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“Un po’ di dettato… Su, i quaderni a posto!...”. Educazione e cultura morale dei bambini nel Buzzati novellista e drammaturgo

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Academic year: 2021

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“Un po’ di dettato… Su, i quaderni a posto!...”.

Educazione e cultura morale dei bambini nel Buzzati novellista e drammaturgo

Cristina Vignali

To cite this version:

Cristina Vignali. “Un po’ di dettato… Su, i quaderni a posto!...”. Educazione e cultura morale dei bam-

bini nel Buzzati novellista e drammaturgo. Italies, Centre aixois d’études romanes, 2017, �10.4000/ital-

ies.5755�. �hal-02441169�

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Italies

Littérature - Civilisation - Société 21 | 2017

Enfances italiennes 1

« Un po’ di dettato… Su, i quaderni a posto!... » Educazione e cultura morale dei bambini nel Buzzati

novellista e drammaturgo

Cristina Vignali-De Poli

Edizione digitale

URL: http://journals.openedition.org/italies/5755 DOI: 10.4000/italies.5755

ISSN: 2108-6540 Editore

Université Aix-Marseille (AMU) Edizione cartacea

Data di pubblicazione: 21 dicembre 2017 Paginazione: 161-182

ISBN: 979-10-320-0142-4 ISSN: 1275-7519

Questo documento vi è offerto da Aix-Marseille Université (AMU)

Notizia bibliografica digitale

Cristina Vignali-De Poli, « « Un po’ di dettato… Su, i quaderni a posto!... » Educazione e cultura morale dei bambini nel Buzzati

novellista e drammaturgo », Italies [Online], 21 | 2017, online dal 19 janvier 2018, consultato il 06 mai 2019. URL : http://journals.openedition.org/italies/5755 ; DOI : 10.4000/italies.5755

Italies - Littérature Civilisation Société est mis à disposition selon les termes de la licence Creative Commons Attribution - Pas d'Utilisation Commerciale - Pas de Modification 4.0 International.

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Educazione e cultura morale dei bambini nel Buzzati novellista e drammaturgo

Cristina Vignali-De Poli

Université Savoie Mont Blanc

Résumé : Dans cette étude nous voulons mettre en lumière et analyser un thème récurrent et peu étudié par la critique sur Buzzati : l’éducation et la culture des enfants. Par éducation on entend aussi bien celle qui est donnée dans les institutions pédagogiques, religieuses ou laïques, que celle qui est transmise dans la vie quotidienne au sein de la famille ou du groupe social d’appartenance. Nous examinons ici un corpus de textes, nouvelles et pièces de théâtre, peu étudié par la critique qui s’est intéressée au thème de l’enfance chez l’auteur. L’étude montre comment l’intérêt pour l’éducation et la culture qui forment l’enfant traverse les genres littéraires pratiqués par Buzzati.

Riassunto : In questo studio si mette in luce e si analizza un tema ricorrente e poco studiato dalla critica buzzatiana: l’educazione e la cultura dei bambini; e per educazione si intende sia quella che viene data nelle istituzioni pedagogiche, religiose o laiche, sia quella che viene trasmessa nella vita quotidiana nell’ambito della famiglia o del gruppo sociale di appar- tenenza. Si prende qui in esame un corpus di testi, novelle e opere teatrali, non sempre approfondito dalla critica attenta al tema dell’infanzia nell’autore. Lo studio mostra come l’interesse per l’educazione e la cultura che plasmano il bambino travalichi i generi letterari praticati da Buzzati.

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Questa nostra indagine mira a proseguire lo studio dell’infanzia in Buzzati – avviato da tempo dalla critica 1 – e, più particolarmente, a completare una nostra rilessione passata sul tema 2.

L’interesse buzzatiano per l’infanzia si traduce nella produzione di testi giornalistici speciici (come la rubrica « I Perché di Dino Buzzati » nel Corriere dei piccoli) e nella ricorrenza del tema nei vari settori dell’opera di Buzzati:

oltre alla favola La famosa invasione degli orsi in Sicilia (pubblicata a puntate sullo stesso giornale nel 1945) vanno elencati il primo romanzo, di carattere iabesco, Il segreto del Bosco Vecchio, un numero consistente di novelle, nonché opere teatrali e perino Poema a fumetti. L’attenzione che Buzzati diede all’in- fanzia si apprezza in una sua lettera di risposta ad una classe di alunni che gli chiedeva quali fatti della sua esistenza avessero maggiormente inluito sul suo pensiero; Buzzati evoca come primi fatti « le esperienze della fanciullezza », prima di aggiungere poche righe dopo: « E poi quanta tenerezza mi fa questo ingenuo orgoglio della giovinezza. Non farete neppure in tempo, anche voi, a voltare l’angolo della strada, che sarete già vecchi cadenti 3 ».

Si ritrova in questa confessione la sensibilità dell’autore per l’infanzia (che si manifesta in particolare nella capacità di esprimere con forte suggestione il dolore dei bambini – si pensi ad esempio, nella raccolta Il colombre, al viso contratto di Doli alla ine di Povero bambino! o alla disperazione abissale di Noretta nella novella Il palloncino). Si ritrova anche una visione schematica dell’esistenza che permea gran parte delle opere buzzatiane che trattano dell’

1 Ci limitiamo qui a indicare i principali studi sull’argomento: Mara Formenti, « L’infanzia nell’universo buzzatiano », Studi buzzatiani. Rivista del Centro Studi Buzzati, n. I, 1996, p. 45-66; Gilbert Bosetti, « Dino Buzzati et l’enfance mythopoïétique », Cahiers Dino Buzzati, n. 6, Paris, Lafont, 1985, p. 165-180; Gilbert Bosetti, « Enfance satanique », Cahiers Dino Buzzati, n. 7, Paris, Lafont, 1988, p. 169-183; Gilbert Bosetti, « L’enfance mythopoïétique de Buzzati », L’enfant-dieu et le poète. Culte et poétiques de l’enfance dans le roman italien du

XXe siècle. Grenoble, ELLUG, 1997, p. 205-218; Rémi Lanzoni, « Il tempo e l’infanzia:

il giardino buzzatiano, specchio del tempo », Narrativa, n. 23, 2002, p. 85-97; Nella Giannetto,

« Il sogno, il gioco, la fantasticheria: lettura de Il borghese stregato », in Il sudario delle caligini.

Signiicati e fortune dell’opera buzzatiana, Firenze, Olschki, 1996, p. 55-73; Alessandra Baldi,

« I perché di Buzzati: una corrispondenza con l’infanzia », Studi buzzatiani. Rivista del Centro Studi Buzzati, n. XI, 2006, p. 13-30; Chiara Lepri, « Infanzia e linguaggi narrativi in Dino Buzzati », Studi sulla formazione, vol. 16, n. 2, 2013, p. 131-147.

2 Cristina Vignali-De Poli, « Le poids de l’enfance dans les récits de Dino Buzzati », Enfance et identité nationale dans la littérature italienne du XVIe au XXe siècle : regards croisés, sous la dir. de Rosaria Iounes-Vona, Metz, Centre de Recherche « Écritures », 2011, p. 121-135.

3 Si tratta della lettera di risposta agli « Alunni della I C » che Buzzati scrive a Milano il 20 dicembre 1968, contenuta nell’Annuario (1980-1982) dell’Istituto Magistrale R. Bonghi di Assisi.

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infanzia, con una dicotomia tra il polo positivo, energico e sognatore, dei bambini e quello negativo, che comprende i vecchi e più generalmente gli adulti disillusi e decadenti. La dicotomia bambino / adulto (ovvero rapporto favoloso col mondo / rapporto realistico e pragmatico) è legata a ragioni esistenziali, per cui proprio la naturale presa di coscienza del carattere menzognero delle favole e la presa di coscienza della morte segna il (triste) passaggio all’età adulta.

