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Antichi giuristi scrittori e generi letterari

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Academic year: 2021

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Antichi giuristi scrittori e generi letterari

Raffaele Ruggiero

To cite this version:

Raffaele Ruggiero. Antichi giuristi scrittori e generi letterari. Materiali per una Storia della Cultura

Giuridica, Societa Editrice il Mulino SPA, 2019. �hal-02557895�

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ANTICHI GIURISTI SCRITTORI E GENERI LETTERARI

Diritto e letteratura in un ciclo di lezioni al Collège de France

«Nel testamento è scritto Lucius Titius … Gaius Attius … Maevius … Seius … siano i miei eredi.

Si domanda: quid iuris esset?»

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. E il maestro-giurista, nel nostro caso Sesto Cecilio Africano, uno scolaro di Salvio Giuliano attivo sotto Adriano e Antonino Pio, risponde al suo allievo (reale o immaginario che sia), e così facendo costruisce la sua lezione e i suoi nove libri di quaestiones. Sarebbe possibile concepire la scolastica medievale senza questo modello letterario? Un modello, lo si ricorda incidentalmente, che avrà efficacia durevole nella tradizione culturale europea, fino alla pedagogia della Compagnia di Gesù nel XVII secolo (e oltre). E che legami ci sono tra queste procedure espositive e la tradizione dialogica della filosofia morale antica e moderna? E ancora: cosa pensare quando, scorrendo il Digesto, ci imbattiamo in vere e proprie strutture narrative, come la vicenda degna di un romanzo della schiava Arescusa e dei suoi compagni

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? Questi temi sono al centro di un ciclo di lezioni tenuto da Dario Mantovani al Collège de France nell’aprile 2013, e che ora ha dato vita a un volume pubblicato presso Les Belles Lettres

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. Seguendo il filo dell’analisi di Mantovani, intendiamo qui soffermarci su alcuni aspetti dell’influenza della scrittura letteraria, delle sue forme, delle sue strategie comunicative come strumenti propri alla costruzione del pensiero giuridico e al suo sviluppo storico.

E la prima domanda, metodologica, riguarda il fondamento stesso dell’indagine: in che misura è possibile concepire le opere dei giuristi romani, che per di più noi possiamo leggere quasi solo attraverso la frammentazione operata dai compilatori giustinianei, come

“letteratura”? Lo studioso non manca di sottolineare le differenze evidenti tra un’orazione, sia pure giudiziaria, di Cicerone, e un’opera di Ulpiano, e dunque non si mira qui a forzare un’interpretazione letteraria per gli scritti giurisprudenziali o a vedere a tutti i costi un sottofondo giuridico in opere retoriche, storiche, filosofiche. Proprio un acuto paragone tra la Pro Caecina (60-61) e un passaggio del commento ulpianeo Ad edictum (D. 43.16.3.2) permette allo studioso di porre in una differente prospettiva la tradizionale (e assai equivoca) assegnazione della prosa giuridica al genus tenue, un differente approccio che si fonda proprio sull’efficace ripresa della strutturazione retorica come prospettata da Cicerone nell’Orator.

Vale la pena di seguire la vicenda parallela di questi testi: nella sua difesa l’oratore invoca l’interdictum unde vi armata, un rimedio previsto dall’editto pretorio contro lo spossessamento violento e l’espulsione da un immobile perseguiti con l’ausilio di una banda armata. Cicerone si vale evidentemente della riflessione giuridica a lui contemporanea intorno a questo testo normativo, una riflessione che continuerà lungo tre secoli per depositarsi nel commento ulpianeo e quindi, per noi moderni, nel dettato frammentario del Digesto. Sebbene il testo ciceroniano, che pur dovrebbe appartenere al genere umile, sia strutturato con il ricorso a un impianto retorico ponderoso e impegnativo (accumulazione sinonimica, anafora, chiasmi, clausulae ritmiche), mentre il dettato ulpianeo sia nominale, enunciativo, austero e dunque prossimo allo stile normativo, due aspetti sono paralleli ed evidenti. Entrambi i testi mirano a definire cosa si intenda per «uomini armati» (Cicerone: Quid dicemus? «Armatos», si Latine loqui volumus, quos appellare vere possumus?; Ulpiano: «Armis deiectum» quomodo accipimus?) con l’intento di chiarire che sono «armati» coloro che si valgono di qualunque tipo di oggetto contundente, compresi bastoni e pietre. Entrambi i testi, infine, si valgono di un interrogativa retorica: ma laddove quella, o meglio quelle ripetute e insistenti nel dettato

1

D. 28.5.48.2

2

D. 19.1.43, ancora una volta da libri questionum, questa volta di Paolo, fecondo giurista di età severiana.

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D. Mantovani, Les juristes écrivains de la Rome antique. Les œuvres des juristes comme littérature, Paris, Les

Belles Lettres / Collège de France, 2018. Oggi lo studioso è stato chiamato a insegnare stabilmente in

quell’istituzione che fu ‘progettata’ da Guillaume Budé.

