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Nelle prime pagine de Il tremaio (1986), Meneghello si propone di spiegare l’uso letterario di dialetto e italiano in Libera nos a Malo. Il denominatore comune in questo intarsio di lingue è sicuramente l’esperienza dell’autore la quale, in effetti, diventa il principio della sua argomentazione:

Devo darvi anzitutto qualche ragguaglio biografico, sempre sotto il profilo linguistico, si capisce. […]

La mia infanzia è trascorsa in un ambiente interamente dialettofono: a casa mia e attorno a me si parlava esclusivamente dialetto, il dialetto del mio paese che è una variante del dialetto vicentino. […]

Ambiente dialettofono, dunque, nel quale l’italiano si imparava quando si andava a scuola, a cinque, sei anni. Non c’erano traumi. Avevamo già una certa esperienza dell’italiano. Erano in italiano, per esempio i titoli dei giornali che

italiano innumerevoli altre parole e frasi che ci arrivavano attraverso i canali della vita e della cultura urbane (Meneghello et al., 1986:16)

Accanto a fatti ben noti, come ad esempio l’infanzia trascorsa in un ambiente dialettofono, dalle parole di Meneghello emerge un nuovo dato da tenere in considerazione, ovvero la commistione di dialetto e italiano – sebbene in diverse misure – già prima del fatidico momento dell’iscrizione a scuola. Tuttavia, si tratta di una commistione linguistica valida soltanto dal punto di vista dell’oralità. In effetti, anche l’autore afferma che non c’erano traumi nel passare oralmente da un ambiente dialettofono a uno italofono, mentre imparare a scrivere sembra cambiare le carte in tavola. La dimensione della scrittura occupa, infatti, un ruolo nuovo poiché sconosciuta fino al primo giorno di scuola.

Ricordiamo infatti che il dialetto è, per eccellenza, la lingua che si parla ma non si scrive (Meneghello, 2007:97):

A scuola c’era una complicazione, che insieme con la nuova lingua che imparavamo a parlare, imparavamo anche una cosa tutta diversa, imparavamo a scrivere. E delle due lingue che diventavamo capaci di usare e alternare con disinvoltura, una sola si scriveva (Meneghello et al.,1986:17)

Sono due i personaggi principali di Libera nos a Malo che si fanno incarnazione dell’italiano standard, quello più puro ed ufficiale ma soprattutto scritto. Si tratta della maestra Prospera e di don Tarcisio, due figure non a caso istituzionali e dunque in contrapposizione al mondo paesano-dialettale. Della maestra Prospera, sua insegnante fino alla terza elementare, Meneghello scrive:

La maestra Prospera non era una donna, per noi, ma un fatto della natura come il campanile, l’Arciprete, piazza. Avvertivamo tuttavia, dalla foggia antica dei capelli, dalla pronuncia, forse che c’era in lei qualche cosa di arcaico (Meneghello, 2007:18)

Dalla maestra Prospera imparavamo l’alfabeto e i numeri, e l’uso di certe parole come “spaziosa”, “chicchi”, “imposte”, e altre finezze della lingua scritta. Una volta trovammo anche “dirupi” che la maestra fece cercare alla Elsa in un libro molto grosso, nero, in cui disse che c’erano tutte le parole che ci sono. […]

l’effetto delle parole scritte, quelle della lingua, su di noi che parlavamo dialetto, era assai strano (Meneghello, 2007:21)

Don Tarcisio, invece, è l’insegnante delle Comunali, ovvero quarta e quinta elementare.

L’autore descrive il sacerdote non come “prete paesano”, ma come colui che meglio rappresentava la civiltà urbanizzata e raffinata:

Quando andammo a fare l’esame alle Comunali, don Tarcisio prima di incominciare il dettato ci diede degli avvertimenti usando tra le altre la parola

“avvezzi” che non avevamo mai udita; ma con tanto garbo la capimmo. […]

Imparavamo a mano a mano a scrivere e anche a parlare in lingua, aiutandoci con i libri stampati. “Nella casa del balilla Vittorio, di propriamente oziosi non c’era nessuno”. Vuol dire che la casa era del tutto vuota: propriamente-oziosi è un sinonimo fine di davvero. Dava piacere provarlo nella vita ordinaria.

