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G.A. Borgese : Vent’anni di coerenti ripensamenti sulla Grande Guerra (Rubè, Goliath, etc.)

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G.A. Borgese : Vent’anni di coerenti ripensamenti sulla Grande Guerra (Rubè, Goliath, etc.)

Stefano Magni

To cite this version:

Stefano Magni. G.A. Borgese : Vent’anni di coerenti ripensamenti sulla Grande Guerra (Rubè, Goliath, etc.). 1918-2018. Cento anni della Grande Guerra in Italia, 2020. �hal-03186411�

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1918-2018.

Cento anni della Grande Guerra in Italia

131 G.A. Borgese: vent’anni di coerenti ripensamenti sulla

Grande Guerra Stefano Magni

Giuseppe Antonio Borgese visse un momento di intenso impegno politico nel biennio 1916-1918. Giornalista per il

«Corriere della Sera», fu incaricato di alcune missioni diplo- matiche che avevano come obiettivo un accordo tra i popoli slavi sottomessi all’Impero austro-ungarico. Le sue trattati- ve contribuirono all’organizzazione del Congresso di Roma che ebbe luogo nell’aprile del 19181. Questa sua attività ha condizionato la sua scrittura sulla Grande Guerra, poiché ha reso difficile la scissione tra l’analisi storica e l’esperienza personale. Per capire meglio questo connubio, spiegheremo in un primo momento quale è stato il clima in cui Borgese è vissuto al termine del conflitto e solo in un secondo mo- mento analizzeremo i suoi scritti sulla guerra, partendo da quelli militanti scritti in un contesto di dibattito politico e arrivando a quelli a carattere più storico, redatti come sintesi degli eventi.

1. Cfr. S. Magni, G.A Borgese journaliste du Corriere della Sera (1915-1918), in Bertone- Meazzi (2018), pp. 115-24.

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La vita di Borgese nel dopoguerra

A causa delle sue missioni diplomatiche del biennio 1916- 1918, nel dopoguerra l’intellettuale siciliano è preso come capro espiatorio per la «perdita» della Dalmazia. A poco a po- co, Borgese viene emarginato all’interno del «Corriere della Sera» e, allontanato dalla sezione politica, dove i suoi contri- buti scemano progressivamente, è riassegnato alla pagina cul- turale2. Inoltre, con l’affermazione del regime, verso la fine degli anni Venti, per Borgese la vita in Italia diventa sempre più complicata. La questione dalmata continua a riemergere e, come ricorda Sandro Gerbi3, nel 1928 il rettore del Poli- tecnico di Milano, Gaudenzio Fantoli, scrive a Mussolini un memoriale in cui accusa il fatto che in Italia gli intellettuali compromessi con la perdita della Dalmazia – certificata dal Trattato di Rapallo del novembre 1920 – possano ancora es- sere annoverati tra gli insegnanti del Regno e possano anche esprimere la loro voce sulle pagine del «Corriere della Sera».

Ma la pressione psicologica non viene solo dall’alto. Membri di organizzazioni studentesche hanno cercato più volte di interrompere le lezioni di Borgese, con conseguenti scontri tra i suoi studenti e i giovani fascisti. Il docente stesso è stato pesantemente minacciato. Per calmare gli animi, il Duce in persona è intervenuto chiedendo al Prefetto di Milano di permettere a Borgese di continuare il suo insegnamento. In un telegramma – con lo stile autoritario che lo contraddistin- gue e l’uso della formula personale «esigo» – ha imposto ai giovani studenti fascisti, riuniti sotto l’acronimo «GUF», di porre fine alla violenza:

Domani professor Borgese deve riprendere sue lezioni all’università. Esigo che ciò avvenga senza minimo incidente.

Stop. Lo faccia sapere al segretario federale e al segretario del Guf e nella eventualità di incidenti prenda misure contro i responsabili.4

Se da un lato Mussolini in persona è intervenuto a difesa di Borgese – facendo interrogare la critica sulle ragioni di un

2. La sua collaborazione con il «Corriere della Sera» continua fino al 6 luglio 1934 e segue una polemica con il direttore del giornale, Aldo Borelli, fedele al regime, in cui Borgese cita una serie di censure «pittoresche» ai suoi articoli.

3. S. Gerbi, Borgese politico, in «Belfagor», Firenze 1997, a. 52, v. 1, pp. 43-69.

4. Ivi, p. 49.

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133 tale gesto – dall’altro Borgese ha accettato la sua protezio- ne, mostrando che non intendeva in quegli anni scontrarsi con il regime. Fernando Mezzetti ricorda che Borgese era sulla lista nera della base militante, ma che ricevette anche una moderata protezione dal regime5. Antifascista nell’inti- mo, ma inappuntabile in pubblico, l’intellettuale di Polizzi Generosa ha avuto un comportamento ondivago in quegli anni e la critica ha espresso giudizi diametralmente opposti sulla sua posizione riguardo al Fascismo. Il clima di ostilità lo ha comunque portato a scegliere la via dell’esilio. Prima, nel 1931, è partito negli Stati Uniti in missione culturale per conto del Ministero dell’Istruzione italiano. Poi, nel 1933, ha scelto di dichiarare pubblicamente la sua fede antifascista e si è rifiutato di rientrare in Italia fino alla fine della Seconda guerra mondiale.