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ciceroniano hanno lo scopo di mettere in crisi la pretestuosità di una tesi avversa di cui mostrare le conseguenze aberranti, l’interrogativo ulpianeo è rivolto «a un lettore interno al testo, collocato sullo stesso piano dell’autore. Il giurista non cerca di persuadere, non entra in competizione» (Mantovani, pp. 60-61). Eppure la struttura di quell’interrogativa retorica, probabilmente una traccia ancora attiva ed efficace della struttura dialogica propria ai testi scientifici antichi, è destinata a segnare profondamente la prosa argomentativa europea dal Medioevo alla prima età moderna

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.

E’ la condivisione di un medesimo spazio letterario da parte di generi differenti che permette di sottolineare divergenze e momenti di continuità, e dunque di rispondere in modo problematico alla domanda se sia esistita una letteratura giuridica romana, applicando gli strumenti propri dell’analisi filologico-letteraria anche agli scritti dei giuristi. Mantovani dedica un’attenzione mirata alla definizione di questo spazio letterario: rinunciando ad anacronistiche posizioni derivanti dalle teorie estetiche moderne, e diffidando dell’applicazione univoca di un criterio stilistico, lo studioso riesce a descrivere una dimensione fortemente plurale, uno «spazio graduato» che riconosce senz’altro la centralità del discorso dell’oratore, con la storiografia e la prosa filosofica, ma non rinuncia ad includere altri testi che si valgono dello strumentario retorico tradizionale, cioè di quella che diventerà, nell’Europa di età moderna, la cultura del classicismo. In questo senso la pluralità dei generi letterari della scrittura giuridica diventa una risorsa notevole: regulae, manuali didattici, ma soprattutto commentari, raccolte di responsa prudentium, indicazioni operative per magistrati e funzionari; e ancora le possibili contaminazioni, all’interno della medesima opera, fra tutti questi generi.

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Senza bisogno di scomodare la Rezeptionskritik di Jauss, il viaggio comincia alla ricerca di un pubblico per la letteratura giuridica romana, e comincia quasi naturalmente alla tavola di Trimalcione, dove il grossolano Echione descrive l’educazione del proprio figlioccio e l’opportunità di orientarlo al diritto perché «habet haec res panem»

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. Gli studi giuridici cominceranno con l’acquisto di aliquot libra rubricata: i libri dei giuristi sono dunque genericamente caratterizzati nella prospettiva del rigattiere arricchito per i loro titoli in inchiostro rosso, come sarà consueto dopo l’adozione della forma codex, ma come già mostra un papiro di I secolo d.C. contenente probabilmente due capita di un commento all’editto per la procedura della bonorum venditio

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. L’analisi dello studioso procede ad una minuziosa disamina degli apparati paratestuali del libro giuridico antico, e ciò che qui rileva maggiormente è la riconoscibilità di un ‘genere letterario’, da parte dei lettori contemporanei, sulla base di quei caratteri che il filologo omerico statunitense George Melville Bolling definì globalmente nel 1925 «external evidence». Una mise-en-page, quella del libro giuridico, che con i suoi capita, le rubricae, l’impiego delle sigla, rinvia a riconoscibili modelli, quelli della diffusione pubblica dei testi normativi.

La letteratura giuridica è una letteratura ‘tecnica’, essa pertanto si rivolge in primo luogo ad altri giuristi, ad altri tecnici, e come tutte le scritture scientifiche essa si nutre di un ininterrotto dibattito dottrinario: Mantovani lo dimostra additando un breve testo nei

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Cfr. Mantovani, p. 61 e n. 107 collata S. Föllinger, Dialoghische Elemente in der antike Fachliteratur, in Th. Fögen, a cura di, Antike Fachtexte. Ancient Technical Texts, Berlin, De Gruyter, 2005, pp. 221-34.

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Mantovani, p. 53 che rinvia ad una lungimirante indagine di Jean-Louis Ferrary utile non solo per i profili paratestuali, ma per una più larga analisi delle forme via via praticate dalla letteratura giuridica: J.-L. Ferrary, Le titres des textes juridiques, in J.-C. Fredouille, M.-O. Goulet-Cazé, Ph. Hoffmann, P. Petitmengin, a cura di, Titres et articulations du texte dans les oeuvres antiques, actes du colloque international de Chantilly, 1994, Paris, Institut d’études augustiniennes, 1997, pp. 233-53. Si veda inoltre l’appendice prima del volume, interamente dedicata all’analisi degli aspetti paratestuali, pp. 241-84.

