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Academic year: 2022

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RIASSUNTO

La tesi propone una ricerca fatta con i pazienti malati di SLA e con i loro caregiver , tramite la somministrazione di Questionari. Il lavoro mira a reperire informazioni sull'importanza di avere un Infermiere di riferimento durante una malattia progressivamente ingravescente, con lo scopo di migliorare le cure prestate, migliorare i rapporti interpersonali e diminuire i costi per le aziende sanitarie.

I Questionario sono identici per le due parti, in modo da poter essere confrontati. Inoltre da ogni punto di vista potevamo reperire informazioni su cui ragionare e lavorare.

I risultati, pensando che il lavoro è stato fatto solo su carta, sono stati positivi e forse anche sorprendenti. Sono stati molti i consensi, sia da una parte che dall'altra, sul progetto proposto. Inoltre sono emerse problematiche che non erano state prese in considerazione e che possono trovare risoluzione anche in questa maniera.

Dal punto di vista dei rapporti interpersonali, come avevamo presupposto, abbiamo visto che la comunicazione spesso non è efficacie e le due parti possono avere pensieri totalmente opposti.

Intervenire instaurando l'Infermiere di riferimento sembra poter

migliorare il modo di affrontare la malattia presso il proprio domicilio.

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INDICE

1 INTRODUZIONE

1.1 Presentazione del problema e rassegna della letteratura 5

1.2 Contenuto della tesi 8

2 INTRODUZIONE ALLA MALATTIA

2.1 Sclerosi Laterale Amiotrofica - La malattia 12 2.2 L'approccio multidisciplinare per migliorare la qualità di vita 16

3 LE “BUONE PRATICHE” UTILI SECONDO IL PUNTO DI VISTA INFERMIERISTICO

3.1 La teoria della “STANZA” 40

3.2 La comunicazione amica della cura 48

3.3 Mai più solo - I caregiver a fianco del malato 55 3.4 Lavaggio delle mani - Pratica fondamentale

in tutti gli stati di malattia 61

3.5 Le altre pratiche fondamentali 68

4 UNO STUDIO INFERMIERISTICO

4.1 La spinta iniziale - Introduzione alla ricerca 86 4.2 Costruire per capire - La metodologia di ricerca 91

4.3 Il dato fondamento della disciplina 97

4.4 Il miglior sistema sanitario

Come questo intervento dovrebbe migliorare il SSN 119

5 RINGRAZIAMENTI

5.1 Grazie a… 127

6 BIBLIOGRAFIA 131

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Tabelle 133

Appendice A: Questionario per i pazienti 138

Appendice B: Questionario per i caregiver 139

Appendice C: Lavaggio sociale delle mani 140

Appendice D: Igiene intima a letto 141

Appendice E: Bagno a letto 142

Appendice F: Spostamento del paziente dal letto alla carrozzina e viceversa 144

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1 INTRODUZIONE

1.1 Presentazione della problematica e rassegna della letteratura

Esistono non poche famiglie con persone malate in cui si devono improvvisare pratiche per l’igiene e la cura personale del malato. Ho quindi ipotizzato che una figura professionale possa non solo spiegare le “buone pratiche assistenziali”, ma anche seguire il paziente e la sua famiglia in un percorso strutturato a seconda delle loro esigenze.

Le problematiche che vengono affrontate si collocano in un ambiente extraospedaliero, dove persone inesperte si trovano a dover prendersi cura di un malato di Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA) la cui sintomatologia evolve progressivamente.

Questo tipo di malattia viene curata, per lo più, ambulatorialmente e spesso alcune domande possono rimanere soffocate nella mente delle persone.

Abbiamo supposto di instituire un Infermiere di riferimento utile in diversi ambiti.

Dobbiamo peraltro ricordarci che le abitazioni delle persone non possono, e non devono, diventare delle stanze di ospedale! Invero, nel caso della SLA ci avviciniamo molto a questa trasformazione con il passare del tempo, ma deve essere trovato un giusto compromesso, in modo da poter fornire una buona assistenza senza dover spersonalizzare il luogo nel quale vive il paziente.

Il ruolo dell’infermiere deve essere utile per il paziente, per i caregiver e per il Sistema Sanitario Nazionale (SSN) . Nel prendersi cura del paziente le persone devono sapere quali sono le cose importanti da tenere in considerazione durante l’assistenza anche durante la “degenza domiciliare”.

I caregiver possono sentirsi più tranquilli dopo aver preso dimestichezza con queste tecniche. Si punta anche alla prevenzione di malattie da stress psicofisico diminuendo la fatica fisica derivante da manovre sbagliate. Il tutto va a vantaggio di una convivenza più serena.

Le aziende ospedaliere ricevono così benefici con un impatto positivo sui costi. Un solo infermiere può essere riferimento per più famiglie e può risolvere molti problemi, anche in collaborazione con il medico di famiglia, riducendo il numero degli accessi in

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ospedale. Basti pensare ad un’ulcera da pressione, ad un’eventuale infezione o ad altri problemi non urgenti. Si cercherà di arrivare ad un’autonomia del caregiver nel prendersi cura del paziente.

Da un punto di vista relazionale l’intervento di un infermiere dovrebbe migliorare il rapporto che si instaura tra le persone durante la malattia. Alcune situazioni di tensione, come vedremo, portano le persone ad avere pensieri contrastanti senza nemmeno esserne a conoscenza. Per questo motivo ho creato la “Teoria della stanza del malato”.

La motivazione che mi ha spinto a fare questa ricerca è la mia esperienza di nipote all’epoca quindicenne, totalmente estraneo alle pratiche assistenziali, che non sapeva bene come, con gli altri familiari, gestire il nonno affetto da SLA.

Sono ricorso così ad un questionario molto semplice, ideato da me, per sapere se anche altre persone al mio posto e al posto di mio nonno sentano il bisogno di un aiuto.

Vorrei cercare di capire, anche, come un infermiere (ospedaliero o domiciliare) debba

“evolversi” nel suo lavoro secondo le persone intervistate.

Questa metodologia è nata dall’idea di poter lasciare liberi i pazienti ed i loro familiari di scegliere se e come rispondere.

Dobbiamo ricordarci anche che oggi l’assistenza domiciliare è un campo sempre più vasto, in quanto si cerca di trattenere un paziente in ospedale il meno possibile: questo è un vantaggio per i pazienti che nel proprio ambiente stanno meglio; per i familiari che non devono preoccuparsi di andare continuamente in ospedale; e per le aziende ospedaliere che riducono i loro costi.

Sappiamo, però, che ogni medaglia ha il suo rovescio, e in molti casi l’assistenza domiciliare non riesce a risolvere tutte le problematiche che crea la SLA. Se pensiamo a medicazioni, prelievi o in generale alla gestione di malattie diverse dalla SLA, vediamo come l’assistenza domiciliare abbia a tutt’oggi un ruolo completamente diverso da quello descritto da me. Pazienti con malattie diverse vengono accolti in strutture sanitarie dove possono passare la maggior parte della giornata per poi tornare a casa:

tutto questo è più problematico con i pazienti affetti da SLA, che fanno esperienza di una continua progressione di malattia in presenza - il più delle volte - di un normofunzionamento cognitivo.

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Prima di iniziare il mio lavoro e di costruire un mio questionario ho cercato su siti specialistici qualcosa di simile, fatto anche in altri ambiti, ma non sono riuscito a trovare alcun dato.

Sono certo dell’importanza della mia ricerca, sapendo quanto sia fondamentale prendersi cura del paziente in maniera olistica. Anche se alcune considerazioni possono sembrare scontate, sono certo che altre non lo siano affatto, e che questa è una di quelle problematiche che, nonostante sia davanti alle persone ogni giorno, non viene presa in debita considerazione.

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1.2 Contenuto della Tesi

La Tesi ha l’obiettivo di riportare l’attenzione sull’assistenza domiciliare affrontando il problema con i diretti interessati e mettendo in evidenza quelle che sono le “Buone pratiche dell’assistenza” nella SLA, una malattia neurologica a decorso progressivo gestita per lo più ambulatorialmente.

Andare a sostituire il paziente nelle sue attività pratiche di ogni giorno non è facile, soprattutto all’inizio, e le tecniche usate in infermieristica devono essere divulgate a chi svolge questi compiti a domicilio. La malattia comporta che con il passare del tempo le condizioni cliniche peggiorino, e quindi non si può spiegare tutto alle persone nel solito momento. Fornire un bagaglio di informazioni non utili sul momento porta a dimenticarle: per questo devono essere comunicate mano a mano che necessitino.