Per analizzare le dinamiche che hanno portato Borgese a scegliere l’autoesilio, osserveremo alcuni momenti signifi- cativi della sua vita.

Quando, nel 1925, Benedetto Croce si è fatto promoto- re del manifesto degli intellettuali antifascisti, Borgese non vi ha aderito. Questo documento è stato invece firmato dal suo ex collaboratore del «Corriere» Giovanni Amendola e dall’ex direttore Luigi Albertini con cui l’intellettuale sicilia- no aveva collaborato in modo stretto durante la Prima guerra mondiale. È vero che Borgese aveva vissuto per molti anni una disputa personale con Croce e che ha continuato a far- lo anche negli anni a venire, ma è importante notare la sua assenza dalla sfera pubblica in questo momento cruciale per la libertà di espressione in Italia.

Invece, pochi mesi dopo, figura tra i 163 firmatari di un altro documento, anche se storicamente meno importante.

Si tratta dell’«Indirizzo di simpatia a Gaetano Salvemini»

(1925), raccolta di firme che intende sostenere lo storico e politico arrestato per la sua collaborazione con la rivista dis- sidente «Non mollare», la prima pubblicazione clandestina durante il regime, durata dal gennaio all’ottobre del 1925.

Ai margini della vita politica, Borgese ritorna a interessi più letterari. Coglie l’occasione per dedicarsi alla ricerca di

5. F. Mezzetti, Giuseppe Antonio Borgese e Mussolini, in «Critica storica». Rivista trimestrale diretta da Armando Saitta, G. D’Anna Editore, Messina-Firenze 1 dicembre 1977, a. XIV, n. 4, pp. 648-93 (82-127); cfr. anche Mezzetti (1978).

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un tema storico che lo aveva da tempo affascinato: la mi- steriosa morte del principe ereditario Rodolfo d’Asburgo- Lorena, avvenuta nella sua tenuta di caccia, a Mayerling. Tra il 1924 e il 1925, lo scrittore siciliano pubblica due libri sul principe: La tragedia di Mayerling6, in prosa, ricostruisce la vita e la morte di Rodolfo; L’Arciduca7 è una pièce teatrale che mette in scena le ultime ore di vita del giovane principe ereditario. Tenuto conto della posizione centrale di Borgese nella politica italiana nel 1914-1918, è sorprendente notare il suo ritiro dalla vita pubblica.

Quando, nel luglio del 1931, il regime chiede agli inse- gnanti-ricercatori di prestare giuramento al partito fascista8, Borgese è da poco negli Stati Uniti ed è quindi esentato dal prendere una decisione. Nel 1933, dopo due anni di perma- nenza all’estero, Borgese non si è ancora pronunciato sul nuovo regolamento universitario. Nel frattempo è nominato tra i candidati all’Accademia d’Italia (1929-1944), l’istituzione voluta da Mussolini il cui scopo era quello di «promuovere e coordinare il movimento intellettuale italiano nel campo delle scienze, delle lettere e delle arti, di conservare puro il carattere nazionale, secondo il genio e le tradizioni della stirpe e di favorirne l’espansione e l’influsso oltre i confini dello Stato». Il suo nome compare fino all’ultima votazione che ha luogo nel 19329. Solo il 18 agosto 1933 decide di scri- vere un memoriale a Mussolini in cui spiega la sua scelta di non tornare in Italia poiché per lui è impossibile vivere in un paese che non ammette la libertà di pensiero e d’espressione.

È plausibile pensare che l’esclusione dall’Accademia abbia contato nel momento di prendere una decisione.

In America, Borgese frequenta la Mazzini Society e parteci- pa all’azione antifascista. La sua esperienza degli anni tra le due guerre è quindi condizionata dall’esperienza diplomati- ca della Grande Guerra. Vedremo in quale misura anche la testimonianza del conflitto è in parte subordinata a questa esperienza.

6. Borgese (1925).

7. Borgese (1924).

8. Sin dal 1924 il regime aveva chiesto ai professori di prestare giuramento davanti al paese. Solo nel 1931 il testo fu completato dalla formula «Giuro di essere fedele al Re, ai suoi Reali successori e al Regime Fascista».