Ma questa dicotomia riguarda anche il condizionamento sociale che favorisce drammaticamente tale necessario passaggio.

Vorremmo precisamente analizzare il tema dell’infanzia in Buzzati in relazione all’educazione e alla cultura dominante che plasma il bambino e lo fa, suo malgrado, crescere – proponendo così un approccio, una direzione di studio dell’infanzia ancora non esplorata dalla critica, nonché segnalare un corpus di opere (novelle ma anche opere teatrali) spesso trascurato da questa critica. Analizzeremo infatti il modo pessimistico in cui Buzzati considera diversi aspetti del condizionamento dei bambini: l’educazione e la cultura religiosa da un lato (così pregnanti nell’Italia in cui visse il Nostro); la scuola pubblica dall’altro; inine la cultura dominante trasmessa nei rapporti famigliari o interni ad un gruppo sociale determinato 4.

L’educazione e la cultura religiosa

Il ricorso a personaggi bambini nell’opera di Buzzati serve spesso a mettere in discussione aspetti della società, e in particolare l’ossessione del peccato tipica della cultura cattolica (alla quale peraltro l’autore risponderà con la corag- giosa pubblicazione di Un amore, romanzo a carattere autobiograico incen- trato sull’amore sensuale ed ossessivo per una prostituta da parte di un ardente frequentatore di ragazze squillo).

Il catechismo

Esemplari per il nostro tema sono la novella Le tentazioni di Sant’Antonio, del 1950 e il lungo racconto Il sacrilegio, del 1938 5. La prima novella si prende befa

4 Il saggio di Egle Becchi (Egle Becchi, I bambini nella storia, Roma-Bari, Laterza, 1994), dedicato alla storia delle rappresentazioni del bambino in Occidente mostra come queste rappresentazioni siano frutto dell’osservazione e della restituzione dell’adulto e come esse abbiano subìto un’evoluzione dall’Antichità ad oggi, in linea con l’evolvere della società.

5 Dino Buzzati, Il sacrilegio, in I sette messaggeri, Milano, Mondadori, 1984. Il lungo racconto compare inizialmente a puntate su Omnibus (ott.-nov. 1938) sotto il titolo Lo strano viaggio di Domenico Molo prima di entrare nella raccolta de I sette messaggeri (1942).

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di un povero prete di campagna che insegna il catechismo a bambini turbolenti e disattenti; egli prova a canalizzare la loro vitalità attraverso un ordine rigido:

l’ordine isico dei banchi, schierati come a scuola (« dinanzi a lui stanno piccole teste irrequiete dei ragazzi, a due a due, schierate sopra i banchi 6 ») e soprat- tutto l’ordine morale con una lezione sul peccato, un peccato concepito come disubbidienza alla legge di Dio o persino come ofesa a Dio. Ma mentre il prete cerca di far capire loro cosa sia il peccato originale, ecco che le nuvole che egli vede dalla inestra gli disegnano sempre più nettamente forme o scene tenta- trici, facendo emergere in lui insistenti tentazioni (lussuria, invidia, desiderio di potenza e soprafazione) tanto che il prete crederà di essere vittima di un attacco del Diavolo in persona e invocherà interiormente l’aiuto di Dio ainché lo liberi dal peccato che lo tenta acutamente proprio durante la lezione.

La scena, che occupa l’intera novella, mette scherzosamente in rilievo la contraddizione tra l’ordine morale che la Chiesa vuole impartire e gli impulsi naturali che possono turbare i suoi preti; ma la scena suggerisce anche una sfasatura tra l’insegnamento del peccato e il pubblico di bambini innocenti che sembrano ignari del cosiddetto peccato e mostrano un totale disinteresse per la parola del prete – il pericolo della carne al quale allude sembra una consi- derazione del tutto artiiciosa, lontana dall’innocenza genuina dei bambini.

Ma soprattutto il inale mette in discussione il fondamento su cui poggia il catechismo e la nozione stessa di peccato contro Dio poiché, conclusa in fretta la lezione per l’eccessivo turbamento interiore, il prete osserva con una strana delusione che le nuvole non hanno per niente le forme diaboliche che pensava di vedere, ma sono « nubi indiferenti, dall’espressione idiota, vesciche di vapore ».

Il inale suggerisce il processo di proiezione immaginaria subìto dal prete, con l’indicazione delle previsioni meteorologiche previste per quel giorno e con un commento lapidario ed eloquente: « “Cielo in preval. sereno […] Temper.

stazion”. Circa il Diavolo, neanche una parola 7 ». Il catechismo si presenta allora come insegnamento di concetti insensati, impartito da adulti meno puri dei bambini che si vorrebbero educare reprimendone le pulsioni vitali.

L’ossessione del sacrilegio

Il lungo racconto Il sacrilegio ofre un altro esempio di questa denuncia della cultura del peccato, questa volta in una modalità non più comica ma pateti- co-drammatica. La lunga novella – che occupa, nell’edizione Mondadori del

6 Dino Buzzati, Le tentazioni di Sant’Antonio, in Sessanta racconti, in Opere scelte, Milano, Mondadori, 2002, p. 876.

7 Ibidem, p. 880.

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1984 dei Sette messaggeri, più di cinquanta pagine – è interamente fondata sull’idea del peccato. Domenico, un ragazzino di dodici anni, va a confessarsi il giorno che precede la prima comunione ma sfogliando il suo nuovo libro da messa impara, prima di entrare nel confessionale, che perino la superstizione è peccato; si rende quindi conto di essere stato peccatore senza saperlo. Il povero Domenico comincerà a torturarsi: pieno di vergogna, non avrà il coraggio di confessare il peccato di superstizione al prete; ci ripenserà e chiederà di confes- sarsi di nuovo, ma farà in modo che il prete creda in una dimenticanza da parte sua e non in una volontaria omissione per troppa vergogna. Timoroso di aver peccato gravemente, Domenico cerca sollievo nel messale, ma vi apprende che il suo peccato di omissione per vergogna costituisce « un grave sacrilegio », anzi un « peccato mortale 8 »; e scopre giorni dopo, in un Breve trattato di religione trovato sul capezzale della sua governante, che chi tace un peccato mortale durante la Santa Comunione commette « un orribile sacrilegio rendendosi così meritevole di dannazione 9 ». La presenza dei libri religiosi tende a sottolineare che gli aspri tormenti di Domenico non sono conseguenza di una ossessione personale, ma sono generati da una precisa educazione e cultura religiosa.

Lunghe pagine del racconto sono dedicate alla tortura mentale generata dalla paura del peccato nel bambino, alla vergogna che egli sente e all’impossibilità di poter confessare il peccato, che continua così a pesare sulla coscienza di Domenico. Queste pagine dettagliate si presentano come una denuncia della cultura del peccato e del concetto stesso di « peccato ». La scelta di un prota- gonista giovane permette di mostrare lo snaturamento in atto o perlomeno la perdita della serenità innocente che il bambino aveva all’inizio della novella:

L’indomani, per Domenico, sarebbe stato un grande giorno: la prima Comunione. Oltre alla poetica letizia del rito che lui, così piccolo, solo confusamente avvertiva, ci sarebbero stati molti regali, una piccola festa in casa.

Una giornata di pura felicità, senza pensieri di scuola e di compiti. Anche la confessione, a cui si accingeva, non gli dava, come le prime volte, la tormentosa sensazione di afrontare un diicile esame 10.