Anche l’utilizzo di opuscoli informativi è stato omesso in quanto potrebbero nascere dubbi che non verrebbero colmati: possono essere però usati come promemoria.

Viene preso in considerazione anche il punto di vista psicologico: è importante capire se un nfermiere di riferimento possa rivestire un ruolo significativo nel sostenere le persone durante i cambiamenti ingenerati dalla malattia. Ogni nuova condizione porta con sè dubbi, preoccupazioni ed incertezze.

L’obiettivo generale è, quindi, cercare di migliorare la qualità di vita del paziente e supportare i caregiver nella loro attività. Condividere le problematiche e cercare soluzioni, creando un percorso di diagnosi infermieristica, dovrebbe essere la naturale conseguenza di una visione olistica del paziente. Oltre alla cura della malattia, compito tipicamente medico, si prende in considerazione la persona in quanto tale. Tutto questo per cercare di prevenire l’insorgenza di complicazioni nel paziente e di nuove malattie nel caregiver, come ad es. un ernia discale.

La Tesi inizia con un’introduzione sulla malattia per far capire di che cosa si tratta, e prosegue con un Capitolo fondamentale nel trattamento delle malattie: la multidisciplinarietà.

Quest'ultimo prende in considerazione anche tutte quelle figure professionali che dovrebbero lavorare con un malato di SLA, indicandone per ognuno le funzioni

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all’interno del percorso terapeutico.

La cura di moltissime malattie richiede l’intervento di più professionisti. La figura che cura la malattia, il medico, è sempre presente e non può essere omessa; l’altra figura che dovrebbe in molti casi far parte dell’équipe assistenziale è quella dell’infermiere che deve prendersi carico del paziente.

La terza Sezione inizia con una teoria che ho elaborato personalmente. Questa teoria vale per tutte le malattie, non solo per la SLA: intitolata la “Teoria della stanza” spiega il mio punto di vista su come dovrebbe essere visto un malato.

Il Secondo Capitolo spiega l’importanza della comunicazione ed i vantaggi che porta nella cura di una persona. Poter comunicare è tanto rilevante quanto capire l’importanza di trovare metodi alternativi per chi non può comunicare verbalmente: si arriva a spiegare perché il colloquio è preferito rispetto ad altri mezzi.

Il capitolo successivo illustra per quale motivo sia stato scelto di spiegare queste pratiche piuttosto che altre: è fondamentale capire la loro importanza per lo sviluppo di tutta la Tesi.

Successivamente il Quarto Capitolo va a spiegare l’utilità del lavaggio sociale delle mani e quando farlo: vengono menzionate anche alcune ricerche a sostegno di questo importante atto. E’ fatto anche un accenno sul frizionamento settico delle mani, visto che può sostituire il lavaggio sociale ed in alcuni casi essere anche più efficace.

L’ultimo Capitolo illustra e motiva le altre pratiche facendo una breve panoramica su ognuna di esse.

La nuova Sezione è quella che riguarda la ricerca. Nel primo capitolo viene spiegato come è nata l’idea, da quali domande è nato il Progetto e chi sono le persone a cui è destinato.

Si prosegue con il capitolo che spiega come sono stati preparati i questionari, a chi vengono somministrati e perché: vengono identificati anche i criteri di inclusione e di esclusione.

Nel Capitolo Tre si introducono quelli che dovrebbero essere i risultati da attendersi:

in qualche misura vengono presupposti dalla mia esperienza.

Il Quarto Capitolo è quello della ricerca vera e propria. Vengono analizzati i dati

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raccolti, presentati in forma di tabella per essere commentati più facilmente.

Nell’ultimo Capitolo si individua se applicando questo intervento si abbia o meno un miglioramento. Si spiega, inoltre, come i dati ottenuti dovrebbero migliorare il SSN. Si può capire anche quali devono essere gli obiettivi che un infermiere deve porsi lavorando con pazienti affetti da SLA.

Questo lavoro deve rafforzare l’idea di quanto sia importante lavorare in squadra, oltre ad evidenziare di non sottovalutare quanto viene fatto per la cura del paziente. I dati ottenuti hanno evidenziato quanto sia importante il paziente come persona: ognuno, in un modo o nell’altro, ha dichiarato di aver bisogno di aiuto.

Guardando il mondo, adesso, siamo molto più vicini, ma in realtà siamo sempre più lontani: ci scriviamo, ma non comprendiamo, ad es., l’importanza di un gesto che potrebbe avere rilevanti ripercussioni psicologiche.

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2 INTRODUZIONE ALLA MALATTIA

2.1 Sclerosi Laterale Amiotrofica - La malattia

Il Morbo di Lou Gehring (dal nome di un giocatore di baseball, la cui malattia nel 1939 scosse l’opinione pubblica), meglio conosciuto come Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA), ma anche come Malattia di Charcot o Malattia del Motoneurone, è una malattia neurodegenerativa progressiva del motoneurone, che colpisce selettivamente i motoneuroni, appunto, superiori (“I motoneurone”, a livello della corteccia cerebrale) ed inferiori (“II motoneurone”, a livello del tronco encefalico e del midollo spinale).

La SLA venne descritta per la prima volta nel 1860 da un neurologo francese, Jean- Martin Charcot. Attualmente le sue cause sono ancora ignote, pur ipotizzandosi fattori genetici associati o meno ad altri ambientali.

Si tratta di una malattia rara, prevalentemente sporadica: ha un’incidenza di due-tre casi ogni 100.000 individui all’anno. Colpisce a metà del corso della vita con frequenza simile tra i due sessi con lieve predominanza per quello maschile; è estremamente rara oltre gli ottanta anni. Le forme familiari rappresentano circa il 5% del totale.

Un’alta incidenza è stata riportata nella Nuova Guinea Occidentale, nella penisola di Kii del Giappone e, in una forma associata a demenza e morbo di Parkinson, anche presso i Chamorro dell’isola di Guam.

Nell’arco di tempo che va dal 2004 al 2008 il procuratore torinese Raffaele Guariniello ha condotto un’inchiesta che ha accertato cinquantuno casi di SLA su 30.000 calciatori italiani presi in esame: si è ipotizzata una maggiore prevalenza in questa categoria di persone per motivi occupazionali.

L’etimologia della definizione “Sclerosi Laterale Amiotrofica” chiarisce le caratteristiche della malattia. La parola “amiotrofica” è l’aggettivo di “amiotrofia”, parola greca composta da “a-” (che significa “assenza”), “mio-” (che sta per “muscolo”) e “trofia” (che significa “nutrimento”): quindi i muscoli si indeboliscono e si atrofizzano.

La parola “laterale” è un aggettivo che si riferisce alla zona del midollo spinale dove

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si localizzano i cordoni laterali che contengono i fasci cortico-spinali, ossia le vie piramidali che connettono il primo con il secondo motoneurone.

Il processo neurodegenerativo moto neuronale, che coinvolge anche i fasci di collegamento tra i due ordini di motoneuroni, produce un rimaneggiamento di quest’area che, a seguito della morte neuronale, viene ad essere occupata da una reazione proliferativa astrogliale per cui progressivamente tende ad “indurirsi”, cioè a

“sclerotizzarsi” (donde il termine “Sclerosi”).

Le varie forme di Malattia del Motoneurone possono interessare solo il primo, solo il secondo od entrambi i motoneuroni (solo in quest’ultimo caso si parla propriamente di SLA): per ogni forma si hanno segni e sintomi differenti.

Nel caso sia colpito il primo motoneurone si hanno iperreflessia1 e spasticità2.

Nel caso venga colpito il secondo motoneurone il paziente si presenterà con flaccidità muscolare3 ed atrofia muscolare progressiva.

Nel 90% dei casi si ha la sindrome classica, mentre dal 10 al 20% possono presentarsi varianti anche molto rare: in questi casi anche le prognosi cambiano.

Tra questi quadri nosografici troviamo:

- Paralisi Bulbare Progressiva (con prognosi peggiore);

- Sclerosi Laterale Primaria (con prognosi migliore);

- Atrofia Muscolare Progressiva (con prognosi peggiore);

- Demenza Fronto-temporale, sindrome con deterioramento cognitivo associata a SLA.

I sintomi iniziali possono essere rappresentati da disartria4 che può condurre più o meno rapidamente all’anartria5. Spesso, però, si hanno ingravescenti deficit di forza a carico degli arti superiori (con incapacità ad usare i bottoni, o a pettinarsi) e/o degli arti inferiori (con difficoltà deambulatorie). Coesistono frequentemente fascicolazioni6 e crampi7.