9. Cfr. S. Gerbi, Borgese politico cit.

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135 Tra il 1919 e il 1937 Borgese si è più volte confrontato con la tematica della Prima guerra mondiale. Quattro opere possono in particolare mostrare la sua parabola ideologica con cui rielabora la sua esperienza e la sua percezione del conflitto, dall’impegno militante allo sguardo più storico: Il patto di Roma (1919), Rubè (1921), L’Alto Adige contro l’Italia (1921), Golia. La marcia del Fascismo (1937). I primi tre testi sono stati redatti in un clima di acceso dibattito politico, men- tre l’ultimo ha un carattere storico.

I testi militanti di Borgese sulla Grande Guerra

Seguendo un ordine cronologico, analizziamo ora i testi del periodo 1919-1921. Si tratta di opere scritte in un clima di fervore e battaglie ideologiche. Borgese continua in un certo senso la sua militanza iniziata con gli articoli e gli opuscoli interventisti del 1914-1918.

I - Il patto di Roma10 (1919): un tentativo collettivo di discol- parsi

Pubblicato nel clima degli accordi di Versailles, il primo testo di Borgese sulla Grande Guerra nasce dal bisogno di discol- parsi dall’accusa di aver contribuito alla rinuncia italiana alla Dalmazia. Il testo esce in un opuscolo collettivo in cui anche altri collaboratori del «Corriere» implicati in missioni diplo- matiche spiegano il ruolo che hanno ricoperto, giustificando il proprio operato di fronte alla nazione. In questo contesto, Borgese inserisce un contributo anomalo, intitolato La que- stione jugoslava11, meno pragmatico e più ideologico, in cui ribadisce la sua posizione rinunciataria riguardo alla Dalma- zia. Senza contestualizzare il suo contributo con riferimenti alla situazione del dopoguerra, questo testo non fa che ripro- porre gli argomenti espressi nei memoriali del 1917. Borgese dichiara apertamente che l’Italia non deve perseguire una politica espansionista in Dalmazia:

non ripeteremo le note dimostrazioni, secondo le quali la Dalmazia e l’Istria orientale sono paesi totalmente slavi […]

In ogni modo sarebbe assurda la speranza di tenere una parte della Dalmazia. Chi la vuole deve averla tutta […]. L’a-

10. Il patto di Roma. Scritti di Giovanni Amendola, G.A. Borgese, Ugo Ojetti, Francesco Ruffini e Andrea Torre, La Voce, Roma 1919.

11. G.A. Borgese, La questione jugoslava, ivi, pp. 45-118.

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spirazione alla Dalmazia è la più calda, la più appassionata, la più univoca fra le aspirazioni jugoslave. Minacciano aperta- mente di diventare austriacanti e germanofili se insistiamo.12 Aggiunge che gli slavi hanno una spontanea simpatia per gli italiani13 e che una politica annessionista non può che porta- re a effetti nefasti per l’immagine patria tra queste genti. Al contrario, la loro alleanza può risultare determinante per lo sviluppo della guerra italiana:

Se, essi dicono, vi fosse stato da principio un accordo fra le aspirazioni italiane e le aspirazioni jugoslave, l’esercito italiano sarebbe da un pezzo a Trieste […] insinuano che nel primo mese di guerra l’Italia avrebbe facilmente potuto giungere a Trieste e che la resistenza austriaca era allora presso che nulla.14

Per Borgese è chiaro che per ragioni strategiche l’Italia deve cercare l’amicizia dei popoli slavi:

Anche se la Dalmazia divenisse nazionalmente e linguisti- camente italiana prima che il futuro Stato jugoslavo divenis- se internamente ed esternamente forte, il programma della riconquista dalmatica rimarrebbe perpetuamente il primo articolo del credo nazionale jugoslavo […] conviene non esasperare vanamente le inimicizie e tenere stretti e costrut- tivi contatti coi jugoslavi.15

L’intellettuale siciliano ripete così le tesi già espresse nel 1910 nella rivista «La Voce», come anche negli articoli pubblicati sul «Corriere della Sera» del 1917 e nei documenti ministe- riali inviati durante le sue missioni e da cui è tratto.

Si pone anche nella stessa linea di un opuscolo del 1917 intitolato L’Italia e la nuova alleanza16 nel quale aveva auspi- cato per il dopoguerra la nascita di un forte polo slavo in funzione anti-germanica che andasse dall’Albania fino alla

12. Ivi, pp. 103-06.

13. Ivi, p. 95.

14. Ivi, p. 96. Come ci ricorda Nicola Brancaccio – Brancaccio (1926), p. 89 – gli slavi che risiedevano a Parigi fecero un’importante propaganda anti-italiana, poiché ritenevano che solo la distruzione dell’Italia avrebbe permesso loro di far riconoscere i loro diritti.

15. Ivi, p. 114. Con il suo contributo sulla storia e la lingua delle popolazioni slave, egli riconduce inoltre la guerra a fattori culturali, come aveva già fatto in La guerra delle idee (1916).

