-le, nonché l’educazione. La migrazione legale deve trovare una soluzione partenariale nell’ambito di accordi bilaterali o multi-bilaterali.

L’unità di vedute è invece mancata riguardo alla mi-grazione clandestina. Si è comunque concordato sul fatto che essa non rappresenta affatto una pro-spettiva nell’ottica di un buono sviluppo e che oc-corre anche combattere le reti di passatori e i traf-fici criminali. Da parte sua, l’Europa ha offerto ai governi africani di aiutarli a potenziare le loro ca-pacità in vista di una migliore gestione del feno-meno migratorio e di migliori controlli. È inoltre apparso chiaro che i paesi industriali devono in-traprendere degli sforzi al loro interno contro i clandestini che cercano lavoro in nero. Qualcuno ha persino avanzato la tesi che il mercato

funzio-na! Sottintendendo che i paesi che hanno la fama di non offrire lavoro ai migranti sono meno col-piti dai flussi migratori illegali organizzati. Un argomento affrontato senza la debita attenzio-ne è stato quello della attenzio-necessità di tutelare i mi-granti, che siano essi legali o che si tratti di clan-destini. Anche nella dichiarazione politica questo punto non ha ricevuto il dovuto risalto. Il piano d’azione, per contro, rappresenta una base per una migliore comprensione reciproca e una collabora-zione più intensa.

Importantissime sono tre conclusioni di principio: 1° L’Africa necessita di un maggiore sviluppo e, ol-tre a maggiori sforzi autonomi, necessita pure di maggiori risorse finanziarie se deve poter affron-tare a titolo «preventivo» la migrazione clandestina. 2° Nessun paese è in grado di risolvere in modo unilaterale la problematica migratoria.

3° È necessaria una collaborazione intensa e con-tinuata fra i paesi di origine, di transito e di desti-nazione dei migranti.

La Commissione UE ha proposto un dialogo an-nuale a livello ministeriale fra l’Africa e l’Europa. Infatti, la tematica migratoria riuscirà a mantene-re un’elevata priorità politica solo se ai dibattiti e alle soluzioni sarà concesso sufficiente spazio. La Svizzera, in quanto parte integrante dell’Euro-pa e dell’Euro-partner dell’Africa, è invitata a contribuire a questo dialogo. La conferenza ha mostrato che, con i nostri approcci e il nostro orientamento rivolto alla collaborazione e al dialogo, stiamo andando nella giusta direzione. ■

Walter Fust Direttore della DSC (Tradotto dal tedesco)

La migrazione richiede il dialogo

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Nicolas Boll (4)

Qualche decennio fa, i terreni coltivabili dell’Asia Centrale erano considerati tra i più fertili al mon-do, ma lo sfruttamento messo in atto durante gli ultimi trent’anni ha degradato enormemente le loro condizioni. I kolchoz coltivavano il cotone estensivamente, utilizzando grosse quantità di fer-tilizzanti inorganici, pesticidi e defolianti. Questa tradizione è continuata anche dopo la caduta del-l’Unione Sovietica. «Tutto ciò non danneggia solo il suolo, bensì anche la salute della gente ed è sta-ta una delle cause del disastro ecologico del Lago Aral in Uzbekistan. A questo proposito, l’agricol-tura organica potrebbe aiutare a debellare la mi-naccia che pericolosissime sostanze chimiche por-tano all’ambiente ed al benessere dei cittadini», af-ferma Ilja Domashov, un ecologo kirghiso. L’agricoltura organica promuove una gestione so-stenibile delle risorse naturali e non permette ai coltivatori l’utilizzo di sostanze chimiche e di or-ganismi geneticamente modificati. L’alternativa of-ferta dall’agricoltura organica comporta ovvi be-nefici per la salute e per l’ambiente, e può anche

aiutare i coltivatori ad aumentare i loro introiti: il cotone «pulito» costa,infatti,in media il 20 per cen-to in più rispetcen-to al cocen-tone tradizionale. Altri be-nefici per chi aderisce al progetto, includono l’ac-cesso a semenza di alta qualità, la partecipazione gratuita ai corsi per agricoltori e l’indipendenza da mediatori che sfruttano la convenzionale catena commerciale.

Questa iniziativa fa parte del progetto «BioCotton», implementato da Helvetas, e finanziato dal Segre-tariato di Stato dell’Economia (Seco) insieme all’i-stituto olandese per la cooperazione allo sviluppo HIVOS. Nicolas Boll, responsabile del progetto, crede che il Kirghizistan possieda un enorme po-tenziale per l’agricoltura organica: «Questa regio-ne è dotata di un clima ideale per la coltivazioregio-ne del cotone. Le condizioni naturali sono favorevo-li e l’agricoltura organica può veramente decollare».

I pionieri dell’agricoltura organica

I contadini che optano per un’agricoltura organi-ca notano spesso che gli effetti non sono

imme-Cotone organico come

Da tre anni l’agricoltura organica viene testata nel sud di

Jala-labad, provincia del Kirghizistan, nella quale il cotone viene

tra-dizionalmente prodotto in grandi quantità. Il progetto

«BioCot-ton», finanziato dalla Svizzera, promuove questo metodo di

col-tivazione privo di prodotti chimici, con l’intento di migliorare la

situazione ecologica nella regione e fornire nuove opportunità

economiche alla gente del posto. Di Aida Aidakyeva*.

250 mila fattorie private

Dato il quasi totale declino della produzione industriale del Kirghizistan, l’agricoltura è divenuto uno dei settori economici più forti (37 per cento del PIL, 2004). La riforma agraria ha portato alla privatizzazione della terra ed alla sua distribu-zione tra la popoladistribu-zione rurale. Sono sorte quasi 250 mila fattorie private. Malgrado ciò, gran parte degli abitanti dei villaggi an-cora non sa come sfruttare questa risorsa in maniera sostenibile ed efficace, igno-rando inoltre i principi di base dell’economia di mer-cato. Il progetto «BioCotton» collabora con un ente di consulenza agraria finan-ziato dalla DSC e fornisce alla gente locale un’istru-zione di base dell’agricol-tura per soddisfare gli aspetti più importanti della produzione agricola. Gli agricoltori ricevono consigli tecnici, partecipano a le-zioni pratiche ed imparano come si avvia una fattoria organica, riabilitando la fer-tilità di un terreno, introdu-cendo un’economia di rota-zione delle coltivazioni, ed utilizzando fertilizzanti orga-nici. I contadini possono anche condividere le pro-prie esperienze e cercare insieme soluzioni innovative.

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