Più o meno precocemente durante il decorso clinico si ha anche la perdita progressiva

1 Accentazione abnorme dei riflessi tendinei 2 Aumento patologico del tono muscolare

3 Diminuzione di consistenza di un organo o di una parte anatomica, in questo caso dei muscoli 4 Disturbo articolatorio dell'eloquio

5 Totale incapacità di parlare

6 Contrazioni muscolari visibili superficialmente

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ed irreversibile delle normali capacità di deglutizione (disfagia) per liquidi soprattutto, ma poi anche per i solidi: si avranno pertanto scialorrea ed un eccessivo sbadigliare.

La progressiva perdita dei muscoli scheletrici porta ad una paralisi con un'estensione variabile. Anche la muscolatura respiratoria potrà essere interessata: si manifesteranno allora ipoventilazione notturna, dispnea ed insufficienza respiratoria che renderà necessaria la ventilazione assistita.

L’exitus sopraggiunge in genere dopo pochi anni: l’unico modo per prolungare la sopravvivenza del malato è la tracheotomia per poter intraprendere la ventilazione invasiva permanente. Invero, anche se in condizioni di disabilità estrema, il paziente, se tenuto al riparo da infezioni e malattie respiratorie, può vivere anche venti anni o più.

La SLA non altera le funzioni sensitivo-sensoriali, sessuali e sfinteriche del malato.

D’altro canto, in una percentuale variabile dal 20 al 30% dei pazienti si può riscontrare decadimento cognitivo.

L’eziopatogenesi della SLA è sconosciuta, ma verosimilmente si tratta di una malattia multifattoriale. Alcuni possibili meccanismi che causano la morte dei motoneuroni sembrano essere:

- accumulo di proteine anomale all’interno della cellula - TDP43 (sia nelle forme sporadiche sia in alcune forme familiari); SOD1 nei pazienti portatori di mutazioni del gene per la medesima proteina; FUS parimenti nei pazienti con mutazioni del gene omonimo;

- ridotta eliminazione di proteine intracellulari - autofagia ed attività lisosomale deficitarie;

- alterazione dei meccanismi di trasporto intraneuronale - alcune mutazioni genetiche rare codificano per proteine che sono implicate nel trasporto assonale (trasporto di sostanze tra nucleo e periferia della cellula);

stress ossidativo - il danno dovuto ai radicali dell’ossigeno ed ad altre sostanze tossiche che si accumulano fisiologicamente all’interno della cellula potrebbe portare alla morte motoneuronale, ad es. accelerando processi apoptotici/proptotici alla base dell’invecchiamento cellulare;

alterazioni mitocondriali, con conseguente riduzione della produzione energetica

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all’interno della cellula;

carenza di fattori di crescita, che sostengono la vitalità motoneuronale e che facilitano i contatti tra motoneuroni e cellule muscolari;

eccesso di glutammato che determina un’iperattività neuronale citotossica - il Riluzolo, unico farmaco approvato nella terapia della SLA, agisce per l’appunto come antiglutamatergico, riducendo l’azione del glutammato;

neuroinfiammazione - alterazione delle interazioni tra gliociti e motoneuroni con disregolazione dei meccanismi modulanti i processi neuroflogistici (esiste, invero, ancora un dibattito se questo stato infiammatorio all’interno del sistema nervoso centrale sia una concausa oppure una conseguenza del danno moto neuronale).

Parlando di agenti tossici o contagiosi alcuni studi scientifici hanno ipotizzato possibili correlazioni fra l'esposizione ed alcuni fitofarmaci (Oggi, in botanica, indica sia gli antiparassitari, pesticidi, sia, in senso più generale, le sostanze usate nella prevenzione e nella cura delle malattie delle piante) e la SLA. Una metanalisi del 2012, condotta su studi retrospettivi, ha dimostrato, sia pure solo in soggetti di sesso maschile, una correlazione statisticamente significativa fra l'esposizione a fitofarmaci e lo sviluppo della malattia; gli studi presi in esame, tuttavia, non specificavano la sostanza coinvolta.

Nessun test può fornire una diagnosi definitiva, benché la presenza di segni di interessamento del I e del II motoneurone in un singolo arto sia fortemente indicativa.

La diagnosi della malattia è basata principalmente sui sintomi riferiti dal paziente e sui segni che il medico osserva, nonché su una serie di test che servono per escludere altre malattie. I medici considerano attentamente l’anamnesi8 e la catamnesi9 e di solito conducono esami neurologici ad intervalli regolari per valutare se la sintomatolgia (debolezza ed atrofia muscolare, iperreflessia e spasticità) peggiorino nel tempo.

Ovviamente è stato detto solamente il minimo indispensabile per quanto riguarda questa malattia, da usare come introduzione al tema dell’elaborato.

Soltanto un’analisi completa delle problematiche aiuta a capire dove agire.

8 Raccolta particolareggiata delle notizie che riguardano il paziente

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2.2 L'approccio multidisciplinare per migliorare la qualità di vita

Oggi la medicina, come ogni altra scienza, sta facendo dei forti passi in avanti su tutti i fronti.

Vediamo come la sempre maggiore, nonché migliore, tecnologia aiuti e migliori alcuni interventi anche quotidiani, prima difficoltosi o poco applicabili se non addirittura impossibili da eseguire. Possiamo far riferimento, nel nostro caso, alla sonda gastrostomia, o più semplicemente ad un elettrocardiogramma (ECG).

Dobbiamo però tenere presenti due punti fondamentali che non devono essere tralasciati quando si studia questo argomento.

Iniziamo con il sottolineare che la tecnologia, pur essendo molto diffusa, non riesce a soddisfare tutte le esigenze dei vari campi di studio, o magari non riesce, ancora, a dare un supporto tale da migliorare gli interventi.

Come avremo modo di vedere parlando di assistenza di base, che è indice di una buona assistenza, sono pochi gli interventi i quali beneficiano dell’utilizzo di nuove tecnologie. Spesso risulta più facile, veloce, e addirittura meno traumatizzante per il paziente, adottare tecniche “antiche” ma ancora molto efficaci. E’ doveroso, oltretutto, tenere conto proprio dei fondamenti dell’assistenza, e cioè che deve essere arrecato il minor traumatismo possibile al paziente.

Il secondo punto da tenere in considerazione è il fatto che le nuove tecnologie, soprattutto in malattie ad esito infausto, non sempre riescono a salvare una vita o ad allungarla.

In questi casi è fondamentale far capire ai pazienti ed ai loro familiari che devono essere usate per migliorare la qualità di vita, in modo da ridurre le sofferenze del paziente e quelle di chi gli sta vicino, per il periodo più o meno lungo che rimane al paziente.

Vorrei soffermarmi anche sul fatto che il ricorso alle nuove tecnologie deve essere una scelta del paziente e non delle varie figure professionali che lo hanno in “custodia”

come purtroppo spesso accade.

Nonostante le nuove tecnologie, come già detto, dobbiamo però accompagnare le

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persone verso l’exitus del paziente, non verso false speranze. In tutto questo processo lo psicologo collabora insieme con gli altri professionisti che ruotano intorno al paziente, ma soprattutto con l’Infermiere di riferimento.

Migliorare la qualità di vita, quindi, dovrebbe essere l’obiettivo di ogni professionista, sia nel caso la malattia possa essere combattuta sia nel caso in cui la malattia continui il suo decorso, come accade per la SLA, portando all’exitus.

Proprio questa malattia, la SLA, che stiamo prendendo in esame, ci mostra come il binomio TECNOLOGIA e MULTIPROFESSIONALITA’ possa dare dei risultati eccellenti, in termini di valutazione dello stato di salute e dell’evoluzione della patologia.

Risultati eccellenti si notano, tenendo sempre in considerazione la malattia, anche nella qualità di vita, e cioè in tutti quei momenti in cui la tecnologia aiuta le persone vicine al malato o il malato stesso dandogli la possibilità di comunicare o richiedere assistenza solo attraverso lo sguardo, oppure quando vogliamo alzarlo da letto con un sollevatore per metterlo su di una poltrona.

Adesso ci addentreremo in quelle che sono le visite più ricorrenti, e anche più importanti, per un paziente affetto da SLA, tenendo sempre conto del fattore tecnologico ed avendo un occhio di riguardo per la figura infermieristica.

La visita neurologica, in questa malattia, è il punto di partenza per capire l’evoluzione clinica e lo stato di salute del malato.