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Petronio, Satyricon, 46.7.

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P. Mich VII 456 + P. Yale inv. 1158r. Cfr. Mantovani, p. 23, n. 17 e passim per la nuova edizione critica del testo a

cura di S. Ammirati ed E. Nicosia nel quadro del progetto ERC «Redhis» diretto dal medesimo studioso.

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Fragmenta Vaticana che conserva un passaggio del commento di Ulpiano a Masurio Sabino

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. Nel prospettare la propria soluzione, Ulpiano rievoca almeno sei giuristi, via via più lontani nel tempo, con posizioni differenti e contrastanti: una catena di auctoritates che risale lungo due secoli fino all’inizio del principato. Significativamente, come accade nelle note a pié di pagina di uno scritto accademico odierno

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, le voci di questo dibattito sono schiacciate sulla contemporaneità del presente, «un presente dilatato che esige uno spazio letterario, che trova cioè nella scrittura non una semplice testimonianza, ma la sua stessa condizione di esistenza:

non esiste al di fuori di essa» (Mantovani, p. 34).

Si aggiunga a quanto detto un aspetto particolare, specifico all’attività del giurista: la letteratura giurisprudenziale non è mero dibattito scientifico, ma essa è creatrice, attraverso la iuris interpretatio, di nuovo diritto. ‘Scrivere diritto’ per il giurista (antico e moderno) non è un’occupazione collaterale e parallela, ma costituisce un contributo essenziale allo sviluppo delle pratiche normative. Questa peculiarità, che distingue la letteratura giuridica da tutte le altre letterature tecniche e scritture scientifico-argomentative, ne segna però in maniera ancor più rilevante il destino letterario.

Una serie di osservazioni concorrono a identificare sempre meglio il possibile pubblico dei lettori di libri giuridici: si tratta di mettere insieme aspetti di storia materiale relativi alla produzione libraria nel mondo antico. La preferenza per la forma codex, più maneggevole rispetto al rotolo (e la presumibile lunga convivenza dei due formati)

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; le notizie attestateci da Ammiano Marcellino (29.1.41) sui roghi librari di Valente ad Antiochia; lo stesso pubblico di studenti (in parte forse autodidatti) come prospettato dal greve personaggio petroniano.

Tutti questi elementi concorrono a individuare l’esistenza di un mercato del libro giuridico antico: la domanda genera l’offerta e così i giuristi si impegneranno in un nuovo genere letterario, non sperimentato fino a quel momento, il manuale. Sarà Gaio, all’epoca degli Antonini, a conoscere uno straordinario e duraturo successo con questa nuova tipologia.

Una semplice assimilazione dello stile dei giuristi alla prosa tecnica, ed in particolare alla manualistica, darebbe però un’idea solo parziale di quello spazio che la scrittura giuridica può ragionevolmente rivendicare nell’ambito della letteratura antica: accanto alla comunicazione referenziale, al docere, sussiste il basso continuo della brevità normativa, spesso articolata in asciutti periodi ipotetici che ricalcano, anche attraverso il ricorso alla verborum vetustas prisca, il dettato normativo, perché dalle origini fino all’epoca della Compilazione la parola del giurista ha sempre un’influenza decisiva nello sviluppo della politica del diritto: «se la legge comanda, la regola dei giuristi dirige: ecco perché i giuristi catturano nel loro dettato l’eco lontana della legge […]. Il loro stile non si confonde con la prosa tecnica: la loro virtù è al tempo stesso il loro limite» (Mantovani, pp. 76-77).

L’analisi prosegue mettendo al paragone diritto e filosofia, e dipanando una nuova analisi intorno al topos del diritto come costruzione intellettuale veracemente romana, opposto, grazie alla sua evidente utilità sociopolitica, alla filosofia greca: un tema, collocato nell’incipit delle Institutiones di Ulpiano (D 1.1.1.2, con echi da Papiniano sottolineati da Mantovani), che sarà ancora modulato da Vico nel De uno, dove il filosofo-giurista napoletano,

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Fr. Vat. 75.3. Come lo studioso sottolinea (Mantovani, p. 31, n. 28), questo è un caso eccezionale in cui il medesimo passaggio è confrontabile con la sua ricezione nella compilazione giustinianea (D. 7.2.1.2). La soluzione giuridica adottata resta la stessa, ma nel Digesto l’intero dibattito dottrinario, che costituisce l’oggetto del frammento Vaticano, è cassato.

