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View of Maschere di parole Il mito di Filottete in André Gide e Heiner Müller

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Academic year: 2022

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Texte intégral

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Sintesi

Questo contributo intende analizzare due rielaborazioni novecentesche del mito di Filottete, il Philoctète di André Gide e il Philoktet di Heiner Müller, in rapporto al modello sofocleo. Il saggio consta di due sezioni: la prima, intitolata Mitomorfosi, è incentrata sull’origine del mito, attraverso una disamina delle fonti antiche, e sulla ver- sione accolta e messa in scena da Sofocle. Nella seconda sezione, dal titolo Metamorfosi, si esaminano le due riscritture evidenziando punti di convergenza e inevitabili distanze dal modello antico. Particolare attenzione è riservata al tema della parola ingannatrice e alle potenzialità illusorie del linguaggio, elemento ricorrente e caratterizzante della vicenda. Il mito di Filottete diviene metafora della condizione umana e strumento privilegiato di riflessione filosofica e morale, fornendo al lettore gli strumenti necessari per leggere il presente, pur se ridotto a brandelli irriconoscibili.

Résumé

Cet essai se propose d’analyser les réelaborations contemporaines du mythe de Philoctète réalisées par André Gide et Heinder Müller. Il se compose de deux parties : Mitomorfosi, qui est axée sur l’origine du mythe, sur ses sources anciennes et sur la ver- sion accueillie par Sophocle. La deuxième partie, Metamorfosi, qui prévoit une analyse ponctuelle des deux réécritures, souligne les convergences et les distances inévitables par rapport au modèle ancien. Notre étude, qui développe surtout le thème de la parole trompeuse et de la potentialité illusoire du langage, se propose de lire le mythe de Phi- loctète comme métaphore de la condition humaine, c’est-à-dire comme instrument privilégié de réflexion philosophique et morale, donnant au lecteur les outils indispen- sables pour interpréter la réalité contemporaine.

Sara R

icci

Maschere di parole

Il mito di Filottete in A. Gide e H. Müller

Per citare questo articolo:

Sara Ricci, Maschere di parole. Il mito di Filottete in André Gide e Heinder Müller, in «Interférences littéraires/Literaire interferenties», 17, noviembre 2015, “Le mythe :

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Geneviève FaBRy (UCL) Anke GilleiR (KU Leuven) Agnès GuideRdoni (FNRS – UCL) Ortwin de GRaeF (Ku leuven) Jan HeRman (KU Leuven) Guido latRé (UCL) Nadia lie (KU Leuven)

Michel lisse (FNRS – UCL) Anneleen masscHelein (KU Leuven) Christophe meuRée (FNRS – UCL) Reine meylaeRts (KU Leuven) Stéphanie Vanasten (FNRS – UCL) Bart Vanden BoscHe (KU Leuven) Marc Van VaecK (KU Leuven)

Olivier ammouR-mayeuR (Université Sorbonne Nouvelle -–

Paris III & Université Toulouse II – Le Mirail) Ingo BeRensmeyeR (Universität Giessen)

Lars BeRnaeRts (Universiteit Gent & Vrije Universiteit Brussel) Faith BincKes (Worcester College – Oxford)

Philiep BossieR (Rijksuniversiteit Groningen) Franca BRueRa (Università di Torino)

Àlvaro ceBallos ViRo (Université de Liège) Christian cHeleBouRG (Université de Lorraine) Edoardo costaduRa (Friedrich Schiller Universität Jena) Nicola cReiGHton (Queen’s University Belfast) William M. decKeR (Oklahoma State University) Ben de BRuyn (Maastricht University) Dirk delaBastita (Université de Namur) Michel delVille (Université de Liège)

César dominGuez (Universidad de Santiago de Compostella

& King’s College)

Gillis doRleijn (Rijksuniversiteit Groningen) Ute Heidmann (Université de Lausanne)

Klaus H. KieFeR (Ludwig Maxilimians Universität München) Michael KolHaueR (Université de Savoie)

Isabelle KRzywKowsKi (Université Stendhal-Grenoble III) Mathilde laBBé (Université Paris Sorbonne)

Sofiane laGHouati (Musée Royal de Mariemont) François leceRcle (Université Paris Sorbonne) Ilse loGie (Universiteit Gent)

Marc mauFoRt (Université Libre de Bruxelles) Isabelle meuRet (Université Libre de Bruxelles) Christina moRin (University of Limerick) Miguel noRBaRtuBaRRi (Universiteit Antwerpen) Andréa oBeRHuBeR (Université de Montréal)

Jan oosteRHolt (Carl von Ossietzky Universität Oldenburg) Maïté snauwaeRt (University of Alberta – Edmonton) Pieter VeRstRaeten ((Rijksuniversiteit Groningen)

conseildeRédaction – RedactieRaad

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Lieven d’Hulst (KU Leuven – Kortrijk) Hubert Roland (FNRS – UCL)

Myriam wattHee-delmotte (FNRS – UCL)

Interférences littéraires / Literaire interferenties KU Leuven – Faculteit Letteren Blijde-Inkomststraat 21 – Bus 3331

B 3000 Leuven (Belgium)

comitéscientifique – Wetenschappelijkcomité

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m

ascheRe di paRole

Il mito di Filottete in André Gide e Heiner Müller

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itomoRfosi

« La littérature est bien ce champ plastique, cet espace courbe où les rapports les plus inattendus et les rencontres les plus paradoxales sont à chaque instant possibles»1 scrive Gérard Genette ne L’utopie littérarie, conferendo allo spazio lette- rario due connotati specifici: potenzialità infinita della scrittura e atemporalità deter- minata dall’atto, reversibile e perennemente riproducibile, della lettura. La cultura contemporane non ha mai interrotto il dialogo con il mondo classico, rendendo il mito greco un codice universale, una lente attraverso cui osservare il mondo. Dalla riscrittura imitativa del modello classico, ci si avvia inevitabilmente sul sentiero della reinvenzione: spesso il mito si riduce alla sola vicenda paradigmatica, accennata allusivamente, celata dietro riferimenti criptici; una lettura distorta, se rapportata al modello, ma radicalmente innovativa nella dialettica ineludibile tra passato e pre- sente. È su questo suggestivo sentiero che intendo muovermi per analizzare il mito di Filottete nelle interpretazioni antitetiche di André Gide e di Heiner Müller, che segnano l’inesorabile parabola del personaggio dall’umano all’inumano, dal volto di uomo devastato dal dolore che si interroga sul senso della propria esistenza, in bilico tra il desiderio di vendetta e l’onore di guerriero, alla maschera di pagliaccio alienato che nasconde un teschio rinsecchito e nudo. Obiettivo del mio lavoro sarà individuare, attraverso una lettura comparata dei due testi, la natura del rapporto con le fonti antiche evidenziando le tipicità di riscrittura e rielaborazione del sog- getto. L’approccio è tematico e mira a cogliere analogie e divergenze, rivisitazioni ed interpretazioni, al fine di proporre una lettura critica incentrata sul potere crea- tivo, illusorio e distruttivo della parola. Necessaria ai fini dell’indagine è una breve ricostruzione del modello di riferimento, individuabile nel Filottete di Sofocle. È bene precisare che tale modello non può essere inteso come ‘versione ufficiale’ del mito ma come una delle sue più autorevoli varianti, sintesi mirabile di due tradizioni epiche differenti. Non è questo il luogo per una disputa filologica sulle fonti antiche che per prime hanno dato notizia dell’esistenza dello sfortunato arciere. Per una ricostruzione accurata ed esauriente della tradizione del mito di Filottete basti il pre- zioso lavoro di Guido Avezzù2, tuttora insuperato. Mi pare opportuno accennare, seppur rapidamente, alle testimonianze che permettono di ricostruirne la vicenda in tutte le sue fasi3.