16. Borgese (1917).

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137 Polonia. In questo testo, spiegava che se a Sud-Est erano i popoli slavi che dovevano frenare l’espansionismo teutonico, a Sud-Ovest questo ruolo doveva essere svolto dai paesi medi- terranei (Italia, Francia, Spagna) che dovevano a suo avviso formare una coalizione economico-militare. Borgese era uno di quegli intellettuali per cui l’interventismo si giustificava in senso antigermanico, per paura di un dominio teutonico del continente e non in senso espansionista-irredentista. Per lui l’obiettivo della guerra era di imporre l’Italia tra le grandi nazioni europee, sia sul piano economico sia sul piano di- plomatico.

Nel 1919 Borgese dimostra una piena coerenza di posizio- ni tra il periodo prebellico e quello immediatamente post- bellico.

II - Rubè (1921): scoramento o pentimento?

Ci pare interessante analizzare il romanzo Rubè (1921) alla luce di questo primo dato. In effetti, questo libro è spesso stato letto come una forma di ripensamento del suo inter- ventismo. Ma le interpretazioni in senso revisionista del romanzo appaiono contraddittorie rispetto a tutto ciò che l’intellettuale ha affermato negli anni in cui ha pubblicato la sua opera più famosa. Molti critici si sono pronunciati sulle tesi espresse nel Rubè. In Il mito della Grande Guerra (1970), Mario Isnenghi afferma che in Rubè Borgese dimostra di aver ripudiato la sua ideologia interventista. Qualche anno dopo, in Francia, Pierre Laroche vede Rubè come il romanzo di un intellettuale in crisi di ideali che rappresenta una borghesia in perdita d’identità.

Seguendo questa linea, nel 2010, Giovanni De Leva de- dica un libro a questo romanzo. Egli considera quest’ulti- mo come una forma di ripensamento delle sue scelte: «La reazione di Rubè […] innesca anche un vero e proprio ripensamento tanto del modello eroico che delle ragioni dell’interventismo»17, e ancora di seguito parla di un penti- mento delle ragioni dell’interventismo:

Il ripensamento dell’eroismo, infatti, non può che intrec- ciarsi con la messa in discussione delle ragioni propalate a favore dell’intervento. Così, davanti ai civili in fuga dei colli carsici, crollano d’un colpo l’ideologia e la propaganda di

17. Leva (2010), p. 52.

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guerra […]. Rivelatesi pretestuose tutte le ragioni dell’inter- vento, ciò che di conseguenza viene a mancare è il fonda- mento storico dell’eroismo.18

Nelle oltre cento pagine del suo libro, l’autore non menziona mai né l’attività di Borgese come giornalista politico, né la sua attività militante. Inoltre, quando, all’inizio del romanzo, il personaggio di Rubè è attivo nella propaganda interventi- sta, De Leva lo mette in relazione con le «giornate radiose»

di D’Annunzio19, senza menzionare l’esperienza di Borgese.

Nello stesso anno, un articolo di Nicolas Bonnet apre una breccia, proponendo una riflessione illuminante sul rappor- to tra Borgese romanziere, giornalista e diplomatico20. Co- me altri studi, l’articolo di Bonnet ricorda che quando fu pubblicato, il romanzo era stato oggetto di molte critiche, ma precisa che si trattava di attacchi all’estetica e non all’i- deologia del libro. L’autore fu accusato di avere uno stile poco romanzesco e ciò fu attribuito alla sua professione di critico letterario (Pancrazi). Se la critica italiana degli anni Venti leggeva Rubè come un romanzo ombelicale (Cecchi, Piovene), negli Stati Uniti si raccomandava la lettura di Rubè per capire la Marcia su Roma di Mussolini (1922). Nessun critico dell’epoca ha preso posizione per denunciarne una posizione anti-nazionalista o un ripensamento identitario. Il fatto poi che questo romanzo sia stato ristampato due volte sotto il regime (1928-1933) testimonia il fatto che non intac- cava le ragioni del conflitto.

Possiamo allora chiederci quale sia il rapporto di Rubè con il piano della storiografia e quale posizione ideologica nasconda. Un primo punto di analisi riguarda il personaggio di Filippo Rubè che, sicuramente in parte autobiografico, ha indotto i critici ad attribuire all’autore i suoi comportamenti.

In effetti, ad inizio romanzo Rubè, come Borgese, è antiso- cialista e interventista. Ed è vero che per alcuni aspetti la figura di Rubè si riferisce all’autore21, suggerendo un’affinità di opinioni.

18. Ivi, p. 54.

19. Ivi, p. 44.

20. N. Bonnet, Borgese au front, in «Chroniques italiennes», Web17 (1/2010). In questo ar- ticolo, che ha molti meriti, manca solo un riferimento all’altra opera che Borgese pubblica nel 1921, L’Alto Adige contro l’Italia, di cui parleremo tra poco.