Il medico che conduce la visita si preoccuperà di valutare il paziente proprio dal punto di vista neuromuscolare, eseguendo delle prove sulla forza e sul tono muscolare, utilizzando due scale clinimetriche.

La Scala MRC, per ogni prova da effettuare, attribuisce un punteggio che va da 0 a 5.

Il 5 indica una forza di contrazione nella norma; il 4 indica una forza sufficiente ma non completa (quasi normale); il 3 indica una moderata debolezza; il 2 indica la capacità di muovere l’arto ma non di vincere completamente la forza di gravità; 1 indica una forza contrattile minima (la contrazione muscolare può essere palpata ma non si nota movimento dei capi articolari); lo 0 indica paralisi completa (plegia).

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Il tono muscolare viene valutato con la Scala di Ashworth.

Potendosi con questa scala valutare sia la spasticità10, sia la flaccidità11, la normalità è rappresentata dallo 0 che si trova in mezzo e che, quindi, indica che non c’è nessuna variazione di tono, né in più, né in meno. Alla sua destra ci sono i segni positivi correlati con l’aumento del tono; mentre alla sua sinistra ci sono i segni negativi che, al contrario, indicano una diminuzione del tono muscolare.

Il 1 indica incremento moderato del tono muscolare; il 2 un incremento più evidente;

il 3 aumento ancora più marcato del tono; il 4 viene assegnato quando l’arto non è mobilizzabile per nulla dall’esaminatore.

Anche in questo caso, come per la Scala MRC, è importante confrontare i punteggi ottenuti valutando i due lati del corpo.

La visita neurologica, se il paziente lo consente, può essere eseguita su una poltrona pesapersone che ci indica subito il peso del paziente in modo da poter essere confrontato con quello della visita precedente.

Avere il paziente sdraiato è utile anche per un ulteriore accertamento strumentale, la bioimpedenzometria. L’esame viene effettuato utilizzando 8 elettrodi che vengono posizionati su entrambi i piedi e su entrambe le mani. Potendo collegare all’apparecchio solo 4 elettrodi per volta, si dovranno spostare le pinze di collegamento, in modo da registrare, ad es., dagli arti di sx, quindi dall’arto superiore dx e dall’arto inferiore sx, poi da quelli di dx, ed infine dall’arto superiore sx e dall’arto inferiore dx.

La bioimpedenzometria è una metodica utilizzata per la determinazione della composizione corporea, consentendo di analizzare massa grassa, massa magra ed acqua totale, grazie alla misurazione dell’impedenza corporea (bioimpedenza, appunto) al passaggio di una corrente elettrica a bassa intensità e ad alta frequenza (50kHz).

Il ruolo dell’infermiere, oltre ad aiutare il paziente per lo spostamento, consiste nel coadiuvare il medico nella preparazione del paziente, nonché nell’installazione della strumentazione.

Conoscendo la malattia, però, si capisce che questa visita è solo il punto di partenza per seguire il malato che, solitamente, deve poi essere inviato in altri ambulatori

10 Aumento del tono muscolare

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specialistici, come analizzeremo tra poco.

Il neurologo e l’infermiere che opera in ambito neurologico dovrebbero cercare di programmare le visite in base alle preferenze del paziente ed anche alla disponibilità degli altri specialisti: quindi è fondamentale sapere se il paziente preferisce eseguire tutte le valutazioni nella solita giornata o se ritiene sia meglio, per non stancarsi troppo, fare il tutto a più riprese.

Ovviamente si dovranno programmare solamente visite utili, e quindi non inviare il paziente da professionisti se non ne sussiste la necessità.

Tra le figure più importanti dove inviare i nostri malati ci sono gli otorinolaringoiatri, i quali dovranno studiare la deglutizione del paziente per capire se ha bisogno di una sonda gastrostomica.

La deglutizione viene valutata tramite due esami.

Il primo viene fatto tramite radiografia dopo l’introduzione di un liquido radiopaco, il solfato di bario, che è una polvere inodore ed incolore, non granulare e completamente insolubile (quindi non viene assorbita dall’organismo). Il solfato di bario viene fatto ingerire in forma di sospensione acquosa più o meno concentrata.

L’esame permette di rilevare anomalie anatomiche o alterazioni funzionali degli organi e degli sfinteri del tratto gastrointestinale superiore.

Il paziente ingerisce il solfato di bario sotto diretta osservazione fluoroscopica: mentre questo mezzo di contrasto scende nello stomaco vengono evidenziate la posizione, la pervietà ed il calibro dell’esofago. Viene valutato il tempo di transito e la pervietà della valvola pilorica.

Il secondo esame consiste in un’endoscopia a fibre ottiche (fibroscopia) del tratto gastrico superiore.

Questa indagine consente di avere una visione diretta della mucosa esofagea, gastrica e duodenale. La procedura può documentare i dati sotto forma di immagini fisse o di filmato.

Successivamente a queste indagini si decide con il paziente se procedere all’inserimento della sonda gastrostomica, in gomma morbida, tramite la Gastrostomia

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Endoscopica Percutanea (PEG). Questo risulta essere un vero e proprio intervento eseguito in sedazione in sala operatoria: il suo scopo è la somministrazione di cibi e bevande bypassando la bocca, onde evitare nei pazienti disfagici il fenomeno dell’aspirazione.

Dopo aver praticato l’anestesia locale, nel quadrante addominale superiore sx si inserisce una cannula che arriva nello stomaco tramite un incisione addominale.

Successivamente si fa passare un filo da sutura non riassorbibile all’interno della cannula. Utilizzando l’endoscopio inserito nello stomaco, un altro operatore usa l’ansa dello strumento per afferrare la porzione terminale del filo da sutura per guidarlo fuori attraverso la bocca del paziente.

Il filo viene poi legato alla punta dilatatrice che si trova all’estremità del sondino.

Mentre dalla bocca viene spinto all’interno il sondino, l’altro operatore tira il filo guidando così il sondino nell’esofago, dentro lo stomaco e quindi fuori dal foro addominale. La punta a fungo e la guarnizione interna fissano il sondino alla parete dello stomaco, mentre una guarnizione esterna mantiene il sondino in sede. Il sondino verrà aperto e chiuso con un morsetto al momento del bisogno.

Il presidio deve adattarsi perfettamente allo stomaco perché non si verifichino perdite di succhi gastrici, e viene mantenuto in sede mediante trazione tra il punto di fissaggio interno ed il punto di ancoraggio esterno.

La PEG risulta utile nelle persone disfagiche che ragionevolmente non potranno più riprendere a deglutire, facendo sì che la nutrizione avvenga sempre per via enterale, evitando la fase buccale e quella esofagea. Con questo intervento possiamo migliorare la qualità di vita, in quanto il paziente che non si nutre o che si nutre male va incontro a malnutrizione che provoca decadimento fisico ancora più velocemente del previsto.

Oltretutto non usare la via gastrointestinale vorrebbe dire andare incontro a disfunzioni a livello intestinale che possono peggiorare la salute del paziente. Una situazione come questa sappiamo che può portare non solo ad una sofferenza ulteriore per il paziente ma anche ad un incremento degli accessi dello stesso in ospedale con conseguente aumento del costo delle cure.

Un altro vantaggio molto importante è quello che, nonostante si continui ad usare il

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tratto gastrointestinale per l’alimentazione, si ridurrà il rischio di broncopolmonite ab ingestis, cioè una complicazione infettiva da aspirazione di cibo nel tratto respiratorio solitamente nell’emisistema dx.

Notiamo come anche in questo caso, parlando di ambulatorio, troviamo la figura dell’infermiere. I compiti sono analoghi a quelli precedenti e la collaborazione con medico, paziente e familiari continua ad essere fondamentale.

Risulta meno fondamentale il ruolo dell’infermiere in sala operatoria nei confronti di pazienti e familiari, ma non meno importante professionalmente.

Continuando a parlare di alimentazione dobbiamo prendere in considerazione, nel caso in cui il neurologo non abbia conoscenze in campo nutrizionale, la collaborazione col dietologo che, secondo il mio punto di vista, risulta essere molto importante in tutte le condizioni patologiche e a maggior ragione in malattie debilitanti come la SLA. La sua valutazione servirà per diete mirate e specifiche, visto anche il grado di disfagia del paziente, prima e dopo l’inserimento della PEG, indirizzando la famiglia e chi lo segue verso prodotti e cibi adeguati.