9

Cfr. A. Grafton, The footnote: a curious history, London, Faber & Faber, 1997, trad. it. La nota a pié di pagina. Una storia curiosa, Milano, Sylvestre Bonnard, 2000, pp. 16-17: «Come il sibilo acuto del trapano del dentista, il sommesso brontolio della nota al piede della pagina dello storico è in fondo rassicurante […]. Col tempo, però, la stesura di note perde il suo fascino».

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Lo additava già Louis Havet nel 1911 nel suo Manuel de critique verbale appliquée au textes latines (Paris,

Hachette), §§ 55 e 1104a.

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in un confronto non lineare e ancora non compiutamente esplorato con Gianvincenzo Gravina, scrive nel proloquium: «Certa autem juris ars Graecis nulla, sed eius loco Atheniensibus rhetorice fuit»

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. Naturalmente le procedure stesse dell’indagine filosofica nutrono in profondità il metodo del giurista, creando una connessione naturale e antica tra le due discipline, una concordia discors. Chi pensi all’influenza dell’evoluzione della logica sull’argomentazione giuridica troverà una messe di esempi che si radicano nella diffusione e nell’impiego della diairesis stoica. La strada scelta da Mantovani è però un’altra. Lo studioso sceglie di studiare la questione dell’identità e la procedura filosofico-retorica della reductio ad absurdum in un testo celebre tratto dai Digesta di Alfeno Varo (D. 5 .1.76). Console nel 39 a.C., già scolaro di Servio Sulpicio Rufo, ricordato da Orazio e Catullo, prossimo a Virgilio (che gli dedica la sesta ecloga), Alfeno attraversa la crisi della repubblica e la nascita del principato.

Nel testo preso in esame si studia il caso di un giudizio in cui, audita causa, un certo numero di giudici sia stato esonerato e sostituito: quaerebatur an aliud iudicium fecisset. Alfeno risponde che il giudizio resta certamente lo stesso, e tale resterebbe anche se tutti i giudici fossero stati rimpiazzati. Il giurista adduce di seguito una serie di esempi: una legione resta la medesima, anche se i suoi membri cambiano col passare del tempo; il popolo è oggi lo stesso di un secolo fa, anche se nessuno che era vivo un secolo fa lo è ancor oggi; una nave resta la medesima, anche se raddobbata più volte, al punto che neppure una singola tavola lignea è quella della costruzione originaria; l’uomo stesso, nonostante il mutamento continuo delle particelle che lo compongono, resta il medesimo uomo pur col passare del tempo. Quapropter cuius rei species

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eadem consisteret, rem quoque eandem esse existimari. Il riferimento ad un collegio giudicante, piuttosto che al più frequente giudice unico, permette di orientare l’attenzione verso alcuni specifici procedimenti: ma in effetti ciò che emerge con evidenza è il voluto carattere generale che si attribuisce alla questione. «La res e il iudicium restano gli stessi malgrado la sostituzione di uno o più giudici?»

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.

Il testo di Alfeno è di estremo interesse nella sua strutturazione: un caso reale, benché nel dettato del giurista ormai spogliato di ogni elemento connotativo, deve essere stato posto a fondamento del problema (proponebatur…). Sulla base di questa situazione (l’effettivo cambiamento soggettivo di una parte del collegio giudicante), Alfeno pone la questione dell’identità del giudizio. E’ invece la soluzione prospettata, con ricchezza esemplificativa e rigore argomentativo, che mirano ad assurgere ad un piano più generale, a dettare una regola da applicarsi utilmente a differenti problemi pratici. Il giurista si vale a suo modo, cioè secondo una procedura tecnica accettabile e accettata, di una procedura analogica: per discutere il caso di un collegio giudicante parzialmente (o addirittura interamente) sostituito, affronta gli esempi di res differenti (la legione, la nave, il popolo, infine l’uomo stesso), dove il mutamento di elementi costitutivi non comporta il mutamento della cosa in sé. Dunque in primo luogo si ammette che un collegio giudicante afferisce in quanto tale alla categoria dei

11

G. Vico, De universi iuris uno principio et fine uno, in Id., Opere giuridiche, a cura di P. Cristofolini con introduzione di N. Badaloni, Firenze, Sansoni, p. 23 (proloquium). Cfr. R. Ruggiero, Nova scientia tentatur.

Introduzione al Diritto universale di Giambattista Vico, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2010, pp. 1-8 e 44- 47, e F. Lomonaco, I sentieri di Astrea. Studi intorno al Diritto universale di Giambattista Vico, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2018, pp. 33, 51, 83 e passim.