21. Possiamo in fondo anche vedere un’assonanza fonetica tra il nome Rubè e la forma

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139 Ad inizio secolo, soprattutto durante l’esperienza matu- rata nel gruppo de «Il Regno», Borgese ha ampiamente cri- ticato i socialisti. Nel romanzo troviamo queste posizioni. Il personaggio socialista del romanzo, Enrico Stao, è una figura molto negativa. Viene dipinto prima come un uomo non istruito, poi come un individuo subdolo. Perfino la madre di Rubè vuole che suo figlio ritorni in paese per entrare in politica, per paura che Stao prenda il potere. In questo caso, la finzione riproduce il pensiero dell’autore. A questo si può aggiungere che l’arco temporale in cui si svolgono i fatti si riferisce all’esperienza di vita dell’autore. Il romanzo si svolge tra il luglio 1914 e il luglio 1919. Attraversa le fasi dell’inter- ventismo e l’azione militare. Rubè tiene discorsi e migliora così le sue capacità oratorie. Questo ricorda l’esperienza di Borgese. Ma è lo stesso autore che, in una lettera privata, precisa la distanza dal suo personaggio. Il 7 novembre 1934 Borgese, oramai negli Stati Uniti, scrive al giovane compa- triota Domenico Rapisardi, che andrà a fargli visita, alcune impressioni sul suo personaggio: «Rubè è l’Italia d’oggi, fasci- sta-comunista, con due tessere in tasca; che perirà sotto una carica di cavalleria. Il protagonista è in massima detestabile;

né l’autore lo ama»22. Inoltre, come precisa Nicolas Bonnet, bisogna ricordare che le ragioni della guerra in Rubè non sono mai messe in questione: le correnti pacifiste sono poco rappresentate e appaiono in una luce poco lusinghiera23. Bonnet osserva che in Rubè i neutralisti sono disegnati ne- gativamente e afferma che secondo Borgese l’interventismo non dovrebbe essere messo in causa, in quanto la guerra sarebbe stata comunque inevitabile24. Il romanzo di Borgese non è «contro la guerra», ma contro una certa concezione immorale della guerra.

Va anche ricordato che i diari di guerra pubblicati in epo- ca fascista – si pensi agli esempi di Carlo Salsa25 o Mario Muc-

apocopata «Borgè». Si noti anche la presenza della doppia «p» nei nomi propri Filippo e Giuseppe. La prosodia analoga dei due nomi «Giuseppe Borgè» e «Filippo Rubè» non ci pare il frutto del caso.

22. Lettre de G.A. Borgese à Domenico Rapisardi, 7 novembre 1934, in Borgese (2010) e in Borgese (2005), p. 222.

23. N. Bonnet, Borgese au front cit., pp. 23-24.

24. Ibidem.

25. Salsa (1924).

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cini 26 – esprimevano una forte critica alla guerra, ma sotto forma di una negazione del tradizionale potere democratico, il che portò i loro autori ad aderire alla milizia delle camicie nere. I loro libri, pieni di immagini forti e, apparentemente, sovversivi sono stati pubblicati durante il periodo fascista e i loro attacchi alla mediocrità degli ufficiali non hanno mai messo in crisi la retorica adulatoria della Grande Guerra.

Il rapporto conflittuale fra ufficiali e fanti è stato oggetto di molte accuse nella letteratura del conflitto. Piero Jahier vede la guerra come un’eccitante opportunità per educare un popolo generoso che vuole progredire27. Curzio Mala- parte parla in modo diverso di questa relazione. Nel suo pri- mo libro La rivolta dei santi maledetti28, egli legge questo odio come una guerra civile, perché «la fanteria, cioè il popolo della trincea, era diventata una “classe sociale”» che si scaglia contro:

tutto ciò che era borghese, imboscato, intellettuale. Gli uffi- ciali delle armi non combattenti, gli ufficiali dei comandi, i lustri e sdegnosi ufficiali di cavalleria, i panciuti e pettoruti ufficiali superiori di tutte le specie “boschive”, gli ufficiali delle retrovie e di tutti gli angoli morti – erano fatti special- mente segno agli insulti e alle offese del fante.29

Malaparte nota anche che i fanti apprezzavano e rispettavano i loro diretti superiori, quelli che condividevano con loro la paglia, il pane e il buco fangoso. Anche l’antifascista Emilio Lussu, autore di Un anno sull’Altipiano (1938), ha constatato amaramente l’esito del conflitto, ma non ha mai messo in discussione le ragioni del suo interventismo.