Domenico perderà invece, e per sempre, la « serenità d’animo 11 »; si chiederà in particolare se il labirinto mentale nel quale è caduto, fatto di sensi di colpa e panico, non sia, dentro di sé, opera del demonio. Anche il narratore suggerisce che la coscienza stessa del peccato è frutto diabolico quando Domenico ne

8 Dino Buzzati, I sette messaggeri, op. cit., p. 223.

9 Ibidem, p. 230.

10 Ibidem, p. 216.

11 Ibidem, p. 221.

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avverte tutta la potenza torturante, l’indomani mattina al risveglio, il giorno della comunione, dopo una notte di incubi:

Domenico balzò a sedere sul letto, sentiva che una cosa importantissima era cambiata per lui in male. Per qualche istante non riuscì a rintracciarla. Poi la coscienza del sacrilegio gli aiorò nell’animo con potenza maligna, se pur alquanto spogliata degli orrori notturni 12.

La comunione che doveva essere tutta felicità sarà giorno di orrore in cui Domenico impara a ingere la contentezza per accontentare tutti mentre interiormente è divorato dal senso di colpa e dalla vergogna.

Si possono elencare i principali modi con cui Buzzati nel Sacrilegio denuncia la disumanità inerente ad una cultura del peccato vissuta in maniera ossessiva, rigida e spietata.

Egli utilizza anzitutto lo strumento retorico dell’iperbole fantastica, ad esempio quando presenta le conseguenze del senso del peccato su Domenico:

iperboliche sul piano psicologico nonché isico dato che Domenico si ammala la sera stessa della comunione e muore.

L’esagerazione satirica tocca la stessa giustizia divina, spietata verso chi ha compiuto un peccato lieve, come Domenico: si ritrova infatti nella città del giudizio, in un aldilà purgatoriale in cui ogni peccatore attende di essere processato mentre, dalla prima seduta del proprio processo, Domenico pare rischiare l’inferno. Durante la seduta, il bambino deve anche subire lo sguardo di sdegno dell’intera folla che assiste alle procedure penali, folla conformistica, rigidamente attaccata alle regole morali della Chiesa; la sua età non riesce, se non in un primo e breve momento, ad impietosire i presenti.

Buzzati assegna un ruolo positivo ad una giovane e bella donna che incarna per eccellenza il peccato: una prostituta, « dalla faccia dipinta », che non riesce più a togliersi il rossetto sulle labbra come se quel segno di seduzione le fosse entrato nella carne, e che Buzzati (provocatoriamente?) chiama Maria. Maria risulta personaggio positivo per la funzione protettiva che esercita nei confronti del bambino protagonista e per il fatto che viene subito graziata dal tribunale celeste che la manderà in Paradiso.

La cultura ossessiva del peccato emerge inoltre nei personaggi che educano Domenico (orfano di madre), a cominciare dalla governante, la signora Rop, dal nome secco. « [D]onna alta, severa e religiosissima 13 », ella è l’immagine del rigorismo morale e religioso; ossessionata dall’idea della colpa, « sempre con la

12 Ibidem, p. 225-226.

13 Ibidem, p. 216.

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sua espressione di sentinella in agguato », è alla continua ricerca della « minima occasione per fare un rimprovero, di qualsiasi genere 14 ». Il secondo educatore è il buon Pasquale, vecchio servitore della famiglia, uomo credente che adora il bambino tanto da suicidarsi per lui, per cercare di salvare la sua anima e spiegare al tribunale celeste che è stato lui stesso a relativizzare l’importanza del peccato di Domenico e quindi a incitarlo a non chiedere un’altra confes- sione prima della comunione. Pasquale rappresenta l’opposto simmetrico della signora Rop, è generoso, pronto al perdono, ma rappresenta anch’egli la cultura del peccato e della colpa poiché crede fermamente nel tribunale celeste e nella possibile condanna del giovane.

Domenico viene inalmente rimandato in terra, la sua chiamata in cielo sarebbe stata un errore. E seppure il suo viaggio nell’aldilà si collochi tra realtà e sogno, le prove che ha dovuto afrontare lo escludono ormai deinitivamente dal mondo dell’infanzia, schiudendogli le porte del mondo adulto. L’esperienza del peccato e della terribile giustizia divina potrebbe da sola provocare quel passaggio; al suo risveglio nel letto d’ospedale Domenico, che è tornato in vita, non sente nessuno « speciale sollievo 15 », anzi si sente oppresso. Ma il cambia- mento deinitivo del bambino è dovuto anche all’esperienza della morte (la sua e soprattutto quella del servitore Pasquale):

Allora, sebbene fosse un bambino, Domenico intuì vagamente per la prima volta che cosa fosse l’esistenza degli uomini. Diverso ormai in confronto ai compagni, diverso in confronto a se stesso di ieri, già cominciava dunque a conoscere le scadenze terribili della vita. Adesso era partito Pasquale, poi sarebbe stata la signora Rop (e benché fosse una creatura così noiosa sarebbe pur stato un triste giorno) […] Il terrore del sacrilegio era nel ragazzo del tutto scomparso: gli restava invece quell’arido gusto della vita che ricominciava, come presentimento di lunga fatica 16.

La storia del bambino Domenico, nell’illustrare la presa di distanza dalla religione (e dalla rigidità dei suoi precetti morali) che può comportare il divenire adulti 17, lascia emergere la disillusione di chi, superata l’angoscia e le soferenze procurate da un’osservazione troppo scrupolosa dell’educazione

14 Ibidem,. 258.

15 Ibidem.

16 Ibidem, p. 259.

17 Raggiungiamo su questo punto le considerazioni di Edoardo Esposito contenute nell’articolo

« Il sacrilegio » o la presa di distanza dal catechismo, in N. Giannetto (a cura di), Il pianeta Buzzati. Atti del Convegno Internazionale, Feltre e Belluno, 12-15 octobre 1989, Milano, Mondadori, 1992, p. 238.

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catechistica, scopre l’« arido gusto della vita ». Va forse precisata l’analisi efet- tuata da Fausto Gianfranceschi nell’introduzione della raccolta I sette messag- geri per l’edizione Mondadori del 1984. Dopo aver afermato che la novella esprime « un profondo sentimento religioso » dell’autore, Gianfranceschi rileva:

« Per Buzzati il senso di colpa non è un complesso, è un complemento della dignità dell’uomo 18 ». Ci sembra invece che la novella denunci la cultura della colpa. Il nome stesso del protagonista, « Domenico », può sembrare antifras- tico: il giovane protagonista, al contrario del santo omonimo o di quanto il suo semplice nome potrebbe annunciare, non viene spiritualmente rinvigorito dalla sua esperienza celeste ma al contrario avvilito. Il risultato dell’esperienza di Domenico è negativo: alla gioiosa spensieratezza dell’inizio subentra soltanto una cupezza fatta di pensieri luttuosi e la visione della vita terrena come inferno – e tal pensiero nasce in lui al risveglio in ospedale guardando il personaggio che meglio incarna la cultura della colpa, la signora Rop.

