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4.3 La lingua di Libera nos a Malo: analisi sociolinguistica delle varietà di italiano

4.3.2 L’italiano popolare

“Credo che sia vero che nel mio caso le lingue che interagiscono sono tre, il dialetto, l’italiano parlato e l’italiano letterario” (Meneghello et al., 1986:33). A vent’anni dalla stesura e pubblicazione di Libera nos a Malo, Meneghello si rende conto che il sistema di note che aveva elaborato non era forse così preciso come aveva ritenuto. Se da un lato è vero che lo scopo dell’autore non è mai stato filologico, dall’altro è da tenere presente che alla luce degli studi sociolinguistici sulla nozione di italiano popolare (e contemporanei a Libera nos) nella prosa meneghelliana – e in particolare in quella di Libera nos a Malo – sono “presenti tratti che ora possiamo riconoscere come propri dell’italiano popolare, nelle sue manifestazioni di parlato, familiare e regionale” (Daniele, 2016:26). Ed è proprio questa la ragione per cui Meneghello, spinto dalle domande di Lepschy, ammette che le lingue di Libera nos non sono soltanto due, italiano e dialetto, bensì tre.

Nella presente sezione tenteremo innanzitutto di dare una definizione esaustiva della nozione di italiano popolare al fine di definire la materia oggetto di analisi. In un secondo momento ritorneremo poi al testo di Libera nos a Malo da cui estrapoleremo brani significativi all’individuazione di forme di italiano popolare aiutandoci con la classificazione proposta da Giulio Lepschy.

4.3.2.1 Definizioni a confronto della nozione di italiano popolare

“In un territorio assai lontano dall’italiano standard, si colloca una varietà che ha sollevato negli ultimi decenni un vivace dibattito, l’italiano popolare” (Masini, 2003:54). Questo

“vivace dibattito” emerge principalmente da due ragioni, ovvero l’assenza di una definizione universale e un posizionamento su molteplici assi nei modelli variazionali.

Vediamo innanzitutto cosa si intende con italiano popolare. Masini, ad esempio, lo definisce come l’italiano proprio degli incolti e dei cosiddetti semicolti, ovvero coloro che

“pur avendo avuto un’istruzione scolastica di base non hanno acquisito piena competenza della lingua italiana” (Masini, 2003:54). La situazione narrata dall’autore sembra rispecchiare appieno questa definizione, sia nel caso di Meneghello bambino che si appresta a imparare una nuova lingua per certi versi molto diversa rispetto a quella materna, sia nel caso dei suoi compaesani – adulti e anziani – che da sempre hanno vissuto in un ambiente dialettofono in cui la scolarità non era ancora obbligatoria. Nel primo caso, ovvero quello dell’infanzia, ricordiamo che i bambini sono per definizione incolti o semicolti. Nel secondo caso, invece, si tratta di un’ipotesi che possiamo avanzare sulla base del periodo storico in questione.

Ma ritorniamo alla questione delle definizioni. Come anticipato, non esiste di fatto una definizione universale e univoca di italiano popolare, ma i principali studi sociolinguistici ne individuano e condividono tre. La nozione di italiano popolare fu infatti introdotta negli anni Settanta da due illustri linguisti del panorama italiano, Tullio De Mauro e Manlio Cortelazzo. De Mauro lo definisce come “il modo di esprimersi di un incolto che, sotto la spinta di comunicare e senza addestramento, maneggia quella che ottimisticamente si chiama la lingua nazionale” (Masini, 2003:57); Cortelazzo, dal canto suo, lo definisce come

“il tipo di italiano imperfettamente acquisito da chi ha per madrelingua il dialetto”

(Masini, 2003:57).

De Mauro, il quale – lo ricordiamo – non crede all’esistenza dell’italiano comune, mette in luce il carattere espressivo dell’italiano popolare che diventa “il patrimonio di classi sociali portatrici di una competenza linguistica subalterna, ma spontanea, genuina, tale da sopperire all’inesistenza di un italiano comune” (Masini, 2003:57). Cortelazzo, invece, mette in risalto il carattere di deviazione rispetto alla norma dell’italiano standard che,

nel suo caso, è ben riconosciuto. A queste due definizioni se ne affianca una terza, decisamente più recente rispetto alle precedenti. In questa definizione a cura di Francesco Bruni, linguista e storico della letteratura italiana, la nozione di italiano popolare viene sostituita con quella di italiano dei semicolti. La differenza è documentata attraverso testi scritti nei quali l’oralità si riversa nella scrittura e mette dunque in risalto il contrasto tra scritto e parlato.