12

All’impiego di species in questa frase conclusivo-riassuntiva di Alfeno, lo studioso dedica un’analisi assai accurata sul piano ermeneutico e semantico. Cfr. Mantovani, pp. 114-25 e l’intera seconda appendice del volume, pp. 285-94.

13

Mantovani, p. 92. Il responso di Alfeno è tra i più celebri e discussi. Ne offriva una sagace traduzione italiana e interpretazione Mario Bretone nella sua Storia del diritto romano, Roma-Bari, Laterza, 1987, 2017

18

, pp. 207- 209: «L’analogia si combina qui con la riduzione all’assurdo e con un richiamo filosofico di intonazione epicurea».

E il medesimo studioso vi tornava in I fondamenti del diritto romano. Le cose e la natura, Roma-Bari, Laterza,

1998, pp. 78-81: «Una nave cessa di esistere, se viene smantellata […]. Ma essa al contrario non scompare, ed è

sempre la medesima nave […], quando per ripararla si sostituisce una tavola a un’altra, o addirittura ogni tavola

con un’altra. Il perdurare della forma, come si vede, è decisivo sino al limite estremo».

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corpora ex distantibus, secondo una ripartizione crisippea

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: ma l’impiego di un tal genere di distinzione non fa di Alfeno un filosofo stoico. Piuttosto occorrerà osservare che nel procedere del giurista sono in gioco, in guisa più generale, i rapporti fra analogia e identità, e che i casi ‘a sostegno’ da lui prescelti (per esempio l’identità del popolo lungo l’asse del tempo, nonostante il mutamento dei singoli individui o la nave continuamente riparata con nuove tavole) sono tra i più discussi nel pensiero antico: il ragionamento manifesta la propria efficacia non negli esempi isolati, ma nel loro articolato e globale succedersi

15

. E questo anche quando gli esempi adottati sono al tempo stesso celebri e di incerta soluzione: il caso della nave (che di per sé non sarebbe un esempio della categoria dei corpora ex distantibus, ma piuttosto dei corpora composita ex cohaerentibus) rinvia chiaramente alla nave di Teseo, conservata dagli Ateniesi come un cimelio e continuamente riparata

16

; la questione del popolo (identico nel tempo nonostante la mortalità dei singoli cittadini) è centrale in Aristotele

17

.

E’ con l’ultimo esempio scelto, quello dell’uomo che resta il medesimo malgrado il continuo mutamento degli atomi che lo compongono, che si manifesta la finezza argomentativa di Alfeno: in primo luogo con questo esempio il giurista tocca la terza tipologia di «cose» (dopo i corpora ex distantibus e i corpora ex cohaerentibus, il caso dell’uomo dovrebbe ricadere tra le cose quae uno spiritu continentur), e soprattutto egli abborda questa volta l’argomento servendosi della reductio ad absurdum: «Che se poi si pensasse che, mutando le parti, anche la cosa diventi un’altra, se ne dovrebbe arguire, seguendo il filo del ragionamento, che anche noi non siamo più gli stessi che eravamo un anno fa, perché, come dicono i filosofi, siamo costituiti di particelle estremamente piccole, e queste, giorno dopo giorni, abbandonano il nostro corpo, mentre altre prendono dall’esterno il loro posto».

Evocare questo ultimo esempio, e soprattutto valersi di un peculiare stile retorico per farlo (l’argomento ‘per assurdo’ è rafforzato da un noi emozionale), dimostrano l’abilità di Alfeno e la sua indipendenza di giurista che prende a prestito dalla filosofia ciò che gli risulta più utile

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. Così come la categorizzazione tra differenti tipi di res/corpora non fa di Alfeno uno stoico, il riferimento ad una costituzione particellare dell’uomo non fa di lui un epicureo, benché una sua possibile adesione alle dottrine materialiste non sia da escludere. Piuttosto è da sottolineare nel passo in esame la ripresa (e la confutazione attraverso la reductio ad absurdum) di un ragionamento che la tradizione faceva risalire ad Epicarmo, l’αὐξόμενος λόγος, cioè la teoria secondo cui, come un numero per sottrazione o addizione diviene un altro numero, così l’uomo che esiste in un certo momento modificato per aggiunta o sottrazione di particelle, non esiste più ed è invece rimpiazzato da un altro differente uomo

14

Su fortuna e sfortuna della «logica crisippea» non sarà vano ricordare la Vita scritta da sé medesimo di Giambattista Vico, allorché il giovane studente, impegnatosi nello studio delle Summulae logicales di Paolo da Udine, ricorda: «l’ingegno, ancor debole da reggere a quella spezie di logica crisippea, poco mancò che non vi si perdesse» (G. Vico, Opere, a cura di A. Battistini, Milano, Mondadori-Merdiani, 1990, p. 7).