Durante la guerra, Filippo Rubè intraprende un tentati- vo fallito di educazione, constatando la mediocrità della sua classe sociale, la borghesia intellettuale, goffa di fronte all’a- bilità dei contadini. Per concludere, possiamo affermare che il fatto di prendere le distanze dal conflitto può significare molte cose, senza necessariamente comportare un pentimen- to per le proprie scelte. A nostro avviso, Borgese vuole solo introdurre una riflessione critica su alcuni intellettuali che,

26. Muccini (1938).

27. Jahier (1919).

28. Malaparte (1997).

29. Ivi, p. 87.

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141 alla maniera dei futuristi, vedevano nella guerra una battaglia sportiva in cui gli italiani dovevano mostrare al mondo il loro ardore. Ad esempio, tutti i critici sottolineano l’importanza data ad un episodio di guerra in cui Rubè rischia la vita per una missione frivola. In questa scena si può vedere la messa in discussione dell’esaltazione di un eroismo vano e futile che non corrisponde alle sacre ragioni che hanno portato l’Italia alla guerra. Il carattere del protagonista ci pare denunciare gli atteggiamenti di alcuni gruppi ideologici, ma non le ra- gioni della guerra. Questo diventa più chiaro se analizziamo gli scritti contemporanei a Rubè.

Dopo aver abbandonato la politica estera e aver perso il suo ruolo nella pagina della politica interna del «Corriere», Borgese si dedica alla letteratura. Nel 1922 pubblica la raccol- ta di saggi critici, Risurrezioni, in cui molto spazio è dedicato a Pascoli. Il 1923 vede l’uscita della raccolta di saggi critici Tem- po di edificare e del suo secondo romanzo, I vivi e i morti, che non ebbe però il successo di Rubè. Rispetto al romanzo – in cui l’autore cerca di sintetizzare l’espressione della crisi del dopoguerra – è la raccolta di saggi critici che nasconde ri- flessioni più importanti. Come scrive Borgese nell’introdu- zione, i testi sono contemporanei a Rubè. Essi dimostrano il desiderio dell’autore di essere un intellettuale organico che avvicina la letteratura al suo tempo.

In questo libro, troviamo interessanti esempi che aiuta- no a leggere meglio Rubè. Nella recensione di Due Imperi….

mancati di Palazzeschi, Borgese critica risolutamente il libro descrivendolo come «post-disfattista». Ma Borgese è soprat- tutto duro con l’autore. Secondo lui, Palazzeschi, rintanato in retrovia per tutta la durata del conflitto, non avrebbe al- cuna autorità per denunciare gli orrori della guerra. Non avendo alcuna esperienza diretta del fronte, l’ex imboscato confonderebbe la tragica condizione del combattente con la vita noiosa della caserma, e l’indignazione e la pietà che ha mostrato nel suo libro sarebbero sproporzionate rispetto al loro scopo30. Al contrario di Palazzeschi, nella sua visione te- leologica della vita, Borgese ritiene che la guerra abbia favo- rito la pace in Europa. Questa idea è stata ribadita nel 1927, in Ottocento europeo, quando, scrivendo una critica di Romain

30. N. Bonnet, Borgese au front, cit., p. 21.

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Rolland, autore di cui aveva già parlato durante la guerra, ricordava che il conflitto aveva senza dubbio avvicinato gli europei più degli opuscoli pacifisti31.

Nei suoi scritti politici pubblicati tra il 1923 e il 1937, Bor- gese non mostra alcun reale pentimento sulla Grande Guerra e non mette in discussione il suo interventismo. Inoltre, nel 1921, contemporaneamente a Rubè, pubblica un pamphlet dai toni molto accesi in cui, su posizioni fortemente naziona- liste, difende le conquiste ottenute dall’Italia.

III - L’Alto Adige contro l’Italia32 (1921): sulle ali della vittoria Come è noto, per motivi di sicurezza militare, alla fine della Grande Guerra l’Italia ha annesso non solo la città italo- fona di Trento, ma anche alcune valli limitrofe di lingua tedesca che hanno permesso di stabilire il confine su vette alte e facilmente difendibili. La comunità internazionale ha considerato che questa linea avrebbe garantito un confine più sicuro, ma i tedescofoni locali hanno immediatamente contestato la decisione. Dopo la Seconda guerra mondiale, dal 1956 in poi, essi hanno anche formato gruppi terrori- stici, organizzando una lunga serie di attentati33. Successi- vamente, l’introduzione di misure quali il bilinguismo e gli incentivi fiscali hanno cercato di allentare le tensioni nella regione.

Borgese parla di questa annessione in un opuscolo di cir- ca cento pagine composto da quattro testi prima pubblicati nelle pagine del «Corriere» e da quattro programmi politici altoatesini che il politologo siciliano analizza. Come spiega nella prefazione, negli articoli si è sforzato «di raggruppare il massimo di cose nel minimo di parole, col solo scopo di mostrare ai miei connazionali quale sia la condizione psicolo- gica di quel paese, ove alla nostra conquista militare nessuna conquista morale è seguita»34.

31. G.A. Borgese, «Rolland e l’autore morale», in Borgese (1927), pp. 219-20: «lo stesso Rolland deve domandarsi talvolta se alla diffusione d’una credenza nella comune patria Europa gli orrori della guerra non abbiano contribuito più vigorosamente dei suoi opusco- li pacifisti».