La scuola

L’annullamento dell’energia ribelle

Buzzati è sensibile al modo in cui l’educazione può uccidere l’infanzia, come nella novella Il fratello cambiato in cui il narratore racconta che suo fratello minore, mandato in un collegio perché turbolentissimo, viene trasformato in pochi giorni, e per sempre, in un ragazzo e poi in un uomo perfettamente conforme ai canoni della scuola e della società. Il narratore spera « che ritorni lui, il [suo] vero fratello, perduto da quell’ormai remoto lunedì mattina »; ed è tormentato, anche da adulto, da quella trasformazione e spesso si chiede:

« Che cosa gli hanno fatto, in quel collegio maledetto? In che modo lo hanno spento, mutandolo in una larva? Perché non si ribella? Perché non ha il coraggio di parlare 19? ». La perdita della ribollente energia vitale del fratello non è un fatto positivo dato che, quando viene interrogato su quello che ha dovuto subire in collegio, Carlo, pur negando con apparente sincerità di aver subìto qualche maltrattamento, risponde « sempre però con un’ombra di inquietudine nel profondo degli sguardi, come se in quel lontano giorno la vera vita sua fosse stata stroncata ed ora egli fosse costretto a recitare una parte non sua 20 ». Nella celebre intervista contenuta in Un autoritratto, Buzzati evoca per questa novella

18 Dino Buzzati, I sette messaggeri, op. cit., p. 14.

19 Dino Buzzati, Il fratello cambiato, in Il crollo della Baliverna, Milano, Mondadori, 1984, p. 100.

20 Ibidem, p. 99.

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la « trasformazione di un uomo col lavaggio del cervello » e allude ai metodi « comunisti », che deinisce « terroristi 21 », suggerendo in questo modo la simbo- logia aperta del racconto. Ci pare signiicativo che l’idea di un condizionamento ideologico totale venga associato ad un’istituzione scolastica; la novella ci mostra ancora una volta la sensibilità di Buzzati al condizionamento dei bambini.

Ritroviamo qui una igura di bambino fortemente condizionato da un’educa- zione che, come nel caso di Domenico, sembra indottrini e porti al confor- mismo spegnendo la vitalità originaria. Il collegio è strumento della società per annullare ogni velleità di ribellione e conformare gli individui spingendo a comportamenti remissivi. È suggestivo il parallelo con un passo della novella Stupidi bambini in cui i bambini sono detti « stupidi » appunto perché diventano grandi, perdono la loro gloriosa capacità di sognare e si conformano con sogge- zione agli imperativi della società, della scuola e del lavoro:

Ma tutti questi bambini, Dio sa che cosa gli è saltato in mente, nel frattempo sono cresciuti. Grandissima è la stupidità dei bambini, paragonabile solo a quella dei loro genitori. […] Erano graziosi, belli a vedersi ricchi. Perché dunque crescere? […] Erano padroni del mondo […] E adesso? Dinanzi al professore di matematica il glorioso ragià pietosamente balbetta, la mano che regge lo scettro trema, tentando col gesso, sulla lavagna, l’equazione di secondo grado.

E domani il sanguinario capo pellerossa ansimerà su per le scale dell’uicio alle otto e 35 del mattino, per l’incubo dell’orologio di controllo 22.

L’educazione, la scuola partecipa quindi a quell’opposizione schematica tra infanzia e età matura, la quale ha perso speranze, grazia, fantasia e gioco.

E l’ultima frase del narratore (« Camminare, signore, camminare 23. ») suggerisce l’impossibilità di sottrarsi sia al tempo che passa che agli imperativi della società.

Bambini ed educazione nel dramma Il mantello.

Il tema dell’educazione laica è presente nella pièce in un atto unico Il mantello, allestita per la prima volta nel 1960 e tratta dal racconto omonimo, del 1940, pubblicato nella raccolta I sette messaggeri. In quest’opera teatrale, Giovanni, un giovane soldato tornato dal fronte, viene accolto da madre e fratelli;

ma il mantello nasconde le ferite mortali del giovane e il misterioso capitano che l’aspetta in strada non è altro che la morte stessa. Nell’adattamento Buzzati

21 Dino Buzzati, Un autoritratto – Dialoghi con Y. Panaieu, Milano, Mondadori, p. 102.

22 Dino Buzzati, In quel preciso momento, Milano, Mondadori, 2006, p. 134-136.

23 Ibidem, p. 136.

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introduce nuovi personaggi rispetto alla novella, in particolare tre scolari, fra cui Gino e Pietro, « bambin di circa 11 anni », mentre la madre del racconto è la maestra Anna nella pièce, donna impegnata, all’inizio e alla ine della rappresentazione, ad impartire i propri insegnamenti ai giovani scolari. Perché Buzzati introduce questi nuovi personaggi – bambini (e adulto) – che ci ripor- tano al mondo della scuola, sebbene l’intero atto unico si svolga tra le mura domestiche di Anna?

La sequenza iniziale permette innanzitutto di anticipare una serie di elementi inquietanti che preannunciano il inale tragico. Uno dei tre scolari legge una iaba in cui si racconta che il duca Corradino ha ordinato l’omi- cidio di un piccolo principe; ma gli scudieri impietositi risparmiano il bambino, uccidono un cerbiatto e col suo sangue intingono il giubbetto del principe; la madre del giovanetto, che non sa dell’inganno, si addolora vedendo il giubbetto insanguinato prima di avere un « misterioso presentimento » (presentimento che il iglio sia ancora vivo). La iaba introduce elementi importanti della trama principale: la morte per uccisione; il motivo del vestito associato alla morte (il giubbetto del principe « insanguinato » e « tutto intriso di sangue » / il mantello di Giovanni per coprirne le fasce insanguinate); il dolore della madre e il tema del presentimento – tutti elementi che creano un’atmosfera funebre prima del ritorno di Giovanni. I parallelismi tra la iaba e la trama della pièce sono numerosi e sottili; basti pensare al momento in cui Anna interroga uno scolaro sul senso della parola « cerbiatto » e poi « guarda alla inestra 24 ».

Guarda verso quell’esterno, verso quell’altrove da dove spera di veder tornare un giorno il iglio dato per morto; si instaura così un rapporto di identità non solo tra il principino della iaba e il protagonista della pièce, ma anche tra Giovanni e il cerbiatto che sarà ucciso e nel sangue del quale si intingerà il giubbetto del giovane principe.

La sequenza della lezione serve inoltre a suggerire temi buzzatiani forti:

in primo luogo il contrasto tra infanzia / età adulta, con la sua declinazione illusione / realtà; i bambini leggono una iaba il cui protagonista è miracolosa- mente risparmiato (secondo un procedimento di sostituzione che ricorda quello messo in atto nella vicenda di Biancaneve); nella realtà (degli adulti) invece, il protagonista Giovanni morirà per le sue ferite di guerra. L’opposizione tra iaba e realtà (tra il principino ancora in vita e Giovanni realmente morto) viene ribadita nel inale della pièce quando Anna, dopo aver capito che il iglio è

24 Dino Buzzati, Il mantello, in Teatro, a cura di Guido Davico Bonino, Milano, Mondadori 2006, p. 384.

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morto, detta di nuovo la iaba, « lentamente 25 » (con la lentezza di chi prova un dolore immenso); e la pièce inisce nel momento in cui la iaba, dettata da Anna, rimane sospesa nel punto in cui la regina attende il iglio, proprio in virtù di quel « presentimento » di vita, parola che qui però, di fronte all’evidenza della morte del iglio, non trova più spazio.

La sequenza permette anche a Buzzati di introdurre uno dei suoi temi preferiti, quello della corsa del tempo e del passaggio dall’infanzia alla vecchiaia e alla morte. Ai due bambini (situati, come indicano le didascalie di Buzzati,

« a sinistra 26 » del palco) sono contrapposti i due vecchi bisnonni del protago- nista situati invece sulla parte destra del palco, personaggi (nuovi rispetto alla novella); solo Giovanni può inizialmente intendere il loro discorso di morte:

« Giovanni, tu vuoi sapere? Siamo i tuoi vecchi sepolti. Uomo, donna: bisnonno, bisnonna 27 ». Essi alludono sempre più nettamente alla morte di Giovanni, e alle cause che l’hanno generata, spronando il giovane a dire cos’è la guerra al sindaco che chiede notizie dal fronte (« Giovanni, sei troppo modesto. Diglielo, diglielo questo: montagne, ghiaccio, fame, pianti [...]; preghiere, pioggia, terra tra i denti. E poi gli occhi per sempre fermi, pace, buio, eternità, vermi 28 »).