1. Gérard Genette, Figures, Paris, Seuil, 1966, p. 131.

2. Guido aVezzù, Il ferimento e il rito. La storia di Filottete sulla scena attica, Bari, Adriatica Editrice, 1988.

3. Mi attengo alla suddivisione adottata da Avezzù nel succitato saggio: antefatti; abbandono;

reintegrazione; Filottete combattente; ritorno in patria. Questi elementi erano noti ai drammaturghi del V secolo, come si deduce da un inventario dei drammi ispirati alla vicenda che comprende accen-

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Οἳ δ’ ἄρα Μηθώνην καὶ Θαυμακίην ἐνέμοντο καὶ Μελίβοιαν ἔχον καὶ Ὀλιζῶνα τρηχεῖαν, τῶν δὲ Φιλοκτήτης ἦρχεν τόξων ἐῢ εἰδὼς ἑπτὰ νεῶν·ἐρέται δ’ ἐν ἑκάστῃ πεντήκοντα ἐμβέβασαν τόξων εὖ εἰδότες ἶφι μάχεσθαι.

ἀλλ’ ὃ μὲν ἐν νήσῳ κεῖτο κρατέρ’ ἄλγεα πάσχων Λήμνῳ ἐν ἠγαθέῃ, ὅθι μιν λίπον υἷες Ἀχαιῶν ἕλκεϊ μοχθίζοντα κακῷ ὀλοόφρονος ὕδρου ἔνθ’ ὅ γε κεῖτ’ ἀχέων·τάχα δὲ μνήσεσθαι ἔμελλον Ἀργεῖοι παρὰ νηυσὶ Φιλοκτήταο ἄνακτος.

Quelli che abitano Metone e Naumachia E Melibea e la scoscesa Olizone,

le loro sette navi le guida Filottete, l’esperto arciere, e su ciascuna sono imbarcati

cinquanta rematori esperti della battaglia con l’arco.

Ma Filottete giace, soffrendo dolori atroci,

nella sacra Lemno, dove lo abbandonarono i Greci, vittima del morso di un tremendo serpente;

là giace sofferente, ma presto gli Achei

presso le navi si ricorderanno dell’eroe Filottete4.

È l’Iliade ad offrire il primo accenno all’eroe, immortalandolo al comando di una flotta di sette navi, in compagnia dell’inseparabile arco. Apparizione fugace, tuttavia, che immediatamente muta scenario, precipitando Filottete sulla desolata e inospitale riva dell’isola di Lemno, in preda ad atroci dolori, abbandonato da tutti, condannato a un destino di solitudine e sofferenza. Un presagio oscuro chiude la ci- tazione, alludendo al necessario sacrificio che dovrà essere compiuto affinché Troia venga distrutta. Pare quindi che Omero accolga l’episodio del vaticinio di Eleno, motivo presente nel dramma sofocleo e movente del duplice inganno di Odisseo e Neottolemo. Da questi pochi versi nulla si intuisce dell’antefatto, della motivazione del ferimento, della pena straziante a cui l’eroe è sottoposto per volontà del fato.

A riempire questa lacuna, alcuni indizi nei Canti Ciprii, ascrivibili inizialmente ad Omero, malgrado tra i grammatici circolassero varie possibili attribuzioni:

ἔπειτα καταπλέουσιν εἰς Τένεδον. καὶ εὐωχουμένων αὐτῶν Φιλοκτήτης ὑφ᾽ ὔδρου πληγεὶς διὰ τὴν δυσοσμίαν ἐν Λήμνῳ παρεπέμφθη5.

Si accenna a Tenedo come luogo del presunto ferimento, un indizio in più rispetto al passo omerico. Apollodoro e Plutarco aggiungono notizie sul contesto in cui si consuma l’episodio: quando gli Achei approdano sull’isola, protetta dalla

ni alle opere di Eschilo ed Euripide, andate perdute, di cui abbiamo notizia per tradizione indiretta, si veda in particolare l’Orazione LIX di Dione di Prusa contenente una parafrasi del prologo euripideo, frammenti papiracei vari, attribuiti a Filocle ed Acheo, un Filottete a Troia dello stesso Sofocle, di cui possediamo una datazione e pochissimi versi di controversa collocazione.

4. omeRo, Iliade, II, vv. 716-725, Torino, Einaudi-Gallimard, «Biblioteca della Pléiade», 1997, pp. 68-69. (Traduzione di Guido paduano).

5. pRoclo, Crestomazia, 41, 50-51.

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benevolenza di Apollo, incontrano l’opposizione del re Tenes, ucciso da Achille, con il quale aveva un antico contenzioso. In seguito al saccheggio, Apollo minaccia il Pelide e i Greci, che si vedono costretti ad offrire un sacrificio per evitare il peggio.

Il rito deve compiersi a Tenedo o sull’isolotto vicino, nei pressi del simulacro della dea Crise. È questo il luogo in cui il serpente, guardiano del tempio, morde Filottete causandogli una ferita inguaribile dalla quale sgorga incessantemente sangue infetto e maleodorante. Questa è la versione della vicenda accolta e messa in scena da So- focle. Tuttavia, la storia di Filottete non si esaurisce sul ruvido scoglio di un’isola di- sabitata e tetra. Lo stesso Omero, pur con una allusione fulminea, aveva annunciato il ritorno dell’eroe sul campo di battaglia perché solo grazie a lui e al suo infallibile arco si sarebbe realizzata la sospirata distruzione di Troia. Nella Piccola Iliade l’arciere ferito torna a combattere e uccide Paride, dopo l’intervento del guaritore Macaone, figlio di Asclepio. Ma è in Pindaro che il ruolo di Filottete assume un’importanza pari, se non superiore, a quella di Odisseo nella conclusione della guerra. Ancora un cenno in Omero, relativo al felice esito della vicenda dell’eroe:

ὣς ἦλθον, φίλε τέκνον, ἀπευθής, οὐδέ τι οἶδα κείνων, οἵ τ’ ἐσάωθεν Ἀχαιῶν οἵ τ’ ἀπόλοντο.

ὅσσα δ’ ἐνὶ μεγάροισι καθήμενος ἡμετέροισι πεύθομαι, ἣ θέμις ἐστί, δαήσεαι, οὐδέ σε κεύσω.

εὖ μὲν Μυρμιδόνας φάσ’ ἐλθέμεν ἐγχεσιμώρους, οὓς ἄγ’ Ἀχιλλῆος μεγαθύμου φαίδιμος υἱός, εὖ δὲ Φιλοκτήτην, Ποιάντιον ἀγλαὸν υἱόν Giunsi cosi, figlio mio, senza notizie, e nulla so degli Achei, chi si salvò, chi invece scomparve.