15

Mantovani, p. 99. Cfr. Bretone, Storia, p. 209: «La tastiera degli argomenti disponibili era, com’è ovvio, assai più ampia […]. Essi erano discontinui e fungibili. Il loro sincretismo non riposa su una ingenuità scientifica o su una cultura scientifica insufficiente. Quel che conta in definitiva è l’unitario senso pratico-funzionale del discorso giuridico, che gli assicura la sua coerenza interna» (con rinvio a F. Wieacker, Zur Rolle des Arguments in der römischen Jurisprudenz, in Festschrift Kaser, München, Beck, 1976, pp. 23-27).

16

Cfr. Mantovani, p. 100 e nn. 50-51. Plutarco, Thesei Vita, 23. Con riferimento al frammento di Alfeno la questione era dibattuta già da Alciato nei Parerga del 1547. Thomas Hobbes aggravava il dilemma, sottolineando l’aspetto dell’identità: se qualcuno avesse via via ricuperato le assi originarie della nave di Teseo, diligentemente sostituite dagli Ateniesi, ed avesse con quei materiali di risulta costruita una ‘seconda’ nave di Teseo, quale sarebbe la ‘vera’ nave di Teseo?

17

Mantovani, p. 99, n. 49 discute Aristotele, Politica 1276ab, anche con rinvio a Claudia Moatti, Conservare rem publicam. Guerre et droit dans le songe de Scipion, «Les études philosophiques», 99, 2011, pp. 471-88 (la studiosa affronta il problema della «continuità dello stato, del suo permanere al di là dei mutamenti istituzionali o culturali», in Res publica. Histoire romaine de la chose publique, Paris, Fayard, 2018, introduzione).

18

Mantovani, p. 102. Per la traduzione italiana di Alfeno ho ripreso con minimi ritocchi quella di Bretone, Storia,

p. 208.

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che esiste in un istante successivo. Dunque Alfeno può giustamente riferirsi in generale ai

«filosofi» (ut philosophi dicerent), perché l’instabilità del mondo fisico era un presupposto comunemente accettato. L’operazione del giurista è tuttavia più sottile e – come sottolinea Mantovani – egli non sarà stato certo il primo a sottrarre l’uomo dalla categoria a lui propria (quella delle res unitarie) e ad ascriverlo tra le res composite sotto il profilo della sua costituzione particellare: ma è proprio così facendo, legando cioè il presupposto atomistico all’αὐξόμενος λόγος, che Alfeno perviene alla ricercata reductio ad absurdum. La via sembrerebbe essere stata indicata dallo stesso Epicarmo il quale, filosofo e commediografo ad un tempo, si sarebbe valso dell’αὐξόμενος λόγος per creare situazioni comiche. Secondo un anonima glossa al Teeteto conservata da un papiro del II secolo, un uomo che ha partecipato a un banchetto rifiuta di pagare la sua quota negando di essere la medesima persona (a causa delle aggiunte o perdite da lui subite nel frattempo). Colui che a sua volta aveva sollecitato il pagamento lo colpisce e, accusato per questo, si difende sostenendo di essere un altro, e non la medesima persona che aveva inflitto il colpo

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. Come molti passi di commedia il contesto è squisitamente giuridico, nello spirito di Strepsiade, che avviava le Nuvole aristofanee proponendosi di mandare il figlio Fidippide a scuola da Socrate perché apprendesse come non pagare i propri creditori. «Nei libri dei giuristi – conclude Mantovani – noi assistiamo a una trasformazione. Per organizzare la società e il mondo, la giurisprudenza crea un mondo a sé stante, dove i dubbi dei filosofi sono disinnescati e la ragione giuridica sostituisce il proprio ordine prevedibile al flusso irriducibile del reale» (Mantovani, p. 128).

Un’altra questione squisitamente filosofica, quella del rapporto intrattenuto dal diritto con la temporalità, guida l’autore a interrogarsi sulla sensibilità storica del giurista antico: e così torniamo ad Alfeno, ritratto da Aulo Gellio mentre interpreta un passaggio da un trattato fra Roma e Cartagine sulla base di un’analisi storico-semantica

20

; e ancora Gaio, che nelle Institutiones si vale trentuno volte dell’avverbio olim per riferirsi ad una situazione giuridica anteriore (spesso le XII Tavole) rispetto a quella (del suo) presente. Non a caso il rapporto fra il giurista e il tempo figura in primo luogo fuori dalla codificazione giustinianea, dove domina invece l’eterno presente dell’imperatore-legislatore

21

. Evidentemente non tutti i riferimenti al passato sono indicativi di una coscienza storica, ma solo quelli che sono mossi da una consapevole presa di posizione, da una prospettiva attraverso cui passato e presente si differenziano

22

.