32. Borgese (1921).

33. Una prima fasi di attentati, la più cruenta, ha avuto luogo tra il 1956 e il 1969. Un secondo gruppo terroristico fu organizzato nel 1972. Nel 1986 iniziò la terza fase che ter- minò nel 1988. Tra il 1956 e il 1988 ci furono complessivamente 361 attentati che compor- tarono 21 morti di cui 15 militari.

34. Ivi, p. v.

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143 Convinto della legittimità di questo confine, Borgese cerca soluzioni affinché le due etnie possano convivere: «Il proble- ma di oggi consiste nello studiare, giacché in Alto Adige siamo, in che modo ci resteremo meglio»35. Sempre nella prefazione, l’autore sottolinea di voler ricordare agli italiani che l’occupa- zione di nuove terre ha creato nuovi problemi. Cerca quindi di analizzare la questione etnica non solo parlando di lingua te- desca e italiana, ma anche avendo l’intelligenza di prendere in considerazione la componente ladina: «in generale sorvolata dagli osservatori del paese e qui forse per la prima volta con- siderata come pernio di tutto il problema atesino»36. A questa prima parte fa seguito una sezione più propositiva, composta di «quattro progetti, più o meno circostanziati, di sistemazione dell’Alto Adige. I tre primi emanano da partiti, il quarto è la voce individuale, ma rappresentativa, di un socialista ufficiale trentino. Io direi che il massimo del buon senso si trovi nel terzo, quello dei socialisti battistiani»37.

a) La prima sezione del libro: presentazione del problema

Questa parte è costituita da articoli già apparsi sul «Corriere», con lo stesso titolo. Si tratta di L’Austria in Italia38, Sclaraffia39, Il confine d’arroccamento40, Bolzano e Trento di faccia41. Borgese definisce i quattro interventi con il termine «lettere».

È con tono sardonico che, nel primo testo42, Borgese in- troduce la delicata questione politica. Sebbene il testo nel suo complesso tenti la mediazione diplomatica, l’incipit non è quello di un osservatore neutrale. Borgese si prende gio- co della fiera ostentazione culturale degli austriaci dell’Alto Adige. Con molto umorismo, nota che è molto più autentica che in qualsiasi altra regione dell’Austria: «Chi vuol vedere l’Austria, quella degli Asburgo e delle aquile doppie, dopo Vittorio Veneto venga pure in Italia»43. Secondo l’autore, dopo la fine della guerra, in tutte le regioni del vecchio impero le

35. Ivi, p. vi.

36. Ivi, p. vii.

37. Ivi, p. viii.

38. G.A. Borgese, L’Austria in Italia, in «Corriere della Sera», 8 ottobre 1920.

39. Id., Sclaraffia, in «Corriere della Sera», 10 ottobre 1920.

40. Id., Il confine d’arroccamento, in «Corriere della Sera», 14 ottobre 1920.

41. Id., Bolzano e Trento di faccia, in «Corriere della Sera», 23 ottobre 1920.

42. Id., L’Austria in Italia, L’Alto Adige contro l’Italia cit., pp. 3-16.

43. Ivi, p. 3.

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persone sono cambiate. Gli unici sciovinisti e tradizionalisti sono i germanofoni dell’Alto Adige. Questa manifestazione folcloristica è accompagnata dalla rivendicazione di uno status nazionale. Chiedono il riconoscimento della loro indipenden- za e si lamentano della loro detenzione in uno Stato straniero.

Ma, con una nota ironica, l’autore aggiunge che, dopo la scon- fitta, tra tutti i germanofoni d’Europa, sono quelli che hanno le migliori condizioni di vita: «Non morranno, gli altoatesini, né di freddo né di fame come i loro consanguinei tirolesi e viennesi»44. Inoltre, Borgese ricorda che nelle altre province divenute indipendenti dall’antico Impero, sono state cancella- te tutte le tracce degli antichi statuti austriaci. Solo l’Italia, per una questione di rispetto culturale, li ha mantenuti:

Cechi, Serbi, Polacchi […] hanno fatto piazza pulita delle istituzioni del vecchio regime. Noi […] abbiamo […] restau- rato in tutta la sua efficienza la legislazione austriaca. […] I giudici di Bolzano portano le rosette d’oro dell’Austria, ne interpretano le leggi e ne esercitano le postume vendette.45 Per dimostrare che gli abitanti di lingua tedesca si oppongo- no a una buona integrazione, Borgese cita il loro comporta- mento sciovinista:

Uno fra i direttori della Lega Tedesca ha pubblicato uno scritto in cui nega Vittorio Veneto, guarda dall’alto in basso l’esercito italiano e ne deride la pretesa d’aver toccato per sua virtù il sacro suolo tirolese. Il sindaco di Bolzano agli italiani che lo visitano dice che nulla avrebbe contro l’Italia se essa non avesse tradito la Triplice Alleanza.46