Ma quello che ho udito qui, nella mia casa, te lo dirò e tu lo saprai, come è giusto.

Dicono che siano arrivati bene i Mirmidoni intrepidi, sotto la guida del figlio glorioso del nobile Achille.

E bene arrivò Filottete, splendido figlio di Peante6.

La storia di Filottete si conclude con il rientro sicuro in patria, come si ap- prende dalle parole del saggio Nestore, malgrado vi siano versioni discordanti che vedono l’arciere approdare sulle coste dell’Italia meridionale e fondare nuove città.

Una ricostruzione effettuata sulla base di versi poetici, frammenti di varia natura, cenni di grammatici e mitografi, riassunti postumi di opere mai emerse dai mean- dri del passato potrebbe essere tacciabile di imprecisione, se non di inattendibilità.

Ma spesso il passato si presenta in questa forma, frammentaria ed approssimativa, e al filologo, sospeso tra attaccamento al testo e divinazione, spetta il compito di ricostruire il puzzle, rimettere insieme i pezzi in modo da ricomporre un disegno il più possibile riconoscibile. Su questa flebile traccia, fatta di pochi dati certi (il ferimento, l’abbandono, l’arco), Sofocle costruisce una tragedia insolita che rap- presenta un unicum nella sua produzione. Ha un impianto singolare, basato quasi esclusivamente sull’interazione dialettica tra i tre protagonisti, più idonea alla lettura che non alla rappresentazione teatrale. È proprio nel tratteggiare i personaggi che Sofocle affina la sua capacità introspettiva e, in maniera eccezionale per la tragedia

6. OmeRo, Odissea, III, vv.184-190. (Traduzione di Maria Grazia ciani).

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antica, almeno uno di essi si troverà mutato alla fine della vicenda, grazie ad un processo di maturazione interiore inconsueto nella sua drammaturgia. Eroi mono- litici popolano il teatro di Sofocle, integerrimi, chiusi nella loro accettazione del destino di rovina incombente, incapaci di contrastare il fato cieco ed insondabile o il capriccio di una divinità astiosa. Il caso di Filottete è diverso. Eletto nella soffe- renza, predestinato alla grandezza, subisce un lento e profondo cambiamento nello sviluppo dell’azione. Mutamento impercettibile che scava nell’interiorità del perso- naggio fino a stravolgerne i connotati, a trasformare la smorfia sdegnosa di odio in sorriso conciliante. La tensione è tutta nel dialogo serrato tra i personaggi, nelle posizioni inizialmente incomponibili dei due antagonisti (Filottete assetato di odio/

Odisseo ambizioso e opportunista) e nell’ambivalenza di Neottolemo, combattuto tra il desiderio di obbedire al suo comandante per il bene della patria e l’incapacità di tradire la propria natura utilizzando l’arma ingannatrice della parola. È il caso di analizzare il testo nel dettaglio poiché esso costituisce il materiale vivo e pulsante che sarà plasmato da André Gide e da Heiner Müller per ridare voce ai personaggi e nuova linfa alla emblematica vicenda.

Il prologo si apre con l’entrata in scena di Odisseo, seguito da Neottolemo, figlio di Achille. È lui a descrivere il luogo inospitale dove sono approdati e a rive- lare la motivazione, finora segreta, del viaggio. Davanti agli occhi di Neottolemo un triste paesaggio, costituito da una riva desolata e densa di cattivi presagi e una grotta nei pressi di una fonte. Odisseo confessa di avervi abbandonato dieci anni prima l’arciere Filottete, figlio di Peante, a causa dei continui lamenti di lui e di una ferita purulenta che torturava i marinai col suo fetore, impedendo il corretto svolgimento dei riti di espiazione. Odisseo non può mostrarsi direttamente a Filottete, poiché, riconosciuto dall’arciere, verrebbe immediatamente ucciso da una delle sue infal- libili frecce. È quindi Neottolemo l’esecutore materiale dell’ingegnoso piano, una tela sottilissima di parole ingannatrici tese a catturare l’animo rancoroso dell’eroe e a convertirlo alla causa comune. Lo svolgimento sarebbe lineare e probabilmente anche piatto e privo della naturale tensione teatrale se l’animo del giovane figlio di Achille non si turbasse alla vista della grotta fredda e spoglia, il cui unico arredo è costituito da un fetido pagliericcio e una ciotola scheggiata. Pochi elementi che rimarcano, senza bisogno di orpelli dialettici, la solitudine e l’abbandono in cui versa Filottete e il suo progressivo allontanamento dal consesso degli uomini. La crepa nell’animo di Neottolemo è destinata ad allargarsi e a penetrare sempre più profon- damente nella sua coscienza: recalcitrante di fronte ad un Odisseo lucido e pragma- tico che gli impone di ingannare l’arciere per convincerlo a cedere l’arco e a riunirsi alla flotta achea, egli non riesce a sopportare l’idea di rinnegare la propria natura, perché così facendo tradirebbe non solo Filottete, ma anche se stesso e la patria che non merita un eroe indegno di fiducia. Nell’acceso dialogo tra Odisseo e Neottole- mo emerge il primo nucleo tematico fondamentale: il ruolo della parola come arma di persuasione e di inganno. È con le parole e non con la forza che Neottolemo è chiamato a svolgere il compito affidatogli, con altre parole dovrà portarlo a compi- mento, con altre ancora si avrà la misura dell’odio di Filottete al rivelarsi dell’astuto piano di Odisseo.

ἐσθλοῦ πατρὸς παῖ, καὐτὸς ὢν νέος ποτὲ γλῶσσαν μὲν ἀργόν, χεῖρα δ’ εἶχον ἐργάτιν

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νῦν δ’ εἰς ἔλεγχον ἐξιὼν ὁρῶ βροτοῖς τὴν γλῶσσαν, οὐχὶ τἄργα, πάνθ’ ἡγουμένην Figlio di nobile padre, anch’io una volta, da giovane, avevo la lingua impacciata, la mano pronta all’azione;

ormai, fatta esperienza, vedo bene che tra i mortali è la lingua, non l’azione, a governare ogni cosa.7