“Sei già stato a messa?”

“Sì, zia”

“Davvero?”

“Propriamente-oziosi”

Le zie, un po’ all’antica non apprezzavano.(Meneghello, 2007:38-39)

Al periodo dell’infanzia risalgono anche filastrocche, canzonette, inni e preghiere il cui testo, spesso in italiano, viene deformato dai bambini. La deformazione è generata dall’incomprensione causata dalla scarsa padronanza della lingua italiana e suscita così il riso nel lettore. Come vedremo in seguito nella sezione dedicata all’italiano popolare (cfr.4.3.2.), il malinteso che fa tanto sorridere si riflette in realtà nell’osservazione sociolinguistica secondo la quale i bambini sono – per definizione – incolti o semicolti.

Infatti, nonostante l’istruzione di base, il bambino non padroneggia la lingua ufficiale. In questo contesto, la filastrocca probabilmente più famosa è quella dei Vibralani che recita:

Vibralani! Mane al petto!

Si defonda di vertù.

Freni Italia al gagliardetto

e nei freni ti sei tu (Meneghello, 2007:6) quando in realtà l’originale reciterebbe:

Vibra l’anima nel petto sitibonda di virtù:

freme, o Italia, il gagliardetto

e nei fremiti sei tu. (Meneghello, 2007:255)

In questa filastrocca possiamo notare due fenomeni linguistici caratteristici dell’italiano dei semicolti, ovvero la conglutinazione vibralani per “vibra l’anima” e le deglutinazioni nei freni ti sei tu per “nei fremiti sei tu” e si defonda per “sitibonda”. Tuttavia, quello che più ci interessa in questo contesto è di indicare come Meneghello da bambino riuscisse a giustificare una filastrocca senza senso, denotando appunto quella mancanza di padronanza della lingua italiana nelle sue forme più “complesse”:

La forma poetica ti sei tu per ci sei tu non bastava a confonderci, né l’arcaismo di mane per mani. L’ordine era di portarle al petto, orizzontalmente, in una forma sconosciuta ma austera di saluto: come un segno di riconoscimento in uso tra i vibralani a cui sentivamo in qualche modo, cantando, di appartenere ad honorem anche noi. I freni tra cui era impigliata l’Italia erano per Bruno quelli della nostra Fiat Tipo-due, esterni, sulla pedana destra dietro l’asta del gagliardetto a triangolo: e lì ti era l’Italia con la corona turrita e la vestaglia bianca. (Meneghello, 2007:7)

Ma veniamo al rapporto tra lingua scritta e lingua parlata. Sebbene all’epoca dell’infanzia Meneghello non ne fosse cosciente, negli anni Ottanta l’autore riconosce che:

Noi non sapevamo che l’italiano che parlavamo era diverso da quello letterario che cercavamo di scrivere, e diverso da quello parlato in altre parti d’Italia, una nostra variante della lingua nazionale (Meneghello et al., 1986:17)

Come anticipavamo nel Capitolo secondo, ecco dunque che quello che per il bambino di Malo era italiano tout court, senza ulteriori etichette, diventa dal punto di vista variazionale un vero e proprio intreccio di varietà di italiano complicando così – se non addirittura scardinando – la visione binaria originale proposta dall’autore incentrata sulla

dicotomia italiano-dialetto. Il nòcciolo della questione, come vedremo grazie alla classificazione a cura di Lepschy nelle sezioni successive, è che molte delle forme che Meneghello considera come dialettali potrebbero oggi risultare classificabili come italiano popolare o italiano regionale. Dal punto di vista variazionale, infatti, oggi sappiamo che si tratta di incroci naturali in virtù del principio del continuum tra varietà linguistiche.

Prima di proseguire con la classificazione vera e propria, dedicheremo il prossimo sottocapitolo alla riflessione linguistica di Meneghello rispetto all’italiano, riflessione che però va ben oltre la sfera puramente semantica e che sembra farsi spazio in quella ontologica e vitale della lingua. E se per il dialetto i toni erano prettamente nostalgici, non si potrà dire lo stesso per l’italiano, poiché aspramente criticato dall’autore.