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Caratteristiche del «diritto diplomatico»

2. Il diritto internazionale dell’ambiente e il quadro normativo dell’Accordo di

2.2 Il «diritto diplomatico» e l’Accordo di Parigi

2.2.2 Caratteristiche del «diritto diplomatico»

Il ruolo della diplomazia nella genesi dell’Accordo di Parigi è stato determinante.

L’evolversi delle consultazioni durante gli ultimi giorni dei negoziati di Parigi ha infatti permesso la progressiva redazione di bozze dell’Accordo in cui fosse possibile mantenere un delicato equilibrio tra le varie posizioni delle Parti (Bulmer 2017, 72). Il contenuto dell’atto, come spesso avviene in occasione degli accordi internazionali, costituisce infatti il risultato di un

«processo politico-diplomatico teso a definire un testo largamente condiviso e rispetto al quale non sorgano particolari opposizioni, tali da determinare il voto negativo degli Stati al momento della deliberazione» (Adinolfi 2008, 123).

Inoltre, come è avvenuto nel caso dell’Accordo di Parigi in virtù dell’articolo 25 e dell’articolo 16 paragrafo 5 e in assenza di una regola adottata in merito a un voto per maggioranza (Voigt 2017, 369), è importante sottolineare che l’adozione di molti trattati internazionali avviene tramite consenso, e questo solleva non poche questioni. Affinché nessun Paese ponga un veto, le decisioni devono essere condivisibili da tutti i Paesi: ne risulta un probabile indebolimento della concretezza della decisione. In altre parole, per

11UNFCCC, Draft of the Paris Outcome, proposal by the president, Version 1 of 9 December 2015 at 15:00, p. 3, https://unfccc.int/resource/docs/2015/cop21/eng/da01.pdf.

21 riprendere Adinolfi, «se l’approvazione per consensus testimonia l’esistenza di un accordo generalizzato tra Stati, essa in tanto è possibile in quanto l’atto in questione si limita a formulare un minimo comune denominatore, e non si riferisce anche a questioni particolarmente controverse che, comunque regolate, avrebbero determinato l’obiezione di uno o più Stati. Tale circostanza può inoltre spiegare la presenza di alcune ambiguità (se non proprio lacune) nel testo, che lasciano aperta la strada a più interpretazioni possibili»

(Adinolfi 2008, 127).

Giova ricordare che il consenso costituisce una modalità informale di presa decisionale: il voto, infatti, non è espresso in maniera formale, e la maggior parte delle volte l’adozione avviene ad opera del presidente dell’organo che, «dopo aver accertato che nessuno degli Stati presenti intende muovere obiezioni al testo da egli stesso proposto» (op.

cit., 127), dichiara adottato il trattato. Nel caso dell’Accordo di Parigi l’adozione è stata affidata al presidente della COP21, Laurent Fabius, il ministro francese degli affari esteri e dello sviluppo internazionale. Nella fattispecie, l’adozione per consenso rappresentava la migliore soluzione al fine di superare la divisione tra Paesi sviluppati e in sviluppo e creare un accordo globale vincolante per tutte le Parti. Non essendo un metodo di presa decisionale ufficiale, la pratica sul consenso si presta all’interpretazione, in particolare da parte del presidente della COP, che ha il ruolo di annunciare l’adozione della decisione, talvolta in situazioni tese. È interessante rilevare che, secondo le regole di procedura dell’UNFCCC, tutte le decisioni in merito alla sostanza devono essere prese per consenso (Carazo 2017, 390).

Inevitabilmente, la volontà di concludere i negoziati con l’adozione di un testo largamente condiviso ha comportato scelte volte a fissare condizioni generali e accettabili per i più. Per esempio, forti delle lezioni apprese con il Protocollo di Kyoto, che fissava al 2012 la scadenza per soddisfare l’obiettivo di riduzione delle emissioni di gas serra senza prevedere un altro termine oltre tale anno, le Parti non hanno previsto una scadenza temporale precisa per l’Accordo di Parigi che comporterebbe una cessazione dei suoi effetti giuridici a un momento prestabilito. Al contrario, l’Accordo si limita a menzionare un obiettivo da conseguire nella prima parte del ventunesimo secolo ed è concluso per una durata illimitata, basandosi così sulla scommessa che gli obiettivi ambiziosi che stabilisce saranno raggiunti e mantenuti (Boisson de Chazournes 2017, 102).

22 La presenza di lacune o ambiguità nei testi normativi internazionali è una caratteristica tipica di quella categoria del diritto denominata da Tito Gallas «diritto diplomatico». Come spiega Gallas, questa espressione «non denota necessariamente un diritto creato da diplomatici», ma piuttosto «il risultato di lunghi e lenti negoziati tra Stati sovrani» e, come sappiamo, un trattato vale solo «alla luce delle intenzioni dei firmatari»

(Gallas 2001, 177), che possono eludere determinate informazioni, ma anche negoziare talune disposizioni ricorrendo a formulazioni vaghe.

Considerando che la vaghezza in questo contesto ha origine dallo scambio diplomatico, potrebbe rivelarsi illuminante proporre un parallelo tra la conversazione, alla base di ogni scambio diplomatico, e un atto normativo, in questo caso un trattato internazionale, per verificare se il Principio di Cooperazione individuato da Grice si attagli tanto all’una quanto all’altro (Mantovani 2008, 47)12. È evidente che se consideriamo il linguaggio vago e generico di alcune formulazioni le massime conversazionali, alla base del Principio, della quantità e del modo possono non risultare soddisfatte. Non bisogna però dimenticare che, malgrado le esigenze diplomatiche che lo accompagnano, qualsiasi trattato internazionale si inserisce nel contesto creato dalle fonti del diritto sullo stesso argomento e che quindi dal punto di vista pragmatico il contesto creato da tali fonti concorre a soddisfare lo scopo comunicativo poiché funge da ausilio per l’interpretazione.

Se l’indeterminatezza del linguaggio di alcune formulazioni e dell’interpretazione sono dunque pensate alla luce di un contesto più ampio, è possibile compiere un ulteriore passo nel paragone tra conversazione e atto normativo equiparando la bona fides nel trattato al Principio di Cooperazione di Grice nella conversazione (Mantovani 2008, 47).

Considerando il principio della bona fides, infine, non ricadiamo in un ardito sillogismo se rileviamo che tale principio è il medesimo tanto in un trattato internazionale quanto in un contratto e che quindi, nella fattispecie, i due atti possono essere paragonabili. Del resto, il parallelismo tra trattato internazionale e contratto era già stato ipotizzato da Tito Gallas, il quale rileva che lo scopo del diritto internazionale convenzionale non è quello di creare un messaggio affinché il destinatario si comporti nel modo voluto da un legislatore. Un trattato, secondo Gallas, si può per l’appunto paragonare a un contratto: il suo scopo principale è di fissare un contenuto su cui le parti concordano, di mettere per scritto una volontà che esse

12 Mantovani propone il medesimo paragone considerando il contratto di compravendita nel diritto romano e la

sua caratteristica fase di stipulazione, che presenta una spiccata analogia con la conversazione.

23 conoscono già. È infatti solo a titolo sussidiario che il contratto viene redatto al fine di essere compreso correttamente da terzi, per esempio da un giudice (Gallas 2001, 118).

2.2.3 Conseguenze della componente «diplomatica» nella redazione di un trattato