In pochi versi si condensa la sostanza dell’attrito tra i due: il contrasto tra il passato (lingua impacciata e mano pronta) e il presente (lingua che governa ogni cosa), determinato dall’esperienza vissuta, evoca il radicale mutamento di prospet- tiva filosofica e culturale dell’Atene del V secolo. Il superamento della fase cosmo- logica in favore di una visione antropocentrica, l’importanza del linguaggio e dell’ar- tificio ingannevole, volto alla persuasione e non alla ricerca della verità, l’antitesi tra l’utilitarismo dei sofisti e la riflessione socratica, incentrata al contrario sulla forza morale della parola. Odisseo si mostra spregiudicato e per nulla disposto a tollerare i tentennamenti del giovane. Sulla sua missione grava il peso della necessità inelu- dibile: la sorte dell’esercito greco e gli esiti della guerra di Troia sono nelle mani di Neottolemo, che vorrebbe piuttosto stringere la spada e adoperare la forza che non ingannare con le parole, utilizzando tutti gli espedienti retorici di cui la menzogna dispone. Si percepisce immediatamente il divario tra i due personaggi, la distanza morale che li separa: il ritratto di Odisseo è quello di un uomo cinico, disposto a tutto pur di ottenere risultati, un uomo che mette a tacere la propria coscienza in nome del successo, dell’ambizione, uno che adatta la propria morale alle circostanze, compiacendosi della propria intelligenza e capacità di sopravvivenza. Neottolemo è un giovane idealista, che non ha ancora una storia alle spalle (non ha, ad esempio, alcun epiteto che non sia patronimico, segno evidente di inesperienza) e che non vuole macchiarsi di un crimine ritenuto vile e disonorevole da suo padre. Nutre vaghe ambizioni che tuttavia non intende perseguire se non con i mezzi ‘canonici’:

il valore sul campo di battaglia, la forza delle armi, il coraggio e la dedizione alla patria. È su questo ultimo punto che fa leva Odisseo per convincerlo ad agire: a lui è stato affidato il compito di salvare l’esercito, conquistando con l’inganno l’unico oggetto in grado di mutare le sorti della guerra: l’invincibile arco che Filottete ha ereditato da Eracle, le cui frecce infallibili decimeranno i troiani costringendoli alla resa. Si inscena quindi una parentesi metateatrale, in cui Neottolemo recita la parte assegnatagli dall’astuto manovratore: dovrà presentarsi a Filottete come un diser- tore imbevuto di odio contro i Greci e contro Odisseo, reo di avergli rubato le armi del padre ucciso, sua incontestabile eredità. Tanto più malevolo e adirato si mostrerà agli occhi dell’arciere, tanto più rapidamente egli sarà persuaso della sua buona fede.

Ancora una volta è la parola a costruire una realtà inesistente, utile alla situazione come sanno esserlo solo le trame immaginarie ben ordite. L’ingresso in scena di Filottete è preceduto dai suoi lamenti e dal rumore sordo del suo piede malato, trascinato a fatica. Il coro di marinai che per primo annuncia l’arrivo del figlio di Peante è turbato dai gemiti che sente giungere in lontananza e dal miserevole aspetto dell’arciere, vestito di stracci consunti. I timori generati dalla descrizione di

7. soFocle, Filottete, Milano, Mondadori, «Fondazione Lorenzo Valla», 2003, a cura di Guido aVezzù e Pietro pucci, traduzione di Giovanni ceRRi, vv. 96-99. (Tutte le citazioni che seguiranno saranno tratte da questa edizione; pertanto riporteranno esclusivamente la segnalazione dei versi in esame).

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Odisseo (Filottete assetato di vendetta, gonfio d’ira contro i Greci, pronto ad ucci- dere chiunque gli si avvicini) non trovano riscontro nell’apparizione di un personag- gio sofferente e desideroso di infrangere la sua solitudine disperata. L’incontro con Neottolemo capovolge la prospettiva vendicativa e rancorosa, spostando l’atten- zione sulla lingua greca, riconosciuta dall’esule, e sulla nostalgia di Filottete per la sua terra natale. La voce del giovane innesca una catena di ricordi che predispone l’animo dell’arciere all’accoglienza dell’ospite.

ἰὼ ξένοι·

τίνες ποτ’ ἐς γῆν τήνδε ναυτίλῳ πλάτῃ κατέσχετ’ οὔτ’ εὔορμον οὔτ’ οἰκουμένην;

ποίας πάτρας ὑμᾶς ἂν ἢ γένους ποτὲ τύχοιμ’ ἂν εἰπών; σχῆμα μὲν γὰρ Ἑλλάδος στολῆς ὑπάρχει προσφιλεστάτης ἐμοί φωνῆς δ’ ἀκοῦσαι βούλομαι.

Stranieri,

chi siete mai, voi che approdaste a forza di remi a questa terra priva di porto, disabitata?

Di quale patria, di quale stirpe mai posso chiamarvi? Si nota la foggia dell’abito greco, tanto cara al mio cuore!

Vorrei sentire la vostra voce.8

La lingua in questo momento è ancora patrimonio comune, non si connota negativamente poiché il messaggio che reca è neutro. Si tratta del primo contatto umano dopo dieci anni di esilio forzato, il desiderio di incrociare nuovamente un volto è tale da cancellare nell’animo di Filottete, per qualche istante, l’odio per i Greci che lo hanno colpevolmente abbandonato alla sua triste sorte. Il colloquio con Neottolemo è intriso di commozione ed empatia: i due condividono l’astio nei confronti di Odisseo, il primo provando un sentimento profondo e radicato per l’offesa ricevuta; il secondo simulando convenientemente un odio insincero.

L’incontro produce un progressivo mutamento nell’animo di Neottolemo, diviso tra la compassione per Filottete e la necessità di utilizzarlo a qualsiasi costo come strumento di salvezza. Ai ricordi degli eroi caduti in guerra si somma l’amarezza per la sorte del nobile figlio di Peante che lo implora di non abbandonarlo nuo- vamente in quel luogo desolato e inospitale. Mentre fervono i preparativi per la partenza, giunge in ambasceria un falso mercante, ulteriore ingranaggio della ben orchestrata beffa: costui annuncia, dopo molte resistenze, che Odisseo sta giun- gendo con una flotta a recuperare con la forza Filottete e il suo arco e a riportare entrambi sul campo di battaglia. Rende nota la profezia di Eleno e si accomiata lasciando l’arciere in ambasce: preferirebbe la morte piuttosto che essere costretto a seguire l’uomo che più detesta al mondo. Non resta che partire, e in fretta. Ma un nuovo attacco del male inesorabile lo costringe a fermarsi e ad affidare l’arco e le frecce alle cure di Neottolemo. Divorato dal dolore, Filottete cade in deli- quio dopo essersi abbandonato a urla strazianti ed imprecazioni impronunciabili.

Mentre giace privo di coscienza, Neottolemo ha un acceso dibattito con il coro di

8. soFocle, Filottete, vv. 219-225.