Un singolare caso di arte allusiva è illuminato da Mantovani con riferimento a D. 1.2.1:

è la praefatio da un commento di Gaio alle XII Tavole. Il giurista attivo nell’età degli Antonini comincia: «Facturus legum vetustarum interpretationem necessario prius ab urbis initiis repetendum existimavi,…». Gli Ab urbe condita libri di Livio cominciavano con una praefatio che vedeva anch’essa un raro participio futuro incipitario (e per di più del medesimo verbo):

«Facturusne operae pretium sim…». Lo studioso rileva subito come, laddove per Livio si trattava di avviare la sua prosa con il primo emistichio di un esametro, Gaio non si cimenta nell’artigianato poetico, forse anche per l’opzione di una scrittura più sobria, più controllata

19

P. Berol. inv. 9782, col. LXXI, l. 12-40. Cfr. Mantovani, pp. 111-12 e nn. 79 e 82, anche per le indicazioni bibliografiche recenziori.

20

Noctes Atticae 7.5.1-5. Nell’opera di Gellio è celeberrimo il ritrattino di un giurista disinteressato al passato (16.10.8) e incapace di spiegare il significato della parola proletarius: ma appunto evidente è lo scherno per l’incolto ‘pratico’, stante che Gellio si sarebbe atteso che un verace giurista avesse invece gli strumenti per rispondere al dubbio storico-linguistico.

21

Cfr. M. Bretone, Storia, cit., pp. 383-89.

22

Discutendo il possibile accostamento del giurista alle forme proprie della scrittura storiografica, Mantovani dedica anche un’accurata analisi all’impiego che il giurista fa dell’esemplificazione, sottolineando i punti di contatto ma soprattutto le differenze rispetto all’uso degli storici. Il caso in esame è quello del figlio-erede, concepito e non ancora nato, e la possibilità di un parto plurigemino (D. 5.4.3, dal commento di Paolo a Plauzio:

cfr. Mantovani, pp. 165-83).

(8)

(Mantovani, pp. 149-50). Tuttavia il lettore di Gaio non poteva non riconoscere che, accingendosi a discutere delle XII Tavole, l’autore faceva esplicitamente ricorso alla più autorevole delle storie delle origini di Roma, attraverso ammiccamenti linguistici evidenti (initia, origo, vetustas, etc.).

Origine e sviluppo sono ancora concetti chiave per comprendere l’esordio dell’Enchiridion di Pomponio, dedicato a «iuris originem atque processum demonstrare»

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. Ciò che è interessante rilevare, sulla scia delle osservazioni del nostro studioso, è che lo schizzo di Pomponio non è storiografia fine a se stessa, ma ha scopi ben precisi: additare la cesura tra normativa monarchica e rifondazione repubblicana, mostrare il ruolo fondativo della legge e dunque della sovranità popolare, attenuare l’influenza dei modelli greci; quindi procedere per progressiva addizione di nuove fonti del diritto e giungere infine ad una lista di tali fonti, coronata dalle costituzioni imperiali (D. 1.2.2.12). Dunque il racconto storico di Pomponio ha un orizzonte preciso, è orientato quasi pedagogicamente a offrire un quadro sistematico delle fonti del diritto. Meno agevole è individuare l’obiettivo politico di Pomponio:

sottolineare la priorità della legge e il ruolo del popolo potrebbe apparire come l’esito di una velata critica al regime; giustificare la legislazione imperiale, e dunque la riduzione dei legislatori al solo imperatore, per causa dell’enorme accrescimento del dominio romano, sembrerebbe invece sposare una linea di sostegno e consenso.

Avviandoci a concludere questo percorso torniamo nell’ambiente da cui siamo partiti, cioè a scuola: incontreremo qui due generi letterari di cui occorre occuparsi, i libri quaestionum e i manuali. La nascita del manuale di diritto è tardiva, certo successiva alla grande diffusione dei manuali di retorica, indispensabili a chiunque prevedesse una carriera

‘pubblica’ (e necessari dunque anche al futuro giurista). La resistenza della scienza giuridica a depositarsi nella forma scolastica del manuale dipende con evidenza da una tradizione scientifica in cui tre aspetti sono fortemente interconnessi: la riflessione sul caso concreto, lo sviluppo di una disciplina che aspira a tenersi al passo con i mutamenti socio-economici, il ruolo attivo dell’interpretazione giurisprudenziale come fonte di nuovo diritto. Per i moderni, ragionare del manuale di diritto antico implica discutere l’evoluzione stessa della disciplina romanistica nel XIX e XX secolo, perché in effetti la scoperta del palinsesto veronese con le Institutiones di Gaio (scoperta nel 1816 e pubblicazione nel 1820) costituisce una rivoluzione profonda e duratura negli studi, rende manifesta con la forza della materialità che la condizione di frammentarietà, cui il Digesto condanna il diritto antico, è del tutto innaturale.