Sappiamo che l’apporto nutrizionale è fondamentale per le persone sane, ed ancora di più per le persone malate, soprattutto come prevenzione delle lesioni da decubito, delle infezioni, delle deficienze del sistema immunitario, delle malattie da carenza di vitamine, proteine, amminoacidi, sali minerali.

Un altro specialista che sicuramente visiterà il nostro paziente affetto da SLA è lo pneumologo che attraverso una serie di esami valuta lo stato respiratorio. Come tutti sanno l’ossigeno (O2) è alla base della vita e grazie a questo componente, che troviamo nell’aria ambiente ad una concentrazione del 21%, i mitocondri cellulari possono produrre energia.

Gli esami che vengono effettuati solitamente sono l’emogasanalisi (EGA) e le prove di funzionalità respiratoria tramite spirometria.

La prima viene effettuata tramite il prelievo di un campione di sangue arterioso, in genere a livello del polso dove si rileva l’arteria radiale. In questa regione anatomica il

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prelievo può essere fatto sia da medici sia da infermieri; altri siti per il prelievo sono le arterie brachiale o femorale, dove può essere eseguito solo da personale medico. Il campione può essere prelevato anche tramite un catetere arterioso a permanenza.

Per il prelievo si può usare un kit già pronto per la manovra oppure si può preparare una siringa (anche solo da 2,5 ml) con eparina (questa deve essere aspirata nella siringa per poi essere buttata via, in modo da bagnare le pareti per prevenire la coagulazione del sangue).

Eseguito il prelievo uno strumento elettronico, in pochi minuti, riesce ad analizzare alcuni parametri fondamentali per la ventilazione alveolare: pH (con range di normalità compreso tra 7,35 e 7,45) - che indica alcalosi o acidosi metabolica o respiratoria;

pressione parziale di ossigeno “PaO2” (con valori normali compresi tra 83,0 e 108,0 mmHg) - che indica il grado di ossigenazione del sangue; e pressione parziale del biossido di carbonio “PaCO2” (con valori normali compresi tra 35,0 e 45,0 mmHg).

Vengono messi in evidenza anche i parametri degli elettroliti sierici come gli ioni potassio (K+), gli ioni sodio (Na+) e gli ioni cloro (Cl-).

L’apparecchio elettronico rilascia, alla fine dell’analisi, uno scontrino da poter mettere nella cartella clinica, che riporta i valori dei vari parametri esaminati con accanto i valori di riferimento.

L’EGA permette di fare diagnosi di insufficienza respiratoria: è utile anche per il monitoraggio dell’ossigenoterapia, sia in ambiente ospedaliero, sia a domicilio, in quanto dà informazioni sulla capacità dei polmoni di fornire un’adeguata quantità di O2 e di eliminare CO2, nonché di quella dei reni di riassorbire o di eliminare gli ioni bicarbonato per mantenere un pH normale.

Un’ipoventilazione di tipo espiratorio, come può succedere nel caso di un malato di SLA, si riconosce da un aumento oltre i 45 mmHg della PaCO2.

Non possiamo fare a meno di ricordare che l’ipossia è pericolosa per tutti i tessuti e gli organi, ma soprattutto per cuore e cervello, dove può causare, rispettivamente, un infarto miocardico o un ictus.

Un altro esame di fondamentale rilevanza è la spirometria.

La spirometria è usato per valutare il grado di riduzione di flusso d’aria. Questo si

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determina dal rapporto tra il FEV112 e la FVC13.

I risultati sono espressi, solitamente, sia come volume assoluto sia come percentuale, utilizzando i valori normali di riferimento appropriati per età, sesso e peso corporeo.

Nel caso di un malato di SLA si ha dapprima un’incapacità ad espirare forzatamente l’aria dai polmoni e successivamente una difficoltà ad espirare, riducendosi così il FEV1: le malattie ostruttive polmonari mostrano un rapporto FEV1/FVC < 70%.

Questo esame si esegue velocemente in ambulatorio grazie ad un macchinario nel quale il paziente, tramite un tubo, vi respira dentro: i risultati sono immediati e velocemente valutabili.

Grazie ai dati ottenuti si riesce a capire se il paziente si trovi ad avere necessità di un aiuto per la ventilazione e quale tipo di aiuto sia più adeguato.

Inizialmente, di solito, si utilizza un ventilatore esterno non invasivo (VMNI), ma nei casi più gravi si può avere il bisogno di eseguire una tracheostomia per poter effettuare la ventilazione invasiva (VMI).

Il termine VMNI indica, quindi, la fornitura di un supporto ventilatorio tramite le vie aeree superiori del paziente grazie all’utilizzo, come dicevamo, di un ventilatore meccanico interfacciato col paziente mediante una maschera.

La modalità più confortevole per il paziente è la ventilazione a pressione controllata con pressione di supporto: questo facilita il lavoro respiratorio ed aumenta gli scambi gassosi

I ventilatori più utilizzati sono quelli a pressione positiva: questi insufflano i polmoni esercitando una pressione positiva sulle vie aeree, mediante un meccanismo simile a quello di un mantice, obbligando gli alveoli ad espandersi durante l’inspirazione che avviene passivamente.

Inizialmente il ventilatore verrà impostato in modo che la persona sia comoda e che la macchina parta “in sincronia” con il paziente stesso tramite i suoi trigger, cercando di evitare il più possibile ogni alterazione dalla normale dinamica cardiovascolare e polmonare.

Si arriverà poi ad un supporto totale dove tutto il lavoro respiratorio è sostenuto dal

12 Volume di aria che il paziente è in grado di espirare forzatamente in un secondo

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ventilatore: il ventilatore applica una pressione costante durante tutta l’inspirazione e l’inizio dell’atto inspiratorio è quindi impostato dall’operatore.

La tracheostomia si ottiene tramite una procedura chirurgica: si crea una breccia sul collo fino ad arrivare in trachea. La stomia creata viene mantenuta aperta da una cannula che prende il nome di cannula tracheostomica. Tramite questo intervento, oltre a bypassare le vie aeree superiori e quindi evitare il rischio di aspirazione, si può consentire l’aspirazione tracheo-bronchiale.

L’apertura chirurgica viene effettuata nel secondo o terzo anello tracheale: così facendo vengono lasciate intatte le strutture delle vie aeree.

Le cannule che si inseriscono nello stoma possono essere di diverso tipo, ma tutte hanno una cannula esterna che si inserisce in trachea ed una flangia di fissaggio, che viene appoggiata al collo e permette alla cannula di rimanere in sede anche grazie al fissaggio tramite le fettuccine che, girando attorno al collo, la tengono in posizione.

Alcune di esse contengono una cannula interna, chiamata controcannula, che viene fissata alla cannula esterna, tramite movimento circolare, e che può essere rimossa per la pulizia e la sostituzione.

Alcune cannule sono cuffiate, cioè provviste di un manicotto esterno gonfiabile chiamato cuffia, che consente una buona tenuta sulla parete tracheale. La cuffia è fondamentale per un paziente affetto da SLA, poiché riduce il rischio di aspirazione, oltre ad essere necessaria per l’uso del ventilatore.

Si deve ricordare che nel caso di ventilazione artificiale si deve mettere un filtro tra la cannula ed il catetere mount.

La maggior parte di ciò che è stato descritto fino a questo punto mette in mostra, come anche in precedenza, l’importanza delle nuove tecnologie.

Possiamo notare, inoltre, ancora una volta la presenza dell’infermiere che, oltre a collaborare con il medico ed a fare tutto ciò che abbiamo già detto per un ambulatorio o per una sala operatoria, può insegnare, o integrare quanto già fatto nel caso di bisogno, il clapping ed il drenaggio posturale. Queste manovre, fatte con cautela ed attenzione semplicemente con le mani aiutano il paziente a rimuovere le secrezioni alveolari e bronchiali.

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Tra i controlli che vengono programmati c’è anche quello dell’internista che eseguirà una visita generale al paziente (comprensiva della valutazione elettrocardiografica).

L’ECG è una tecnica non invasiva per rappresentare graficamente le correnti che vengono generate dal cuore a livello superficiale: solitamente un ECG standard viene effettuato con 12 derivazioni, collocando gli elettrodi sul torace (n=6) e sugli arti (n=4).

Il tracciato viene registrato su carta millimetrata e poi valutato.

Oltre ad evidenziare possibili aritmie cardiache, si possono sospettare squilibri elettrolitici (in primis Ca+ e K+) e monitorare l’effetto di alcuni farmaci.

I professionisti che abbiamo visto fino a questo momento non sono gli unici a seguire il paziente durante il suo percorso. Solitamente l’andamento del paziente viene rivalutato circa ogni quattro mesi, salvo insorgenza di gravi problemi.