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marinai, che lo invita ad approfittare del momento propizio per compiere la mis- sione senza intoppi. L’esitazione è fatale: l’arciere si risveglia e Neottolemo non riesce più a mentire, rivelandogli il piano di Odisseo in ogni dettaglio e cercando di utilizzare la parola come “medicamento dell’anima”, strumento per recuperare la fiducia tradita. Filottete è furente e a nulla valgono le rassicurazioni, le pro- messe di guarigione, il presagio di un futuro di grandezza. Si rende necessario l’intervento di Odisseo che, con astuzia e cinismo, mette l’eroe di fronte alla realtà: privo dell’arco morirà di stenti, non essendo più in grado di procurarsi del cibo. Dunque gli conviene deporre l’ira e ragionevolmente obbedire ad una volontà superiore, rappresentata dal vagheggiato fantasma di una patria disposta a riaccoglierlo. La situazione è pietrificata: Odisseo non si smuove dal proposito di portare a termine ad ogni costo la missione, mettendo addirittura in conto l’uso della violenza. Filottete preferisce abbandonarsi a una morte ingloriosa piuttosto che tornare a casa, nuovamente ingannato dal suo antico nemico. È Neottolemo a sconvolgere ancora una volta i pianis, decidendo di disobbedire al suo coman- dante e restituire l’arco a Filottete. Il suo intento è cercare di convincerlo con parole sincere a imbarcarsi volontariamente per la salvezza sua e della patria. Ma la fiducia tradita alimenta i sospetti, mentre minacciosa grava sul giovane figlio di Achille l’ira dell’intera flotta guidata da Odisseo. Al culmine della tensione dram- matica appare Eracle, deus ex machina, che annuncia a Filottete il destino che lo attende, prefigurando un futuro glorioso e libero dai mali. Il dramma si conclude con un’immagine di speranza, in cui l’eroe saluta l’isola, soffermandosi su ogni angolo, la grotta, i campi, il promontorio da cui disperato scrutava l’orizzonte in attesa che qualcosa accadesse. C’è una volontà superiore alla patria stessa, in- carnata dalla divinità a cui non si può disobbedire, nell’universo drammaturgico di Sofocle. Il tema della necessità di un atto da compiere con qualsiasi mezzo trova una sua giustificazione morale in una dimensione che è al di là delle mise- rie umane. Filottete è costretto nuovamente a piegarsi al destino, come quando, dieci anni prima, aveva accettato il ferimento e l’abbandono. Ma lo fa con uno spirito rinnovato, con il desiderio di essere nuovamente utile e di ricongiungersi con l’umanità, dimentico del passato. Odisseo si mostra in tutta la sua immoralità, poiché la missione sarà portata a termine grazie alle sue trame e poco importa se le remore di un giovinetto erano sul punto di far precipitare la situazione. È l’uomo adatto alle circostanze e il suo cinismo lo conferma. Neottolemo è il solo a crescere in questa avventura, avendo fatto esperienza del potere inganna- tore della parola e delle infinite potenzialità dell’astuzia umana. La peculiarità del dramma sofocleo sta nell’apparente linearità dell’azione. Sembra quasi che non accada nulla, la trama è esteriormente statica, preludio metaforico alla staticità dei personaggi. È nello scontro tra opposte morali, tra personaggi che usano la parola in modi completamente diversi e con obiettivi palesemente differenti che si innesca l’azione drammatica. Questa atmosfera sospesa, l’apparente immobilità, fissano in una dimensione atemporale la vicenda mitica, creando i presupposti per future rivisitazioni.

m

etamoRfosi

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Siamo lontani dalla riva scoscesa dell’isola di Lemno, dagli erti scogli aguzzi su cui Filottete trascinava stancamente i suoi giorni in attesa della fine. André Gide catapulta il lettore in un’atmosfera rarefatta, tersa, delineata in pochi tratti essenziali da una rapida didascalia: «ciel gris et bas sur une plaine de neige et de glace»9, ponen- dolo di fronte ad una delle più ardite e complesse varianti contemporanee del mito.

Pur avendo una struttura drammaturgica distinta in atti e scene, non si tratta di un testo pensato per il teatro, come precisa lo stesso autore in una nota preliminare al testo: «Philoctète n’a pas été écrit pour le théâtre. C’est un traité de morale, que je joins à ces autres traités, pour mieux montrer qu’il n’a pas de prétentions scéniques.

Philoctète a paru dans la Revue Blanche du Ier décembre 1898»10. La pièce si apre con Néoptolème pronto al sacrificio: l’avvicinarsi all’isola di ghiaccio, presaga di morte e desolazione, lo ha prostrato al punto da fargli credere che il silenzio di Ulysse, du- rante il viaggio, sia dovuto alla sua imminente morte. Ben presto apprende che il suo dovere è un altro e ben più difficile che morire. Dovrà convincere Filottete a cedere l’arco e a rientrare in patria al loro seguito. Il modello sofocleo appare nei suoi tratti essenziali, rispettando l’identità dei personaggi e la loro caratterizzazione. Non insi- sterò sulla trama, soffermandomi invece sulle varianti che Gide propone. Sfumature impercettibili a una lettura superficiale, che tuttavia celano allusivamente ben altro messaggio. Innanzi tutto si rileva una strana sensazione di pace, che pervade gli ani- mi dei personaggi, malgrado siano agitati da passioni discordanti. Il primo elemento distintivo del testo gidiano è la conversazione tra i tre che si sviluppa, in maniera del tutto pacifica e amichevole, nel corso del secondo atto. Sono tutti seduti, Philoctète racconta di sé e della sua esistenza negli ultimi dieci anni, afferma di non lamentarsi più per la ferita poiché nessuno avrebbe potuto ascoltare e comprendere il suo do- lore. Il suo percorso di solitudine e allontanamento dal mondo lo ha trasformato in un eremita, dimentico dei desideri terreni, alla ricerca della perfezione e della bellez- za del pensiero. L’odio che animava il personaggio sofocleo è del tutto scomparso, nessuna traccia emerge, pur sollecitata dall’atteggiamento sprezzante e sarcastico di Ulysse. È come se Gide volesse mettere a nudo ciò che nel testo sofocleo resta necessariamente implicito: il mondo interiore dei personaggi, il loro rapportarsi alla società, alla religione, alla spiritualità. Sono due modelli antropologici a con- frontarsi nell’incontro tra Philoctète e Ulysse, due opposte visioni del mondo. Da una parte l’uomo perfettamente integrato nella società, che adatta la sua morale alla convenienza, abbracciando se necessario valori spesso antitetici. Dall’altra l’uomo isolato che ha rinunciato al mondo (perché il mondo per primo ha rinunciato a lui, relegandolo sull’isola) e che non sente più il vincolo della patria, non percepisce più i confini che identificano il suo popolo, non sente più necessari gli orpelli che lo avevano in passato incatenato a un’idea limitante e ristretta di appartenenza sociale.

Philoctète afferma di sentirsi di giorno in giorno meno Greco e più uomo, grazie all’isolamento in cui è maturata la sua riflessione esistenziale.

Je m’exprime mieux depuis que je ne parle plus à des hommes. Mon occupa- tion, entre la chasse et le sommeil, est la pensée. Mes idées, dans la solitude, et comme rien, même la douleur, ne les dérange, ont pris un cours subtil que par- fois je ne suis qu’avec peine. J’ai compris sur la vie plus de sécrets que ne m’en avaient révélé tous mes maîtres. […] Je compris que les mots sont plus beaux

9. André Gide, Philoctète, in Le retour de l’enfant prodigue précédé de cinq autres traités, Paris, Gallimard, 1948, p. 103.

10. Ibid., p. 102.

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dès qu’ils ne servent plus aux demandes. N’ayant plus, près de moi, d’oreilles ni de bouches, je n’employais que la beauté de mes paroles.11

La bellezza della parola, l’importanza del pensiero, la luminosità dell’idea.

Sono queste le intuizioni del personaggio gidiano, discostatosi dal Filottete sofocleo che nella parola ritrovava dolorosamente solo menzogna e inganno. Ma è una parola differente da quelle che pronuncia Ulysse, che Gide tratteggia accentuandone i tratti sarcastici e caustici. Diversa dalle parole confuse con cui vengono formulate le ansiose domande di Néoptolème: una parola fatta di una sostanza luminosa e tersa, talmente pura da risultare incomprensibile.