La pluralità di definizioni ci permette di comprendere perché, come anticipavamo nel paragrafo introduttivo, posizionare questa varietà all’interno di un modello variazionale possa portare a risultati diversi. Se, ad esempio, prendiamo il modello di Berruto (Appendice I) vedremo che l’italiano popolare è collocato sull’asse diastratico in quanto lingua dei ceti incolti. Sottolineiamo peraltro che la variazione diastratica è quella che più segue e rispecchia le definizioni di De Mauro e Cortelazzo. Tuttavia, l’italiano popolare potrebbe anche essere collocato sull’asse diafasico se considerato come varietà utilizzata occasionalmente e intenzionalmente da parlanti colti in occasioni di minor controllo formale. Ciononostante, c’è un’ulteriore eccezione: se prendiamo in considerazione la definizione di Bruni, allora l’italiano popolare diventa varietà dell’asse diamesico, dovendo tener conto del divario tra scritto e parlato.

Torniamo ora a Libera nos a Malo. La definizione che più si avvicina a quanto Meneghello descrive nella sua opera è quella di Cortelazzo. Infatti, le filastrocche, le preghiere storpiate e i malintesi sono simbolo della scarsa padronanza della lingua italiana. La ragione risiede in primis nel fatto che la Malo degli anni Venti, piccolo paesino veneto, fosse un ambiente principalmente dialettofono. Tuttavia, ricordiamo inoltre che quanto sappiamo risale all’esperienza di un bambino. Ragionevolmente, non si può definire un bambino un incolto lato sensu – come invece vuole la definizione proposta da De Mauro – ma piuttosto un individuo che avendo come madrelingua il dialetto acquisisce imperfettamente, nei primi anni di istruzione, la lingua italiana. Di conseguenza, in base a questo ragionamento e al fatto che i bambini sono da considerarsi come gruppo sociale ben definito sulla base del criterio dell’età, la dimensione variazionale che meglio si applica a Libera nos è quella diastratica.

Ciononostante, attraverso le parole di Meneghello, non possiamo non vedere in filigrana anche la dimensione diamesica dell’italiano popolare in Libera nos, ovvero il divario tra scritto e orale. Ricordiamo, infatti, che è lo stesso autore a riconoscere che:

A scuola c’era una complicazione, che insieme con la nuova lingua che imparavamo a parlare, imparavamo anche una cosa tutta diversa, imparavamo a scrivere […]. L’italiano che parlavamo, questo era certamente una forma diversa (Meneghello et al., 1986:16-17)

Da un punto di vista critico è importante chiedersi – e gli studiosi di Meneghello concordano – se si tratti effettivamente di italiano popolare o piuttosto di italiano parlato o di italiano regionale (come definito dall’autore ne Il tremaio (1986)). Alla questione sull’italiano regionale, poiché citata dall’autore, andrebbe probabilmente dedicato un maggiore spazio di cui purtroppo non disponiamo. Allo stesso tempo, però, è possibile affermare che l’italiano regionale sia de facto l’italiano che ognuno di noi utilizza ogni giorno. Si noti inoltre che a differenza dell’italiano popolare, quello regionale è quello per il quale noi tutti optiamo nelle occasioni di minor controllo formale; lo stesso discorso non può essere applicato a quanto ci racconta Meneghello, poiché intuitivamente il bambino o l’anziano di Malo negli anni Venti non hanno sufficiente padronanza della lingua per decidere, qualora sia il caso, di innalzare il registro e allontanarsi dal regionalismo o viceversa. Per quanto concerne l’italiano parlato, Lepschy sostiene che le distinzioni rispetto ai tratti caratteristici dell’italiano popolare non sono rigide e nette e che più di un’analisi filologica “occorre capire qual era l’intenzione dello scrivente […].

Occorre quindi fare un’ipotesi sul carattere psicologico, mentalistico, relativa alle sue intenzioni” (Lepschy, 2005:21).