Ci sono inoltre dei professionisti che lavorano con il paziente, e alcuni anche con i familiari, molto più spesso, con cadenza almeno settimanale.

Lo scopo è sempre quello di migliorare, per quanto possibile, le condizioni di vita del malato e di aiutare la famiglia nel prendersi cura di lui.

Sapendo che questa è una malattia che porta al decadimento muscolare può essere molto importante l’intervento di un fisioterapista che dovrà tenere delle sedute settimanali.

Il suo primo lavoro dovrà essere la mobilizzazione degli arti, con esercizi attivi, attivo-assistiti e passivi. Questi esercizi possono essere insegnati anche a chi si prende cura del paziente (caregiver), in modo che possano essere eseguiti anche in assenza del fisioterapista.

Durante gli esercizi attivi o attivo-assistiti il paziente usa la sua forza residua per eseguire esercizi che il fisioterapista gli insegna.

I movimenti passivi, d’altro canto, potranno servire al paziente per aiutare il ritorno venoso e per prevenire situazioni cliniche come stipsi o ulcere da pressione (UdP).

Un punto fondamentale è sicuramente l’elettrostimolazione che usa delle stimolazioni elettriche per far contrarre il muscolo.

Il macchinario usato viene connesso al paziente tramite delle piastre/elettrodi che

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devono essere messe in punti specifici. Successivamente si seleziona un programma adeguato.

Questa metodologia può essere usata fino a quando c’è una risposta anche minima dei muscoli sui quali stiamo lavorando.

Il lavoro del fisioterapista avviene, maggiormente, nelle palestre fornite di attrezzature che servono per i vari esercizi, o a domicilio con l’ausilio dell’elettrostimolatore che può essere di proprietà del paziente per l’utilizzo in autonomia. Si nota, quindi, come questa figura non abbia bisogno di un supporto specifico, diversamente da quanto visto per molti degli ambulatori sopra descritti.

La SLA, che porta all’atrofia di tutti i muscoli volontari, arriverà a colpire anche quelli facciali e quelli deputati alla fonazione: si potrebbe rendere necessario il lavoro di un logopedista per una valutazione funzionale.

In base alla prima valutazione, e poi alle seguenti, il logopedista dovrà insegnare al paziente degli esercizi fono-articolatori.

Un altro punto importante sul quale deve lavorare il logopedista sono i massaggi: si possono concentrare sui muscoli del labbro superiore e di quello inferiore, pizzicando il labbro e tirandolo delicatamente verso l’esterno, mentre sugli zigomi possono essere usati dei movimenti circolari, sia in senso orario sia in senso antiorario.

Si può lavorare anche sulla lingua, cercando di tirarla fuori e massaggiandola: in tal caso si deve far bene attenzione che questa rientri in sede.

Parlando di cavità buccale non ci si può dimenticare della salivazione che spesso è aumentata. Peggiorando la disfagia, il paziente dovrà essere aiutato con un sistema di aspirazione atto a liberarlo dalla saliva in eccesso senza però lasciargli la bocca asciutta.

L’infermiere, pur non aiutando direttamente il logopedista, deve insegnare però a chi segue il malato ad aspirare le secrezioni salivari senza danneggiare le mucose.

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Nell’ambito di malattie a prognosi infausta risulta utile, o per lo meno opportuno, per il paziente e per i familiari attivare uno psicologo che sceglierà il tipo di percorso da proporre al malato ed alla sua famiglia.

L’Infermiere di riferimento non deve sostituirsi allo psicologo, come non deve fare l’errore di sostituirsi al medico: deve però conoscere il progetto dello psicologo per sostenerlo o almeno non contrastarlo.

Dal punto di vista del paziente lo psicologo dovrà avere dei colloqui con lui in modo da fargli accettare la malattia - compito molto difficile -, accompagnandolo così in serenità fino alla morte: data poi la sempre più ridotta capacità comunicativa del paziente questo lavora diventerà sempre più difficile ma sempre di maggiore importanza mano a mano che la malattia si aggrava.

Analogo sarà il lavoro da svolgere con i familiari che però si divide in due fasi, quella che riguarda tutto il periodo di malattia e quella che inizia dopo l’exitus del paziente.

Nella prima lo psicologo non deve solo far accettare la malattia ai familiari, seguendo l’evoluzione della malattia stessa, ma deve preparare i familiari anche al futuro lutto.

Nella seconda fase lo psicologo dovrà lavorare proprio sull’elaborazione del lutto.

Il lutto è un processo complesso, comprendente risposte e comportamenti fisici, emotivi, spirituali e sociali, mediante il quale le persone, le famiglie e le comunità integrano nella loro vita quotidiana una perdita in atto, prevista o percepita.

In base a questa definizione l’elaborazione del lutto consiste nella rielaborazione emotiva dei significati, dei vissuti e dei processi sociali legati alla perdita della persona cara.

Il processo di elaborazione del lutto dipende da diversi fattori ambientali e psicologici, e la sua durata è estremamente variabile. Poiché la fase acuta può durare fino a ventiquattro mesi, soprattutto per figure principali come genitori, figli o compagni, il lavoro dello psicologo è estremamente complesso. Quest'ultimo deve stare attento anche alle possibili sequele dei periodi successivi, che non sono infrequenti.

Nonostante tutto il processo di elaborazione del lutto è fortemente soggettivo.

In questi casi la tecnologia può essere utile per raggiungere il professionista di riferimento in ogni momento, in modo da arginare subito le ricadute ed i momenti di

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sconforto: questo fatto può sembrare quasi banale, ma invero non risulta essere così per chi sta vivendo in prima persona questi momenti.

Uno dei professionisti che dovrebbe lavorare di più con questi pazienti e con le loro famiglie è proprio l’infermiere. Tale affermazione deriva dal fatto che la SLA viene gestita ambulatorialmente, fatta eccezione di brevi ricoveri per l’installazione di dispositivi che poi verranno usati a domicilio, oppure per l’insorgenza di complicanze cliniche.

L’infermiere che segue il paziente deve essere sempre il solito, ovviamente, in modo da conoscerne bene la storia clinica e poterlo trattare, caratterialmente e clinicamente, nel solito modo, ottimizzando le modalità di intervento.

L’infermiere si occuperà del processo di nursing, consistente in una sequenza organizzata di fasi di problem solving14, che deve essere utilizzato per identificare e gestire i problemi di salute dei pazienti. Dovrebbe, quindi, costituire la cornice di riferimento in tutti i setting di cura.

Il processo di nursing si fonda sulla conoscenza, cioè richiede l’uso del ragionamento clinico e del pensiero critico; e deve essere pianificato in quanto le sue fasi sono organizzate e sistematizzate, e quindi una fase conduce sistematicamente all’altra. Deve essere centrato sul paziente e deve essere volto ad obiettivi precisi, così che sia strutturato per priorità. Non dobbiamo scordarci la dinamicità dovuta alle costanti variazioni dello stato di salute dei pazienti ed alla condivisione con lo stesso paziente che deve accettare e collaborare in prima persona per raggiungere gli obiettivi prefissati.

La prima fase del processo di nursing è l’accertamento il quale consiste nella raccolta sistematica dei dati che possono essere oggettivi o soggettivi, primari15 o secondari16. L’accertamento deve aver inizio con il primo contatto e proseguire fino a quando per il paziente sussista il bisogno di assistenza.

Nel nostro caso il paziente avrà bisogno del nostro aiuto fino al decesso, al contrario dei familiari.

14 Fasi orientate alla risoluzione di problemi 15 La fonte è il paziente

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La seconda fase è la diagnosi che consiste nell’identificazione dei problemi di salute del paziente. Dopo un’attenta analisi dei dati si identificano una o più diagnosi infermieristiche. Una diagnosi infermieristica è un problema che può essere prevenuto, ridotto, risolto o migliorato attraverso un intervento infermieristico autonomo ed indipendente: si tratta, quindi, di una responsabilità esclusivamente infermieristica.

Una diagnosi infermieristica deve contenere 3 parti: denominazione del problema di salute, sua eziologia e segni/sintomi.

Ci possono essere anche problemi collaborativi che sono complicanze tali da richiedere una prescrizione medica.

La terza fase, quella della pianificazione, indica il processo in base al quale vengono stabilite le priorità nell’ambito delle diagnosi infermieristiche. Devono essere identificati obiettivi o risultati misurabili, selezionati interventi appropriati e documentato il piano di assistenza. Poiché non tutti i problemi sono risolvibili in breve tempo o nello stesso momento è importante stabilire quali problemi debbono essere affrontati per primi.