La dicotomia infanzia vitale / vecchiaia funebre è sottolineata dallo spazio scenico e dalla presenza dei personaggi nella trama: i bambini intervengono principalmente all’inizio della pièce mentre i vecchi fantasmi (i quali, come recitano le didascalie, devono essere « del tutto invisibili » al principio dell’atto) sono presenti soprattutto nella seconda parte, quasi a suggerire visivamente nello spazio del palcoscenico e nella temporalità della pièce, da sinistra a destra, e dall’inizio alla ine, il principio d’invecchiamento – e se c’è una certa circola- rità dell’opera (la quale si conclude di nuovo con Anna, sconvolta dal dolore, che sollecita di nuovo gli scolari, nello studiolo a sinistra del palco), questa circolarità non intacca la linearità drammatica del tempo raigurata dall’oppo- sizione scolari / avi. Linearità del tempo suggerita anche dal sole, che è presente all’inizio della pièce, ma si spegne alla ine. Entra sicuramente in questa logica di simbologia temporale la deinizione che Anna dà della parola « cerbiatto » dopo aver interrogato gli alunni (« Il cerbiatto è un piccolo cervo 29 »), come per sottolineare il loro essere piccoli ma destinati un giorno a diventare grandi come il cerbiatto si farà cervo. D’altronde, uno dei ripetuti consigli di Anna ai

25 Ibidem, p. 405.

26 Ibidem, p. 383.

27 Ibidem, p. 392. Il corsivo è dell’autore.

28 Ibidem, p. 401. Il corsivo è dell’autore.

29 Ibidem, p. 385.

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suoi scolari è proprio quello della fugacità del tempo: « Ragazzi, che cosa fate?

Esco un attimo, torno e voi siete là con le mani in mano… Quante volte vi ho raccomandato… Il tempo fa presto a passare… Per esempio, l’avete già fatto il compito di aritmetica 30? ».

La separazione tra mondo dei bambini e mondo degli adulti riveste anche una dimensione sociale: al mondo spensierato e iabesco dei bambini si oppone la società degli adulti fatta di ingiustizie e di morte reale. Una delle novità della pièce rispetto alla novella risiede appunto nell’inserimento di una dimen- sione sociale polemica, a cui occorre accennare, seppur schematicamente. Si noteranno: 1) la dimensione polemica nei confronti dei colonnelli che riescono a ottenere ricompense senza macchiarsi l’uniforme mentre i poveri soldati come Giovanni pagano con la vita il senso del dovere – come si evince dai discorsi della madre e dal discorso dei vecchi antenati sul signore della morte « innamo- rato di te, povero soldato 31 » – ; 2) la critica della guerra come puro macello 32; 3) la dimensione polemica nei confronti dei dirigenti politici rappresentati dal sindaco e dal segretario, personaggi nuovi rispetto alla novella, uomini gretti e dal limitato senso civico – il primo è ipocrita ed egoista, il secondo invidioso, entrambi sono invadenti e sprezzanti – ; 4) la critica del conformismo che spinge la madre a mettersi in lutto solo per accontentare la gente del paese pur non avendo mai smesso di credere che il iglio è ancora vivo 33; 5) la dimen- sione sociale polemica nei confronti del progresso – con l’evocazione di una centrale elettrica che ha fatto sparire il laghetto in cui Giovanni e la compagna di gioco Marietta giocavano da bambini 34. Si crea così un contrasto stridente tra il mondo dell’infanzia, ancora associato alla iaba – pur cruenta – di Leonora e del principino e il mondo squallido degli adulti; la maestra Anna sta sul conine tra quei due mondi, sospesa tra il caldo amore per il iglio di cui attende il ritorno e una rigidità che scaturisce da lei suo malgrado quando incarna il ruolo dell’educatrice.

La diferenza tra i due mondi è sottolineata visivamente sul palco dalla separazione isica tra lo studiolo a sinistra del palcoscenico e « la specie di sala di soggiorno » in cui sono gli adulti. E non a caso le indicazioni sceno- graiche date da Buzzati per lo studiolo dei bambini mirano a far risaltare la

30 Ibidem, p. 387.

31 Ibidem, p. 396.

32 Ibidem, p. 399-401.

33 Ibidem, p. 390.

34 Ibidem, p. 393.

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dimensione dell’infanzia, come il calcolo « in calligraia infantile » sulla lavagna dello studiolo:

A sinistra, separato da una parete vista di sezione, in cui si apre una porta, è uno studiolo dove la signora Anna dà lezioni ai bambini. Basta che ci sia un tavolo, con tre calamai, quaderni, libri. Una lavagna con su scritto un calcolo in calligraia infantile 35.

La separazione tra i due mondi non è ermetica perché presto i bimbi diventano spettatori delle conversazioni adulte:

Gino (dall’altra stanza, con l’occhio a una fessura della porta, sottovoce agli altri due bambini) Venite a vedere!... Il iglio della signora! Guarda come è magro!

(Da questo momento i bimbi si avvicenderanno alla porta bisbigliando.) 36

La possibilità di guardare non è casuale e non si limita ad essere un artiicio metateatrale; come per i vecchi antenati (« simbolici più che fantomatici 37 »), assume un valore simbolico: i bimbi guardano verso la destra, verso gli adulti e verso i vecchi, cioè verso il loro futuro. La comunicazione tra studiolo e sala (con la porta che i bimbi schiudono per guardare) indica simbolicamente che anche i bambini usciranno dallo studiolo, cioè dal mondo iabesco dell’infanzia; anche loro, come i cerbiatti diventano cervi, diventeranno adulti e anche la loro infanzia sarà cancellata dai dettati della società: economici, politici, militari, sociali.

Il tema della ine dell’infanzia è sottolineato dal personaggio di Marietta, amica di Rita, la sorella di Giovanni, e compagna d’infanzia del protagonista.

Marietta è la testimone del tempo passato che cancella i luoghi dell’infanzia e la capacità di giocare:

Marietta Però come sei diventato serio in questi anni, una volta non eri così (Sorride.)

Giovanni Serio? Chi lo sa se sono diventato più serio. (Sorride)

Marietta Eh, sì, quando sei partito per la guerra eri diverso. Scommetto che non sapresti più giocare come una volta. Ti vergogneresti. A proposito, lo sai, Giovanni, della nostra barca? Te la ricordi?

Giovanni (sopra pensiero) La nostra barca…

Marietta La nostra barca è andata a fondo... Nessuno più l’adoperava e un bel giorno è andata sott’acqua... Anche il nostro laghetto non c’è più... Hanno costruito la centrale elettrica e il laghetto è sparito.

35 Ibidem, p. 383.

36 Ibidem, p. 390.

37 Ibidem, p. 384.

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Giovanni E tu? Anche tu sei un poco cambiata. Tu che dici, vai ancora di notte a rubare le père? E c’è ancora qualcuno che ti dà scapaccioni 38?

Se la pièce suggerisce una lettura spaziale del tempo con un percorso che va da sinistra (con i bambini) verso destra (con gli avi), risulta chiaro che lo spazio centrale corrisponde all’età adulta, e quindi ad una tappa che i bambini non potranno evitare. Così come non potranno evitare di vedere la morte in Giovanni alla ine della pièce, quando Giovanni saluta la sorella, la compagna e la madre prima di uscire:

Giovanni (con voce già assente): Devo andare, mamma… l’ho già fatto aspettare abbastanza il mio capitano… L’ho fatto aspettare in troppo. Ciao Rita, ciao Marietta… Mamma, addio, addio! (Si volta ed esce. Voltandosi espone il petto sanguinolente agli sguardi dei bambini che guardano attraverso le fessure della porta. Poi si allontana a grandi passi.)