Ici, rien ne devient, Ulysse: tout est, tout demeure. Enfin, l’on peut ici spéculer!

[…] Et mes actes, Ulysses, et mes paroles, comme gelées, permanent, m’en- tourent comme un cercle de roches posées. Et les rétrouvant là, chaque jour, toute passion se tait, je sens la Vérité toujours plus ferme – et je voudrais mes actions de même toujours plus solides et plus belles; varies, pures, cristallines, belles, belles, Ulysse, comme ces cristaux de clair givre, où, si le soleil paraissait, le soleil tout entier paraîtrait au travers. Je ne veux empêcher aucun rayon de Zeus; qu’il me traverse, Ulysse, comme un prisme, et que cette lumière réfractée fasse mes actes adorables. Je voudrais parvenir à la plus grande transparence, à la suppression de mon opacité, et que, me regardant agir, toi- même sent la lumière…12

Nel confronto dialettico con Ulysse, l’arciere ha la misura netta del solco che divide le sue aspirazioni individuali dagli interessi che muovono la società. Una consapevolezza che, lungi dall’inasprire i contrasti e dal rinfocolare l’astio sopito, si rinsalda grazie alla distanza siderale da cui il personaggio osserva il mondo circos- tante. La luce permea lo sguardo di Philoctète, una luce che evoca astrazione, rarefa- zione, purezza cristallina. L’ascesi mistica del personaggio ha raggiunto un livello tale di elevazione che l’arciere sembra quasi perdere consistenza materica, dissolvendosi in raggi luminosi di fronte agli occhi dei suoi interdetti interlocutori. Inutile dire che l’uscita brusca di scena di Ulysse testimonia, come se ve ne fosse ulteriormente bisogno, l’inconciliabilità delle posizioni. Non c’è possibilità di confronto tra i due, non resta che il silenzio a sancire la frattura. In questa atmosfera iniziatica, un ruolo importante riveste Néoptolème, l’allievo che ha eletto Philoctète a suo maestro di vita. Pur essendo stato istruito da Ulysse al rispetto dei valori tradizionali (gli dei, l’ordine, il sacrificio per la patria), egli è colpito dalla visione del mondo dell’eremita che, adoperando parole seducenti (ma non ingannevoli), fa intravedere al giovane orizzonti umani inesplorati e, per certi versi, di difficile comprensione. Nella solitu- dine desolata dell’isola di Lemno, Philoctète ha maturato un ideale di religiosità in cui appare dissolto il nesso – tipico del politeismo – tra il piano divino e la realtà so- ciale e politica di un determinato ethnos. La sua è una percezione universalistica della religione: le divinità vagheggiate dall’eroe travalicano i confini della Grecia, agendo nell’universo illimitato. A ciò si aggiunga l’intuizione rivoluzionaria di un qualcosa che è al di sopra della divinità stessa, un principio superiore trascendente che è mosso dal desiderio irresistibile e tutto umano di andare oltre. Il tema della virtù anima la conversazione tra allievo e maestro, una conversazione sospesa, fatta di interruzioni, sincopi, singulti. Una spiegazione complessa che la mente del giovane

11. Ibid., pp. 121-122.

12. Ibid., pp. 125-126.

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non può ancora pienamente afferrare. Il senso delle parole dell’arciere, quell’osses- sivo se dévouer, ripetuto e meditato, turba nel profondo l’animo di Néoptolème, poi- ché comprende che il maestro non gli sta indicando la via del sacrificio per la patria o per la volontà degli dei (motivazioni razionali accettabili), ma per qualcosa di ineffabile, di inconoscibile, di indistinguibile. Un qualcosa che il pragmatico Ulysse riduce a nulla, interrompendo le speculazioni filosofiche del giovane e riportandolo alla realtà: l’urgenza di compiere il proprio dovere, somministrando a Philoctète un flacone di sonnifero. Il dibattito sulla virtù precipita nella sfera della necessità e dalle parole alate dell’eremita si giunge alla concretezza rude e sbrigativa di Ulysse.

S’il vit, ainsi, seul dans cette île, je te l’ai bien prouvé, c’était pour délivrer l’ar- mée de ses gémissements et de sa puanteur; c’est là son premier dévouement;

c’est là sa vertu, quoi qu’il en dise. Sa seconde vertu, ce sera, s’il est vertueux, de bien consoler, quand il aura perdu son arc, en songeant que c’est pour la Grèce. Quel autre dévouement s’imagine, qui ne soit pas pout la patrie? Il attendait, vois-tu, vinssions l’offrir… Mais, comme il pourrait refuser, mieux nous vaut forcer sa vertu, lui imposer le sacrifice – et je crois plus prudent de l’endormir. Vois ce flacon…13

Il rifiuto del mondo umano, la proiezione salvifica in una dimensione in cui l’uomo appaia integrato nel cosmo sono alcuni dei tratti distintivi della riscrittura gidiana del mito. Quando Philoctète decide di bere spontaneamente il flacone di sonnifero non commette un atto di resa ma di radicale ribellione. Egli ambisce alla libertà assoluta, una libertà impossibile finché sarà in possesso dell’arco, ultimo vincolo con la società degli uomini. L’eroe sceglie di farsi privare dell’unico oggetto che lo rende ancora desiderabile agli occhi del mondo. Non c’è spazio per alcuna epifania, nessun Eracle scenderà dal cielo ad esortare il personaggio ad assogget- tarsi ai voleri del fato. Non c’è alcuna ricerca di gloria nel sonno autoindotto che consentirà a Ulysse e Néoptolème di salpare con il prezioso carico, abbandonando nuovamente l’arciere al suo destino. Quando, al risveglio, dalla rupe Philoctète vede allontanarsi per sempre la nave dei greci, un intimo moto di felicità lo pervade, diffondendosi nell’ambiente circostante.

Ils ne viendront plus; ils n’ont plus d’arc à prendre… - Je suis heureux.

[Sa voix est devenue extraordinairement belle et douce: des fleurs autour de lui percent la neige, et les oiseaux du ciel descendent le nourrir]14.