L’attuazione è la quarta fase ed implica semplicemente la realizzazione del piano di assistenza: questa fase riguarda sia il paziente sia il personale sanitario, ma spesso anche i membri della famiglia.

L'ultima fase consiste nella valutazione dove si evidenziano i risultati ottenuti. Prima della revisione del piano di assistenza è importante discutere eventuali mancati progressi con il paziente stesso.

Grazie a questo processo si cerca di aiutare il paziente, condividendo la strada da percorrere e lasciando che sia lui stesso a sceglierla, cercando di soddisfare le sue esigenze.

Il solito lavoro può essere fatto per il nucleo familiare.

L’infermiere dovrebbe dedicarsi al supporto della famiglia da un punto di vista tecnico, oltre che relazionale, insegnando alcune cose importanti in base all’evoluzione della malattia, e relazionandosi con la famiglia stessa, oltre che con il malato, senza però sostituirsi allo psicologo: può invece essere utile una proficua collaborazione.

Tra le prime cose da insegnare al caregiver ci dovrebbe essere proprio l’assistenza di

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base, e quindi si può iniziare con il corretto lavaggio delle mani, l’igiene intima a letto, il bagno a letto, la corretta movimentazione del paziente per la prevenzione delle Udp ed il corretto spostamento del paziente dal letto alla carrozzina e viceversa. Può essere importante insegnare anche come rifare un letto occupato.

Nel caso venga messa una sonda gastrostomica, l’Infermiere referente, deve accertarsi che i familiari siano stati istruiti adeguatamente al suo utilizzo.

Le cose importanti da sapere per gestire la sonda gastrostomica non sono molte e dipendono da come viene alimentato il paziente. Normalmente si utilizza una nutrizione continua tramite pompa con un apporto energetico prestabilito o, come più spesso succede nei malati di SLA, si può somministrare il pasto ad orario.

Per prima cosa ci dobbiamo ricordare che lo stomaco non è un comparto sterile. Per la somministrazione del cibo ad orario non importa cambiare sempre la siringa (chiamata

“schizzettone”) solitamente da 60 ml con il cono catetere. I cibi non possono essere solidi, ma semisolidi o semiliquidi. Alla fine del pasto, onde evitare che la sonda si intasi, deve essere lavata con un bicchiere di acqua (pari a circa 2 siringhe e mezzo da 60 ml).

I motivi per cui si usano queste siringhe sono principalmente due. Il primo è strettamente pratico, per evitare di dover ripetere l’operazione troppe volte come accadrebbe se si usassero siringe più piccole. Il secondo motivo è il fatto che il cono catetere della siringa da 60 ml aderisce meglio all’imbocco della sonda gastrostomia, consentendo di non dover usare un’eccessiva pressione ed evitando anche la perdita di sostanze in giro per la stanza ma soprattutto sul letto del malato.

Anche nel caso in cui al paziente venga fatta una tracheostomia ci dovremmo accertare che il caregiver sia stato formato ad una corretta aspirazione e pulizia sia della cannula sia del sito di inserzione.

Le manovre di aspirazione servono per mantenere la pervietà delle vie aeree, rimuovendo le secrezioni adese alla stessa cannula, e per favorirne la pulizia, prevenendo anche le infezioni e le lesioni dell’area peristomale. Si effettuano solamente quando si rileva un eccesso di secrezioni peristomali all’ascultazione o dal grafico mostrato sul monitor del ventilatore.

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L’aspirazione deve essere fatta con il paziente in posizione semiseduta (o semi-fowler) e dopo averlo iperossigenato. Il sondino di aspirazione deve essere usato in maniera sterile. Mentre lo inseriamo nella cannula non dobbiamo aspirare; si inserisce per circa 10 cm stando attenti a non superare la lunghezza della stessa cannula: a questo punto iniziamo ad aspirare ed usciamo con movimenti rotatori.

Il cambio della medicazione serve, ovviamente, per mantenere pulito ed asciutto lo stoma, evitando che si creino lesioni cutanee e che si arrivi all’infezione. Ogni 24 ore deve essere sostituita la medicazione dello stoma se non visibilmente sporca o umida: in quel momento si deve anche valutare lo stoma. Le medicazioni preconfezionate sono già pronte per essere usate: si deve solo far attenzione ai due lati, poiché uno è assorbente e l’altro no. Nel caso fossero sporche anche le fettuccine di tenuta devono essere cambiate: se queste ultime vengono cambiate, dobbiamo sempre cercare di mantenere in sede la cannula, anche se questa è cuffiata.

In caso la cannula abbia la controcannula questa deve essere rimossa e sostituita con una pulita e disinfettata, meglio sterile, mentre quella sporca deve essere lavata e pulita con uno scovolino.

In ultima analisi, ma non di minore importanza, si deve prevenire la macerazione dei tessuti, e quindi la formazione di UdP. Questo viene fatto, come vedremo più avanti, con materassi antidecubito. La prevenzione passa anche dal mantenimento della pelle asciutta e non si può sorvolare su un’attenta analisi delle zone sacrali, perianali e pubiche, soprattutto nella piega formata tra lo stesso pube e la muscolatura della coscia.

Per evitare che la cute si inumidisca può essere usato un indumento assorbente (pannolone): la forma classica è a mutandina e si tratta di materiali assorbenti, resistenti all’acqua, sagomati e morbidi. Questi presidi sono “usa e getta”. La loro applicazione è facilitata dalle chiusure a velcro sui lati.

Gli indumenti assorbenti sono usati indistintamente per uomini e donne, e devono essere cambiati spesso proprio per evitare l’umidità cutanea. Si deve fare attenzione a non ottenere l’effetto opposto nella piega che si forma tra pube e coscia dovuta agli elastici di contenzione.

Un altro metodo molto più efficace, che però può essere utilizzato solo per gli uomini,

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è l’utilizzo di un catetere condom. Questo presidio esterno deve essere applicato sul pene, deve rimanervi ben adeso, e poi viene collegato ad una sacca. Questi cateteri, oltre a non essere dolorosi se messi correttamente, diminuiscono il rischio di infezione rispetto ad una cateterizzazione a permanenza. Se vengono messi male, però, si ha il rischio di incontinenza, ischemia o rottura cutanea.

In questo caso, come nel caso di una cateterizzazione permanente (che oltretutto è sconsigliata in questi pazienti),si deve far attenzione quando si gira il paziente a non schiacciare il tubo di scarico per evitare dei ristagni non voluti in vescica. Il catetere condom deve essere tolto per la notte.

L’Infermiere referente, cui spetta di prendersi cura del paziente e non di curarlo, potrà essere interpellato non solo per chiarimenti di carattere tecnico ma anche per un supporto morale. Possono essere richiesti anche dei consigli che in alcuni casi devono essere dati con molta attenzione, seguendo anche quello che è scritto nel Codice Deontologico.

Proprio il Testo del 2009 recita che il paziente deve essere partecipe della sua assistenza, e prendere autonomamente le proprie decisioni. Viene indicato che l’infermiere, che si presta a fornire assistenza e a dare informazioni, si avvalga delle conoscenze più validate. Il buon senso è sempre richiesto, ma non si deve in nessun modo spingere il paziente o i familiari verso una scelta piuttosto che un’altra.

Le nuove tecnologie, oggi, sono presenti anche in moltissime case e possono essere d’aiuto alle persone con SLA, soprattutto se collegate alla rete internet.

Vediamo come certe attrezzature possono aiutare i malati ed i loro familiari.

Innanzi tutto sappiamo che si può disporre di telefoni cellulari smartphone, tablet o personal computer (PC).

I telefoni cellulari, che sono nati per telefonare, oggi sono alla portata veramente di tutti. Si deve evidenziare il fatto che grazie all’evoluzione della tecnologia oggi basta anche solo la voce per far partire una chiamata; tramite servizi di messaggistica possiamo essere contattati, e non manca neppure la lettura del testo da parte dell’apparecchio. La vera rivoluzione di questi anni è il poter scrivere a più persone

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contemporaneamente creando un gruppo in modo da comunicare in una volta sola cose importanti, evitando che siano riportate in maniera sbagliata. Possiamo capirlo parlando di una famiglia dove ci sono più fratelli e si deve comunicare il giorno e l’orario di una visita: creando un gruppo la comunicazione arriva a tutti nel solito modo.