I bimbi (terrorizzati) Aaah! 39

I bambini, brutalmente confrontati con la morte, e più precisamente con la morte di un soldato, ne rimangono sconvolti. Quando Anna torna nello studiolo, sono « pallidi e imbarazzati », « stretti al davanzale della inestra 40 » (per vedere Giovanni uscire di casa e entrare nella macchina del misterioso capitano, incarnazione della Morte). In quel pallore sembra celarsi l’oscura consapevolezza acquisita dai bambini del comune futuro di morte che attende loro stessi, un giorno. Forse proprio come soldati, in virtù della loro integra- zione in una società che li modella, mediante l’istruzione, e che potrebbe aver bisogno di loro come soldati, così com’è stato per Giovanni; così si potrebbe spiegare la scelta di tre scolari di sesso maschile. La scena inale suggerisce la presenza di questo condizionamento sociale. Anna, benché soprafatta dal dolore, riprende la lezione meccanicamente, ligia al dovere (come suo iglio Giovanni del resto, sempre scrupolosamente attento al rispetto del segreto militare sui fatti del fronte quando viene interrogato dal sindaco): « Un po’ di dettato… Su, i quaderni a posto!... Le penne! Siamo pronti 41? » L’esercizio del dettato assume una valenza simbolica, poiché la maestra non solo detta agli scolari ciò che devono scrivere, ma impone l’ordine in cui eseguire ogni opera- zione; l’esercizio suggerisce l’ubbidienza all’autorità che la maestra incarna.

Il dettato verte su una iaba sanguinosa, con un duca ambizioso e pronto a (far)

38 Ibidem, p. 393.

39 Ibidem, p. 404.

40 Ibidem.

41 Ibidem, p. 405.

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uccidere; questa è la materia su cui lavorano i bambini, quasi ad anticipare i fatti di sangue di cui si tingeranno in futuro.

La cultura della guerra

Ci invita ad una tale ipotesi interpretativa anche il testo Non restano che pochi secondi in cui il narratore, alla vigilia di Natale, pieno di buoni propositi, invita gli amici a prepararsi, nel poco tempo che rimane prima della mezzanotte, alla nascita di Gesù; propone loro di cancellare tutte le « brutte cose 42 » sulla lavagna della vita (vita individuale e collettiva) e di riempire lo spazio vuoto con buoni propositi; fra di essi spicca il riiuto della cultura di guerra che egli stesso ha ricevuto e che viene trasmessa agli « scolaretti »:

Scrivete che la parola guerra ce l’hanno insegnata da bambini e che in realtà non ci è mai piaciuta e che per quanto ci riguarda promettiamo di non nominarla mai più.

[…] Scrivete che, nei limiti delle nostre possibilità, non regaleremo mai più fuciletti e cannoni a retrocarica ma palle di gomma colorate e innocui cagnolini di stofa; che non ripeteremo più ai bambini le favole di guerra e di massacri ainché un giorno non ci siano più scolaretti che giochino al processo di Norimberga passando un cappio al collo 43.

Il passo evidenzia la preoccupazione di Buzzati per il condizionamento dei bambini attraverso l’educazione e la cultura (in senso lato).

La riproduzione dei modelli culturali

I bambini sono plasmati dalle istituzioni (religiose o laiche) ma sono plasmati anche, e fortemente, dalla cultura e dai costumi del gruppo sociale o famigliare in cui vivono. Ci interesseremo qui all’analisi di questa trasmissione non istituzionale di valori (positivi o negativi) in alcune opere di Buzzati, fra prosa e teatro.

Il capro espiatorio: la cultura dell’intolleranza

Il tema dell’infanzia serve a Buzzati anche per mostrare la riproduzione di schemi mentali e culturali nei bambini, come la cultura dell’intolleranza verso chi è diverso – aspetto che rientra nella prospettiva più generale della critica buzzatiana del conformismo.

42 Dino Buzzati, Lo strano Natale di Mr. Scrooge e altre storie, Milano, Mondadori, 1990, p. 316.

43 Ibidem, p. 317.

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che racconta di una giovane forestiera linciata, con furia medievale, per aver cercato un po’ di frescura, durante una giornata estiva, entrando in una fontana piena di bambini; così facendo ha infranto una legge tacita che impedisce agli adulti di entrare in quel luogo riservato ai bambini (divieto che simbolicamente sembra indicare l’impossibilità per l’adulto di tornare nel mondo dell’infanzia, pena la morte). Questa cultura dell’intolleranza e della violenza che colpisce Anna, forestiera che non ha saputo rispettare la legge vigente, si trasmette a Tonino: il bambino colpisce Anna con la sua barchetta di legno e sarà poi portato in trionfo dalla folla imbestialita. Certo, il bambino a quel punto non è più in grado di capire cosa sta accadendo (« non capiva e si guardava intorno spaventato 45 ») e il suo spavento è una condanna tacita della violenza adulta;

ma il processo di riproduzione della violenza discriminatoria è già in atto.

Va notato inoltre come Buzzati alluda al tema del bambino viziato poiché le donne che selvaggiamente picchiano Anna sono le stesse ad esternare nel modo più eccessivo il loro afetto materno.

Ritroviamo lo schema del capro espiatorio, del personaggio diverso, non conforme, schernito e malmenato (isicamente o, qui, moralmente) in Cenerentola 46; Cenerentola è una ragazza « minorata » che zoppica per la polio- mielite ma si lascia convincere dalle maligne sorelle gemelle a partecipare a un concorso di bellezza giovanile « a favore dei terrazzani dell’Afghanistan afetti dalla febbre ricorrente 47 ». Il concorso, come prevedibile, sarà un vero disastro per Cenerentola: entrata sul palco dopo le sorellastre (le quali ricevono uno scroscio di applausi per la loro capacità di riprodurre i modelli di sensua- lità femminili appresi alla televisione), Cenerentola si fa presto deridere dalla platea (« L’intera sala zeppa di gente è una sola selvaggia risata 48 ») e allo scherno partecipano anche i bambini:

Poi una voce infantile: « Oh, ecco la zoppetta! ».

Altri due passi lentamente. Si fa un maledetto silenzio, nonostante l’orchestra.

44 Pubblicata dapprima nella rivista Oggi, il 7 dicembre 1948, la novella è ora contenuta nella raccolta Sessanta racconti (Dino Buzzati, Sessanta racconti, op. cit.). Per uno studio della novella rimando al mio articolo Le poids de l’enfance dans les récits de Dino Buzzati, op. cit.

45 Dino Buzzati, Sessanta racconti, op. cit., p. 927.

46 La novella Cenerentola, apparsa dapprima nell’edizione del mattino del Corriere della Sera il 13 marzo 1966, è contenuta nella raccolta Le notti diicili (Dino Buzzati, Le notti diicili, Milano, Mondadori, 2006).

47 Ibidem, p. 138.

48 Ibidem, p. 141

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Adesso sono in tre, quattro, cinque che gridano insieme : « Dài, dài! Coraggio zoppetta! »

Chi si è messo a ridere per primo? Un bambino o una mamma? È stata Licia?

O le due gemelle insieme? O il demonio, in una delle prime ile, travestito da bonario paterfamilias 49?