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Al contrario la figura di Gaio è in larga misura nascosta nell’ombra: tranne la sua collocazione cronologica, tra Adriano a Marco Aurelio, di lui si ignora quasi ogni aspetto biografico. Le ricerche sulla vita dell’autore, spesso interessanti talora fantasiose, hanno nel tempo contribuito a offuscare (o piuttosto a disperdere per moltiplicazione, come suggerisce Mantovani) la personalità dell’autore; e infine l’opera stessa è stata assoggettata ad una forma di critica analitica che ne ha minato la consistenza, contribuendo a dissolvere l’unitarietà del diritto romano in quanto fenomeno storico

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. A rivelare il carattere manualistico di Gaio, cioè a inserire Gaio nella tradizione scolastica del mondo antico, ha contribuito in modo determinante la ricerca di Manfred Fuhrmann Das systematische Lehrbuch. Ein Beitrag zur

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D. 1.2.2: Mantovani chiarisce bene come i due concetti siano da prendere in esame distintamente (p. 151).

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Cfr. Mantovani, pp. 190-95. La lotta per restituire alle opere giuridiche antiche la loro fisionomia culmina nella Palingenesia di Otto Lenel (1889): sull’archeologia dei tentativi palingenetici si veda J.-L. Ferrary, Le Digeste è l’envers. La palingénésie dans les travaux des juristes jusqu’à Lenel, in D. Mantovani – A. Padoa Schioppa, a cura di, Interpretare il Digesto. Storia e metodi, Pavia, Iuss, 2014, pp. 535-56.

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La scoperta nel 1927 di un papiro di Ossirinco (P. Oxy. XVII 2103), risalente al 200 d.C., con un esteso frammento delle Institutiones gaiane, testimonia al tempo stesso la fortuna di quest’opera per l’apprendimento del diritto e la stabilità del testo di Gaio, ossia la sostanziale consistenza unitaria del testo tradito dal palinsesto veronese (confermata anche da un codex del Cairo scoperto nel 1933 e risalente al 500 d.C. = PSI XI 1182). Cfr.

Mantovani, pp. 204-205.

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Geschichte der Wissenschaft in der Antike del 1960

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, il quale dopo aver esaminato i manuali di retorica, il De re rustica di Varrone, il De architectura di Vitruvio, Celso e Frontino, giunge infine all’ultima disciplina cimentatasi con la scrittura manualistica, cioè il diritto; e mostra come anche il manuale giuridico risponda ad un medesimo formato, ad una strutturazione retorica, una tecnica della scrittura che informa la stesura del genere ‘manuale’.

Il palinsesto veronese non ci conserva una praefatio delle Institutiones: Mantovani, sulla scia delle ricerche esperite da Contardo Ferrini alla fine dell’Ottocento, cerca allora la voce proemiale dell’autore nell’avvio delle Institutiones di Giustiniano, cioè laddove la voce di Gaio, delle sue Institutiones come dell’altra opera manualistica, le Res cottidianae, era stata prescelta e imposta come guida dallo stesso imperatore-legislatore. Questa voce proemiale è la voce di un insegnante, attento alla gradualità, a non atterrire i propri allievi con materie troppo complesse, e soprattutto cauto nel non sommergerli con l’oceano delle dispute dottrinarie. In effetti l’intera opera di Gaio ci manifesta un ben definito e strutturato piano pedagogico: la formazione del giurista.

Rimettere il libro giuridico antico nel suo proprio scaffale, ma accanto ad altri libri, che gli si approssimano o che prendono caute distanze, non mira a ricostruire una biblioteca ideale, ma permette di leggere un po’ meglio la ricchezza del classicismo e ci rivela non poco su quelle radici comuni della formazione europea che innervano la varia umanità del mondo moderno.

Raffaele Ruggiero Aix-Marseille Université Centre Aixois d’Études Romanes (CAER) Aix-en-Provence

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Göttingen, Vandenhoeck und Ruprecht, 1960. Cfr. Mantovani, pp. 212-13.

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