Volendo possiamo usare il nostro telefono anche per far ascoltare la musica al nostro paziente, in modo che possa rilassarsi, durante un’attesa o magari in un viaggio.

I tablet non offrono molto di più, l’interfaccia è molto simile alla precedente, spesso uguale, ma lo schermo è più grande. Talvolta, pur potendo navigare in internet non possono essere usati come telefoni.

Un’altra rivoluzione importante è data dalle applicazioni, veri e propri programmi che spaziano su qualsiasi argomento.

Tra gli usi più importanti di questi strumenti, oltretutto facilmente trasportabili, non ci dobbiamo scordare quelli di tipo comunicativo, mediante programmi di scrittura con i quali il malato può comunicare quando non riesce più a parlare. Se risulta necessario è anche molto facile sostenere l’apparecchio in caso di deficit motorio del paziente.

La vera rivoluzione, dal mio punto di vista, credo sia data dal PC in questo momento, che grazie al solo utilizzo di un sensore ottico, dopo calibrazione, fa in modo che il paziente, ormai immobile, possa usare il suo sguardo per comunicare con gli altri: in altre parole il mouse viene guidato dagli occhi.

In questo modo dalla scrittura fino alla navigazione in internet il PC diviene accessibile anche in stato di immobilità: teniamo in considerazione, comunque, tutte le difficoltà che incontra un paziente, come può essere la stanchezza degli occhi o una calibrazione errata, durante l’utilizzo di questo sistema.

Il sistema che ho visto personalmente è fornito di un monitor adeguatamente saldato ad una sbarra, che si posiziona davanti al paziente in modo che veda. Il sensore è posto al di sopra del monitor e deve essere calibrato ogni volta che viene spostato.

Grazie a questo sistema il paziente può rimanere da solo visto che c’è il campanello d’allarme; può guardare la televisione, ma può anche comunicare tramite internet (social network o mail) e restare in contatto, per quanto voglia, con il mondo esterno.

La comunicazione è molto importante, poiché il paziente che non si isola non cade in

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depressione e riesce ad affrontare in maniera migliore le varie situazioni della vita.

Avevamo iniziato a parlare di come prevenire le UdP, argomento sempre molto attuale anche nelle corsie ospedaliere, e abbiamo detto che tra i presidi che possono essere di aiuto troviamo i materassi antidecubito. Questi, però, non devono essere usati da soli, o meglio, non funzionano se usati da soli.

I materassi antidecubito devono essere sempre associati ad un piano di rotazione attuato almeno ogni 4 ore - si passa a 2 ore con i materassi normali, e si devono tenere i talloni alzati dal piano del letto poiché nemmeno i materassi riescono a prevenirne le lesioni.

I materassi antidecubito migliori sembrano essere quelli ad aria e quelli ad aria fluidizzata. I primi sono costituiti da diversi cuscini di aria posti in maniera orizzontale:

un motore esterno gonfia e sgonfia i cuscini anche in base al movimento del paziente, in modo da distribuire la pressione a livello dei vari distretti corporei.

I letti ad aria fluidizzata usano un flusso d’aria veloce che gonfia fini particelle di silicone all’interno di una copertura protettiva: ne risulta un presidio simile ad un letto ad acqua. Quando si spegne il flusso d’aria, le particelle si depositano nella parte inferiore del letto e diventano una superficie rigida e ferma, mantenendo la persona in posizione fino a che si riattiva il flusso d’aria.

Anche in questo caso è impossibile non notare come la tecnologia possa aiutare le persone che sono obbligate in un letto, o che per lo meno vi passano la maggior parte della giornata, in modo da aiutare i caregiver.

Dopo aver visto come questa tipologia di malattia viene seguita mi nascono spontanee alcune domande a cui ho risposto secondo il mio punto di vista.

CHE SENSO HA OGGI LA MULTIDISCIPLINARIETA'?

Oggi la medicina tende ad essere sempre più specialistica, formando così persone che sono molto più brave a gestire un tipo specifico di problema invece di saperne un pò di tutto.

Tutto questo ha come scopo, o dovrebbe averlo, un miglior trattamento del paziente, in maniera più mirata, avvalendosi proprio della collaborazione con altri specialisti.

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Tutto questo credo sia dovuto anche a due fattori molto importanti: le nuove tecnologie ed il sempre maggior numero di pazienti.

Le nuove tecnologie, che abbiamo visto fino a questo momento, velocizzano e spesso migliorano anche le diagnosi, ma non possono essere presenti in tutti i reparti.

Comprare macchinari per tutti i reparti porterebbe ad una spesa eccessiva per le varie aziende ospedaliere ed inoltre “obbligherebbe” all’utilizzo di questi, in modo che non solo le visite si allunghino ma anche da far diventare gli operatori sanitari dei tecnici informatici potendo così dedicare meno tempo al paziente.

Le sempre maggiori specializzazioni fanno sì, inoltre, che i pazienti effettuino visite sempre più mirate, in maniera da diminuire le liste di attesa: questo porta dei vantaggi per il paziente che può ricevere una diagnosi più velocemente ed un trattamento altrettanto rapido.

LE NUOVE TECNOLOGIE HANNO QUINDI PORTATO DEI MIGLIORAMENTI?

Dopo tutto quello che è stato detto fino a questo punto si potrebbe dire sicuramente di sì, anche se personalmente non sono pienamente d’accordo.

La tecnologia ci ha portati verso una “strumentalizzazione” di moltissime situazioni della quale molti medici, soprattutto giovani, non saprebbero farne a meno. Si capisce come in una situazione in cui un apparecchio si guasti sia difficile riconoscere dai soli segni clinici lo stato del paziente.

Possiamo fare un esempio. Nel caso il macchinario per l’EGA abbia problemi ed il risultato sia falsato, un occhio non attento a riscontrare i segni clinici del paziente potrebbe trovarsi in difficoltà.

Inoltre, come abbiamo detto sopra, queste tecnologie fanno sì che i medici, ed anche gli infermieri, si specializzino sempre di più (ad es. in deglutidologia l’otorinolaringoiatra). Tutto questo non è “favorevole” se vediamo un paziente con pluripatologia, poiché non deve esserne gestita una sola, quella dello specialista, ma aiutato il paziente come malato nella sua globalità di persona.

In altri casi, però, le tecnologie che vengono usate sono sempre più indispensabili,

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perché sarebbero difficilmente sostituibili con altri metodi. A tal proposito possiamo pensare ad un ventilatore automatico proprio per un malato di SLA, il quale da un certo punto in poi della sua malattia non riuscirebbe più a respirare senza questo ausilio.

Vediamo quindi come la tecnologia che ci accompagna tutti i giorni possa avere due facce contrapposte ma ugualmente importanti. Dobbiamo quindi capire che in senso diagnostico questa deve essere usata solo come supporto, in modo da confermare quelli che sono i segni clinici e non viceversa, mentre in ambito non diagnostico è importante capire quale sia il momento più opportuno per farla intervenire in modo da evitare delle sofferenze inutili sia fisiche sia psicologiche.

CHE RUOLO HA OGGI L'INFERMIERE?

Come abbiamo già potuto vedere il ruolo dell’infermiere ad oggi è notevolmente cambiato, anche se in Italia siamo ancora un po’ arretrati.

L’infermiere potrebbe avere, in una malattia come questa, il compito di seguire il paziente sotto ogni punto di vista.

Si parte dalla pianificazione delle varie visite, delle terapie e dei modi con cui il paziente si deve spostare. Come abbiamo accennato all’inizio, tutto questo è fondamentale per un malato di SLA, poiché col progredire della malattia il paziente è soggetto ad affaticarsi più precocemente ed a muoversi sempre peggio.

Le terapie che deve seguire devono essere programmate in modo da non risultare stancanti per il paziente. Devono essere gestite con i vari impegni in modo da ottenere la maggior compliance possibile da parte del paziente ed una collaborazione più stretta dei familiari che non vedano il loro congiunto solo affaticato.

Per gli spostamenti risulta importante saper comunicare a chi li effettua di quale mezzo necessiti il paziente, ma anche quali ausili servano sia per l’ambiente in cui vive, sia per i presidi che questo si deve portare dietro, spesso vitali.

Da un punto di vista gestionale l’infermiere potrebbe risultare importante anche per il supporto alla famiglia, in modo da insegnare alcune pratiche per migliorare la qualità di vita. Il supporto alla famiglia non sarà solo tecnico, ma anche e soprattutto relazionale:

tutto ciò scaturisce dal fatto che le tecniche vengono apprese velocemente, mentre i

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