Le sorelle di Cenerentola e i bambini spettatori riproducono lo schema discri- minatorio dei genitori. La novella suggerisce che questo tipo di discrimina- zione per il debole interessa la classe borghese a cui appartengono le sorellastre di Cenerentola, appartenenza desumibile dal regalo che la madre ha commis- sionato per il compleanno di Cenerentola (« un capo magniico. Con quello che è costato! ») e dal luogo in cui si svolge il concorso, « il padiglione della Mostra retrospettiva del Liberty 50 », che da solo rimanda ad un’età dell’oro della borghesia. L’opera di beneicenza del concorso, dal momento che non rimette in discussione le disparità sociali e la ricchezza dei benestanti, non contraddice in sostanza la logica discriminatoria della classe dominante – e i bambini riproducono ciecamente il modello proposto loro.

La novella Povero bambino! (della raccolta Il colombre) è costruita su uno schema simile: il povero bambino Doli, smunto e gracile, senza espressione e carattere, spicca per la sua diversità che lo distingue dai ragazzi biondi ed energici del parco pubblico. E Doli, come Cenerentola, sarà vittima della violenza (isica questa volta) del gruppo sociale, dato che i bambini biondi, che lo intrappolano e lo pestano per la sua diversità, riproducono i valori del ceto al quale appartengono. La madre stessa di Doli non accetta la diversità isica e caratteriale del iglio che lo rende più fragile degli altri; questa dife- renza suscita in lei invidia per le altre mamme, amarezza e addirittura « umilia- zione 51 »; il conformismo la rende insensibile alla soferenza del iglio – con conseguenze terribili per il iglio e per il mondo intero: il tema della riprodu- zione della segregazione viene infatti estremizzato in questa novella che ci fa scoprire, nell’ultima frase, che il piccolo Doli fa Hitler di cognome.

La cultura del successo

Povero bambino! comprende un altro aspetto del rapporto educativo dell’adulto con i bambini: quello delle ambizioni materne proiettate sui igli.

49 Ibidem.

50 Ibidem, p. 139.

51 Dino Buzzati, Povero bambino!, in Il colombre e altri cinquanta racconti, Milano, Mondadori, 1992, p. 122.

(20)

Queste ambizioni che pesano sui igli (nel caso della madre di Doli ostacolano l’amore incondizionato e generano ira nei confronti del iglio) sono esacerbate in una società liberale competitiva dove le classi sociali non sono completa- mente ermetiche, dove rimane possibile salire nella scala sociale. Fra le altre novelle della medesima raccolta (Il colombre) centrate sull’infanzia, L’uovo mette in forte rilievo le disparità sociali. La bambina della cameriera a ore Gilda Soso non riesce a competere con gli altri bambini benestanti nella grande caccia all’uovo organizzata dalla Croce Viola Internazionale (ancora una volta, come in Cenerentola, una manifestazione di beneicenza) e verrà poi accusata ingiustamente di furto da parte di una coetanea e di sua madre. Si noterà per inciso, sempre nella raccolta Il colombre, l’attenzione pietosa di Buzzati per l’infanzia povera con la novella Il palloncino, nella quale di nuovo una bimba fragile (magra « come per una soferta malattia 52 ») e di famiglia poco abbiente, ma felicissima per il palloncino che è riuscita a farsi comprare dalla mamma, diventa vittima della violenza di altri giovani, qui tre « dichiarati teppisti 53 » che le fanno esplodere l’oggetto della felicità.

Nella raccolta In quel preciso momento si trovano almeno tre testi dedicati al tema delle aspettative riversate sui igli o sui nipoti: Il nonno dice che, Il treno e soprattutto Le madri incontentabili, racconto che mostra successivamente tre madri incontentabili nelle loro ambizioni per i igli, in tre contesti sociali o temporali diversi: la madre di un impiegato, la madre di un bandito, la madre di un faraone; nei tre casi i igli stentano a soddisfare le ininite ambizioni delle madri. La novella Il treno ripropone lo schema della madre piena di aspetta- tive e ambizioni per il bambino ancora in fasce. In Il nonno dice che, il tema è presente in maniera più allusiva: l’ambizione del nonno pesa sul narratore ancora bambino (« Il nonno dice che gli piacerebbe, quando sarò grande, che facessi il chirurgo ») che sembra seguirne prematuramente le orme, tanto da suscitare sorpresa e perplessità nella gente (« Già si sente dire: così giovane: che razza di posizione. »). Ma il racconto suggerisce la subdola logica della ripro- duzione che porta il nipote a seguire una via per la quale non è fatto, come si intuisce dalla ripugnanza che prova per la scuola e lo studio (« Mancano ancora cinque mesi alla ine dell’anno scolastico; smarco i giorni sul calendario [...] »;

« Ogni sabato, che respiro 54! »). Perciò il sentirsi « trufato in pieno » quando la sua giovane età se ne è andata è legato, oltre che alla discrepanza tra desiderio

52 Ibidem, p. 262.

53 Ibidem, p. 266.

54 Dino Buzzati, Il nonno dice che, in In quel preciso momento, op. cit., p. 28.

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di felicità e realtà meschina, forse anche a quell’inganno delle ambizioni altrui che il bambino ha fatto artiicialmente sue.

L’idolatria del bambino

Buzzati prende di mira gli eccessi che intravede in quella nuova sensibi- lità che la società manifesta per il bambino, una sensibilità che, all’opposto dell’educazione patriarcale autoritaria, si esprime, nella sua punta estrema, nella volontà di assecondare ogni desiderio del bimbo, col rischio di farne un essere viziato capace di prendere il potere all’interno del nucleo famigliare. È il caso di Giorgio nella novella Il bambino tiranno 55, bambino temuto per le sue ire capricciose da tutti i membri della famiglia, compreso il padre, compreso il nonno che pur rappresenta una igura di massima autorità per la sua età e per la condizione di colonnello in pensione (e Buzzati ne ribadisce non a caso il mestiere: « colonnello in pensione »; « vecchio colonnello 56 »). Buzzati propone certo un caso estremo con questo bambino talmente viziato da inire col distruggere volontariamente il giocattolo preferito in un acceso capriccio, ma l’eccesso ha qui valore esemplare. Il contrasto tra la violenza del bimbo che sembra assatanato e l’adorazione della mamma che lo considera angelico («  l’ho sempre detto che è un angelo 57! ») ricorda le mamme violente della novella Non aspettavano altro. Il riso sarcastico e quasi demoniaco del bimbo nella conclusione della novella di fronte ai familiari che lo credono « angelo » diventa condanna implicita dell’ingenuità o perino della stupidità dei genitori incapaci di capire le conseguenze nefaste della loro educazione. Poiché di educa- zione si tratta, essendo il cosiddetto « satanismo 58 » del bimbo non un dato di natura quanto il risultato di « una sfrenata adorazione » legata alla volontà collettiva, sempre più forte negli anni, di porre ine all’autoritarismo educa- tivo fondato sull’imposizione e, qualora necessario, sul pianto come strumento di apprendimento – mentre ciascuno nella famiglia di Giorgio « tremava al pensiero di poter involontariamente provocare il pianto del bambino 59 ».

Buzzati riprende questa tematica in una pièce pubblicata e rappresentata nel 1959, Le inestre, atto unico centrato su una coppia ed il iglio, attraverso salti cronologici che mostrano l’evoluzione di quest’ultimo (neonato, bambino,

55 La novella viene pubblicata per la prima volta sul Corriere della Sera il 14 gennaio 1951.

56 Dino Buzzati, Il bambino tiranno, in Opere scelte, op. cit., p. 883.

57 Ibidem, p. 887.

58 Rimandiamo al termine impiegato da Bosetti in uno dei suoi contributi dedicati al tema dell’infanzia in Buzzati (Gilbert Bosetti, « Enfance satanique », op. cit.).