Il paesaggio ghiacciato e spoglio che aveva accolto il lettore si trasforma poco a poco. A fungere da deus ex machina la natura che si autorigenera e che resiste alle avversità. Philoctète ha raggiunto la felicità suprema, coincidente con il mistico allontanamento dal mondo umano. Egli è proiettato altrove, in una dimensione diffe- rente, luminosa, in cui le parole sono bellezza, purezza, perfezione.L’universo mitico gidiano non si esaurisce nella citazione, nell’allusione o nella mera evocazione del modello classico; il testo appare pervaso da una silenziosa corrente ironica che scava in profondità, emergendo a tratti con evidenza tale da spezzare il legame con la tradi- zione classica attraverso un lento processo di ‘erosione’ che intacca forma e sostanza, mutandone profondamente senso e aspetto. L’uso stesso di generi letterari ambigui (teatro ‘da camera’, sotie, diario), in cui gli elementi essenziali progressivamente acqui-

13. Ibid., pp. 136-137.

14. Ibid., p. 145.

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siscono una nuova connotazione, rende l’esperimento gidiano anomalo, unico, irri- petibile. Questo ‘labirinto ludico’15 mostra al lettore un percorso irto di vicoli ciechi, di illusorie soluzioni, di improvvise inversioni e impercettibili ma sostanziali capovol- gimenti. Ciò che emerge dalla lettura del Philoctète (ma il discorso si allarga alla pro- duzione di ispirazione mitologica gidiana, penso ad esempio al Prométhée mal enchaîné o alle curiose apparizioni di Tityre in Paludes) è il sapiente gioco ironico, qui ibernato nella gelida isola di ghiaccio e plasmato in forma di flacone di sonnifero, ben mise- revole fine per il granitico eroe da cui dipendono le sorti della guerra. L’inversione parodica ridimensiona le istanze universalistiche del mito greco, adattandole al pre- sente; in questo passaggio brusco, tuttavia, il paradigma mitico non perde nulla della sua potenza evocativa, acquisendo al contrario un senso vivo, pulsante, tangibile. È un sorriso sornione quello che Gide rivolge al lettore, invitandolo al gioco degli specchi, alla sfida di identificazione con i suoi personaggi dai tratti così segnatamente umani.

Non più distanze siderali, abissi di tempo inesorabilmente trascorso, ma la vita, solo la vita, con le infinite varianti di un dissidio perennemente insoluto. Ironia che recupera la sua matrice etimologica di ricerca incessante, necessaria, vitale, che non sempre approda alla meta, accogliendo la possibilità di restare con una tessera mancante, uno spazio vuoto nel puzzle incompiuto e sospeso dell’esistenza. Il fine è il gioco della scrittura, l’atto gratuito capace di generare innumerevoli conseguenze, esiti inattesi e multiformi. Torno allo spazio curvo di Genette, al luogo in cui gli incontri più anacro- nistici sono costantemente possibili, dove l’atemporalità della dimensione mitica non si intride di misticismo ma si spoglia di quell’aura di sacralità per vestire nuovi panni, dimessi forse, ma più consoni ad affrontare il viaggio in un mondo frammentato e sconvolto su cui grava il peso dell’insensatezza. Il gioco è l’ultima speranza, l’ultimo atto di dissenso, l’unica soluzione plausibile ad un quesito privo di logica.

Abbandoniamo queste atmosfere per piombare nel cupo universo mülleria- no, denso di atrocità senza speranza. Il modello sofocleo ritorna prepotentemente in tutti i suoi astiosi contrasti, accentuati da un senso di impotenza di fronte alla Sto- ria di cui i personaggi non sono che ingranaggi infinitesimali. La distanza tra le due rielaborazioni non potrebbe essere più netta: se nel testo gidiano si prospetta una forma di apoteosi dell’eroe che si proietta in una dimensione astrale, sorvolando la meschinità della condizione umana ed entrando in totale sintonia con l’universo, la pièce di Müller precipita il lettore in una dimensione infernale, sulfurea, in cui l’azione si dipana attraverso feroci contrasti, lotte intestine, in uno scenario di tetra desolazione. Anche il linguaggio riflette questa abnorme distanza: la musicalità spic- cata, le parole delicate e poetiche, la morbidezza dei suoni orchestrati con maestria da Gide si mutano in dissonanza irrisolta, in eloquio intriso di cruente metafore, di espressioni cupe e violente, di parole aguzze che si conficcano nelle carni del nemico-interlocutore. È una guerra sottintesa che travalica la vicenda paradigmatica del recupero dell’arco. Tutti contro tutti in un mondo irreversibilmente sconvolto, i cui frammenti impazziti sono trascinati via dalla corrente della Storia. Tuttavia un punto di contatto c’è, ed è il luogo in cui si svolge interamente l’azione: l’isola di Lemno, oltre la quale nulla è pensabile, neppure l’ipotizzato ricongiungimento dell’ar- ciere all’esercito acheo. In Sofocle lo si intuisce dai felici indizi in chiusura (l’epifania di Eracle e la decisione di Filottete di tornare sul campo di battaglia); nelle due riscrit- ture in esame il ritorno tra gli uomini è impossibile. La trama del dramma mülleriano

15. Cf. Bertrand Fillaudeau, L’Univers ludique d’André Gide, Paris, José Corti, 1985.

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non si fonda tanto sulla dinamica delle azioni, quanto piuttosto sullo scatenarsi di pulsioni primordiali che influenzano il comportamento dei personaggi (sete di ven- detta, volontà di sopraffazione, odio reciproco) e la lingua, lungi dall’essere sofisti- cata arma della menzogna, è pugnale che ferisce, lancia che si conficca nel corpo del nemico. Una lingua priva del potere dell’ambiguità ma forte della sua carica violenta ed aggressiva. Lo schema è quello ormai familiare del modello sofocleo, tuttavia vi sono rilevanti divergenze: in primo luogo l’uccisione di Filottete da parte di Neotto- lemo e la sequenza finale in cui, scivolando nel grottesco, il corpo dell’arciere diviene protagonista di un ultimo e beffardo inganno. Dapprima seppellito sotto un cumulo di pietre, per evitare che i corvi ne facciano scempio, viene dissotterrato per fungere da testimonianza concreta di un avvenimento mai accaduto. Di Filottete si dirà che è stato ucciso dai componenti di una delegazione troiana e che, obbedendo ad uno slan- cio di amor di patria, ha perso la vita nello scontro impari con essa. Quanto all’arco, è stato recuperato sulla spiaggia, accanto al cadavere, dal provvidenziale intervento di Odisseo e Neottolemo che hanno messo in fuga gli assassini. La struttura della pièce è completamente diversa: l’azione si sviluppa in atto unico preceduto da un breve prologo che offre al lettore la chiave di lettura dell’intera vicenda. Entra in scena un personaggio che interpreta Filottete e che tuttavia indossa una maschera di clown.

In questo gioco di specchi e di identità sovrapposte è chiaro fin dal primo momento che siamo di fronte a una finzione scenica che impone allo spettatore di limitare la partecipazione emotiva e l’identificazione con i personaggi e a guadagnare la distanza necessaria per giudicare criticamente quanto sta per avvenire sul palcoscenico.

(Darsteller des Philoktet, in Clownmaske.) Damen und Herren, aus der heutigen Zeit Fuhrt unser Spiel in die Vergangenheit

Als noch der Mensch des Menschen Todfeind war Das Schlachten gewonlich, das Leben ein Gefahr.

Und daί wirs gleich gestehn: es ist fatal Was wir hier zeigen, hat keine Moral

Furs Leben konnen Sie bei uns nichts lernen.

Wer passen will, der kann sich jetzt entfernen.

(Saalturen fliegen auf.) Sie sind gewarnt.

(Saalturen zu. Der Clown demaskiert sich: sein Kopf ist ein Totenkopf.) Sie haben nichts zu lachen.

Bei dem, was wir jetzt miteinander machen.

(Interprete di Filottete con maschera di clown)

Signore e signori, il nostro gioco ci porta dalla gloria Del presente indietro nella storia.