59 Dino Buzzati, Opere scelte, op. cit., p. 881.

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adolescente e inine adulto). Ad ogni periodo della vita del iglio corrisponde una discussione dei genitori sull’educazione da riservargli. Spicca la diversità di prospettiva educativa tra il padre e la madre. Lui è preoccupato che il iglio non prenda una brutta piega e vorrebbe controllarne e arginarne le mosse.

Lei invece è permissiva, dà piena iducia e libertà al iglio, sicura che, quasi spontaneamente, questi crescerà isicamente e moralmente sano; i principi educativi della madre sono espliciti in quanto è lei stessa ad asserire: « Vivi e lascia vivere 60 »; « Io trovo che ai ragazzi, nel limite del lecito, bisogna dare completa libertà 61 ». La famiglia che Buzzati mette in scena sembra incarnare i cambiamenti di costume che conosce l’Italia del Miracolo economico: è una famiglia con un unico iglio e con relative capacità inanziarie, come indicano le anziane zitelle pettegole che commentano dal balcone l’educazione della coppia di genitori ad ogni fase della vita del ragazzo (« Una bella educazione »;

« Sistemi moderni »; « E spendi e spandi, e spandi e spendi 62 »). Sono le stesse disponibilità inanziarie che permettono di comprare presto al iglio uno degli oggetti simbolici del Miracolo: la macchina (vera e propria pazzia, secondo il padre). Presentando cinque momenti cronologici successivi che si susse- guono con vertiginosa velocità, Buzzati mette in luce l’evoluzione psicologica e morale del giovane e il risultato inale dell’educazione permissiva. Risultato negativo poiché il iglio diventa un delinquente e si fa catturare, nelle ultime battute dell’atto unico, sotto gli occhi soddisfatti della madre Giuliana, la quale nemmeno capisce che il ladro e il iglio sono la medesima persona.

La cultura del consumo

Il mondo degli afari ha saputo favorire e sfruttare l’attenzione crescente verso i igli o l’idolatria che colora il rapporto tra l’adulto e il bambino. Quest’ultimo diventa sempre più bersaglio degli industriali del giocattolo ansiosi di farne un perenne consumista, mediante il condizionamento della pubblicità. I casi del iglio che « spend[e] e spand[e] » nella pièce (Finestre) e del « bambino tiranno » Giorgio, il cui armadio è pieno zeppo di giocattoli, suggeriscono come il tema del consumismo infantile sia connesso a quello dell’idolatria per i bambini.

Buzzati coglie il nesso consumismo-infanzia attraverso il periodo emblematico del Natale – un tema, quello del Natale, che gli ispira diversi articoli e novelle, tra i quali ci par doveroso ricordare a titolo d’esempio i dodici testi (undici in prosa, uno in versi) che compongono un’intera sezione (Natale) della raccolta

60 Dino Buzzati, Le inestre, in Teatro, op. cit., p. 258.

61 Ibidem, p. 259.

62 Ibidem, p. 258.

(23)

postuma Lo strano Natale di Mr. Scrooge e altre storie. Lo sguardo di Buzzati sul Natale è intriso di nostalgia e di critica per il consumismo sfrenato che si manifesta nel periodo natalizio. L’idea del Natale desacralizzato, solamente consumistico, si traduce in maniera paradossale nella novella Il problema del Bambino Gesù in cui Gesù scende davvero a distribuire i regali e sono i bambini, e non gli adulti, a non credere più in lui. Il rovesciamento paradossale pone sotto la lente del lettore ancora una volta il rapporto tra igli e genitori; il Sala e la moglie, volendo veriicare i dubbi dei igli sull’esistenza di Gesù Bambino, si alzano la notte della Vigilia per cercarne i regali, ma, trovati i regali, sono scoperti dai bambini in agguato:

“Vi abbiamo presi… Vi abbiamo presi!” urlarono, saltando come furie addosso ai genitori. […]

Felici, trascinarono il padre e la madre per la stanza, in una frenetica danza da selvaggi. Poi all’improvviso li lasciarono per gettarsi sui regali, con nuove esplosioni di esultanza.

E i genitori rimasero là come cretini 63.

« L’antica favola che non si consuma mai 64 », come scrive il narratore di Domani una grande occasione è in realtà piuttosto consumata se i igli perdono le credenze magiche tradizionalmente associate al Natale.

Buzzati ofre un’altra versione della trasformazione del Natale in festa del consumo nel racconto Decorazioni in cui ad un padre non resta che pulire i vetri poiché i suoi progetti di « fare il solito albero » e le classiche decorazioni natalizie in famiglia sono stati smontati dai igli che contestano, per ragioni ideologiche, il rito ormai consumistico:

Mah, pensavo di fare il solito albero, ma Giantomaso e Almachiara, i miei più piccoli, si sono messi a contestarlo, dicono che a Mao assolutamente non piace. […]

Pensavo di mettere qualche ghirlanda d’argento […] ma Pierfrancesco, il mio secondo, dice che è un rito schifosamente consumistico. Pensavo sopra e intorno al caminetto, di mettere in mostra i Christmas cards ricevuti […] ma Giorgiopaolo, il mio grandicello, dice che Marcuse è contrario 65.

Il tema del Natale consumistico mette in luce due forme opposte di condizio- namento: quello consumistico e quello, contrario, dell’ideologia anticapitalista.

La poesia Che scherzo!, compresa nella sezione Natale, mostra un mondo disincantato, « dominato dall’espansione economica », con le conseguenti

63 Dino Buzzati, Il problema del Bambino Gesù, in In quel preciso momento, op. cit., p. 56.

64 Dino Buzzati, Lo strano Natale di Mr. Scrooge e altre storie, Milano, Mondadori, 1990, p. 309.

65 Ibidem, p. 355.

(24)

ripercussioni sui bimbi nel rapporto con la magia del Natale, mentre la venuta di Gesù Bambino si riduce ad « antica superstizione 66 »:

E se poi venisse davvero [Gesù Bambino]?

[…]

E neppure ci credono i bambini che avrebbero suiciente ingenuità voglia di miracoli, di fantasia di mostri, di favole, ma ci fu quel sorriso speciale della mamma così ambiguo 67 […]

Conclusione

Il tema dell’infanzia permette a Buzzati di dar rilievo non solo a tematiche esistenziali (il tempo, la vecchiaia, la disillusione) ma anche a tematiche sociali importanti. Queste due tipologie tematiche, lungi dall’essere disgiunte, s’intrecciano intorno alla igura del bambino buzzatiano: la ine dell’infanzia (e della favola con essa) è in parte dovuta al condizionamento sociale dei bambini, e non solo all’inevitabile fuga del tempo. L’istruzione religiosa e la cultura del peccato, l’educazione (più o meno) laica che mira precisamente alla crescita del fanciullo, i sistemi ideologici e il difondersi di nuovi costumi nella famiglia e nella società determinano lo sguardo del bambino su oggetti materiali e denaro, lo appesantiscono delle soferenze dell’adulto, riducendo lo spazio vitale della favola. Lo scrittore è sospeso tra i due mondi, tra l’adulto e il fanciullo e, solo, continua – bambino tra gli adulti – a tener in vita la dimen- sione magica dell’infanzia:

[…]

Silenzio! O Gesù Bambino per favore cammina piano nell’attraversare il salotto.

Guai se tu svegli i ragazzi, che disastro sarebbe per noi così colti così intelligenti brevettati miscredenti noi che crediamo chissà cosa coi nostri atomi coi nostri razzi 68.

66 Ibidem, p. 363.

67 Ibidem, p. 362-363.

68 Ibidem, p. 364.

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