Quando ancora l’uomo dell’uomo era nemico mortale La vita un pericolo, il massacro usuale

Confessiamolo subito: è fatale

Quel che mostriamo qui è senza morale.

Per la vita da noi nulla potete imparare Chi vuole, se ne può ancora andare.

(Le porte della sala si spalancano)

(15)

Siete avvertiti.

(Le porte si richiudono. Il clown si toglie la maschera. La sua testa e un teschio) Per voi niente da ridere ci sarà

Con quel che insieme si farà16.

Il clown è colui che scorta il lettore/spettatore in un sentiero che ripercorra la storia a ritroso, dal presente scenico a un passato, remoto e lontano, in cui la rivalità tra gli uomini e la guerra erano consuetudini e la barbarie trionfava sulla civiltà. Non è un passato da prendere a modello, poiché, come dice lo stesso personaggio, è fatale che la storia non abbia una morale. Alla fine dell’apostrofe, il clown getta la maschera rivelando allo spettatore un teschio nudo e scarnito. Un presagio di morte che sin dall’inizio funge da monito, da cappa oscura che si addensa sui personaggi, permean- doli totalmente al punto da innescare tra essi un sapiente jeu de massacre, cifra stilistica che invade ininterrottamente il testo. Siamo entrati in una stanza degli orrori, in cui i valori su cui si fonda una società civile sono scomparsi, lasciando spazio a pulsioni distruttive e mortifere. Non ci sono divinità, nessuno spazio per la pietas, malgrado alcune deviazioni fugaci (la commozione di Filottete nell’udire dopo tanti anni la sua lingua madre e il pentimento di Neottolemo che, dopo aver adoperato l’inganno per sottrarglielo, restituisce l’arco all’eroe). Nessun cambiamento interiore interviene a mutare l’esito delle azioni dei personaggi. Sembra si torni alle monolitiche figure del teatro tragico antico, agli immensi eroi sofoclei che accettano e si annullano nel pro- prio destino di fallimento e sottomissione al destino. Figure che vengono esasperate nell’immaginario mülleriano, segnando ancor più netta la distanza dal modello antico.

E la lingua, che aveva rappresentato un motivo unificante, diviene in bocca a Filottete arma di offesa. L’attacco a Odisseo sprofonda in una volgarità senza freni, esaspe- rando i toni già naturalmente esacerbati dell’invettiva:

Hundherziger Lügner kotmauliger Hund Gezeugt im Schweinepfuhl von einem Satyr Der mit dem Eber um die Wette sprang Geworfen auf dem Mist von einer Stallmagd Wo ihn ein König auflas, der nach Wein stank Erbrach sich über ihm und las ihn auf Gekrönt mit Schweinekot, gesalbt mit Galle.

Bugiardo dal cuore di cane, cane con muso di merda Generato in un porcile da un satiro

Che ha conteso una troia a un maiale E buttato sul brago da una serva di stalla Dove un re puzzolente di vino lo raccolse Vomitandogli addosso per incoronarlo con sterco di porco, unto di bile17.

È un mondo di follia e alienazione quello in cui si muovono i personaggi di Müller. Il circo demenziale incarnato dal clown lascia intendere che forse quel passato remoto è giunto, sotto mentite spoglie, a popolare il presente, dominato dall’eterno

16. Heiner MHeiner MülleR, Philoktet, Frankfurt Am Main, Suhrkamp Verlag, 2000, p. 7. (Traduzione mia).

17. Ibid., p. 28. (Traduzione mia).

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conflitto che oppone l’uomo all’uomo. In questo universo sconvolto ha un senso che sia proprio Neottolemo a uccidere Filottete: il giovane che aveva avuto un moto di pietà, recupera il suo cinismo tutto umano e agisce mosso da un imperativo immorale. Non è la gloria a fungere da richiamo irresistibile, ma l’istinto di sopravvivenza che regola le azioni dei personaggi, ridotti a pura bestialità. È in tale prospettiva che viene totalmente rimosso il tema del ritorno dell’eroe e del possibile ricongiungimento con il mondo.

Se in Gide l’ascesi mistica consente a Philoctète di intuire il vero senso dell’esistenza umana, in Müller questo senso è negato, soffocato nel sangue, nella crudeltà e nella violenza. L’assenza della divinità rappresenta l’impossibilità di garantire un ordine in un mondo stravolto dalla Storia: nella rielaborazione gidiana lo scenario politico è messo da parte per accentuare l’importanza del cammino interiore di rigenerazione che l’uo- mo compie per sentirsi nuovamente parte del tutto. Il dramma mülleriano rivela ama- ramente, attraverso lo scontro ineludibile tra interessi di segno opposto, l’impossibilità di risolvere questa feroce tensione dissonante. Ed è un fallimento politico, oltre che storico e umano, ad essere messo in scena dal drammaturgo tedesco. Il crollo di ogni possibile speranza. Ciò che resta del mito di Filottete è condensato nell’isola di Lemno, luogo in cui le pulsioni umane esplodono in modo incontrollabile. Non siamo di fronte a un semplice calco dell’ambientazione originaria, in Müller l’isola sembra quasi acqui- sire l’aspetto di ultimo scoglio di un mondo ormai sommerso da sangue e violenza;

uno scoglio che diviene teatro di atrocità dettate dall’istinto di sopravvivenza, da una

΄ανάγχη cieca e sorda che esalta e amplifica la ferinità dei personaggi. Paradossalmente, è proprio questa estremizzazione a rendere il senso della pièce più tangibile: dagli impal- pabili personaggi gidiani si arriva alla matericità di carne e sangue delle maschere del tea- tro muelleriano. Alla cifra stilistica dell’ironia si sostituisce un sarcasmo acido, corrosivo, capace di sfigurare i tratti, inasprire le voci, intridere le parole di veleno, precipitare let- tori e spettatori in un inferno cupo e grottesco da cui nessuno può fuggire poiché non esiste speranza di redenzione, non c’è un aldilà al quale aspirare e neppure un aldiqua a cui tornare inseguendo il mito – irrealizzabile ed illusorio – di una perduta età dell’oro.

In questo senso l’interpretazione muelleriana assume una sfumatura di atemporalità di- versa; non più un modello classico capace di attraversare i secoli e dire parole nuove, ma una prigione eterna nella quale l’umanità è rinchiusa senza alcuna possibilità di uscita.

Il mito di Filottete diviene metafora della condizione umana, perennemente sospesa tra pulsioni contraddittorie; un mito che non ha ancora esaurito le proprie po- tenzialità poiché, pur basandosi su elementi minimi (pochi personaggi, ambientazione unica, azione lineare), tocca i nodi fondamentali dell’esistenza umana, individuale e collettiva. Un mito sospeso nel tempo e nello spazio che nella parola rinnova la sua essenza. Linguaggio estremo, universale, eterno che permette ancora di percepire in lontananza una rassicurante eco, di essere parte di un immaginario collettivo, pur se smembrato, oltraggiato, ridotto in macerie trascinate via dalla corrente.

Sara Ricci Università degli studi di Bari «Aldo Moro»

Dipartimento di Studi umanistici sararicccp@gmail.com

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