La seconda lettera47 tratta in modo più dettagliato la questio- ne delle rivendicazioni dell’Alto Adige. Il tono non è meno acuto e ricorda il passato colonizzatore austriaco:

Voi tedeschi che cosa sia l’oppressione lo sapete appena per sentita [sic] dire, perché sempre la infliggeste e quasi mai la patiste. Scendete a Trento o, un po’ più giù, a Mantova per imparare retrospettivamente l’aspetto di una notte nera di schiavitù.48

44. Ivi, p. 8.

45. Ivi, pp. 9-10.

46. Ivi, p. 13.

47. G.A. Borgese, Il confine d’arroccamento, L’Alto Adige contro l’Italia cit., pp. 16-27.

48. Ivi, p. 18.

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145 Borgese insiste sulle condizioni economiche privilegiate ri- servate a queste minoranze:

Ma il più bel fiore di questo trattato interno, con cui l’I- talia s’annetterebbe l’Alto Adige come l’impiccato s’annette la corda, è la clausola finanziaria. L’Italia deve obbligarsi per legge a spendere in Tirolo i proventi delle imposte riscosse in Tirolo.49

Questo status, che Borgese critica come «statuto speciale», è stato in seguito applicato anche ad altre regioni italiane, sempre secondo il criterio della loro condizione di frontie- ra. Borgese contesta ancora la richiesta del popolo di lingua tedesca di una provincia con poteri decisionali speciali che includerebbe anche comuni bilingui in una logica che l’au- tore definisce «annessionista e imperialista»50.

Solo nella terza lettera51 l’autore affronta la questione della distribuzione etnica delle tre componenti: tedesco- fona, ladinofona e italofona. Pur mantenendo i suoi pre- giudizi nazionalisti, Borgese analizza la distribuzione del- le componenti linguistiche nelle valli. Le sue osservazioni rimangono piuttosto generiche, senza entrare nel merito delle questioni e senza fornire un progetto concreto. Il testo si chiude con un’apertura al dialogo, ma che rimane una nota di speranza più che di azione diplomatica, ricordando che gli italiani possono essere buoni insegnanti e i tedeschi buoni studenti:

Sapete benissimo che gente da tirar colpi mancini al ger- manesimo di Bolzano non siamo e che gl’Italiani valgono meno dei tedeschi nell’opprimere e i Tedeschi valgono più degli italiani nell’obbedire. C’è il caso che l’esperimento, perfino, riesca.52

Alla fine, l’autore suggerisce l’istituzione di un’amministra- zione con un’illuminata «saggezza amministrativa»53 capace di regolare le esigenze delle tre componenti etniche.

49. Ivi, p. 24.

50. Ivi, p. 22.

51. G.A. Borgese, Bolzano e Trento di faccia, L’Alto Adige contro l’Italia cit., pp. 28-40.

52. Ivi, p. 40.

53. Ivi, p. 54.

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b) La seconda parte del libro: una proposta

La seconda parte tenta di essere più propositiva. Borgese vi analizza i programmi di quattro partiti locali che propongo- no soluzioni su temi come la vita scolastica, la ripartizione delle tasse, l’organizzazione dell’esercito, ecc. Di questi quat- tro progetti, due sono stati proposti da componenti di lin- gua tedesca e ladina e due da componenti di lingua italiana.

Secondo il politologo siciliano, i gruppi non italofoni fanno affermazioni non accettabili. L’autore si concentra quindi sulle due opzioni di lingua italiana. La prima è quella dei «so- cialisti trentini». Seguendo lo spirito internazionalista di que- sto partito, essi ritengono che la questione non possa essere risolta dalle parti interessate, ma sollecitano una concertazio- ne internazionale super partes. Per Borgese questa ipotesi mo- stra troppa debolezza. Il programma politico che lo interessa maggiormente è quello dei «Battistiani socialisti» – ispirato all’ideologia dell’irredentista nazionalista Cesare Battisti.

Di stampo nazionalista, questa posizione è comunque me- no estrema di quella di Ettore Tolomei, l’ultra-nazionalista trentino che continuava in quegli anni la sua azione politica.

Tolomei pubblica opuscoli sull’utilità del Trentino Alto Adi- ge per l’Italia e nel 1923, dopo essere entrato nel partito na- zionale fascista, presenta un programma di nazionalizzazione della regione. Borgese non cita l’esperienza di Tolomei, ma ancora una volta si situa tra i nazionalisti moderati.

Ricordiamo inoltre che, nei primi anni del fascismo, le manifestazioni commemorative per la morte di Battisti si so- no trasformate in manifestazioni antifasciste. Quindi Borgese dimostra la sua linea di nazionalismo moderato e precursore del suo antifascismo.

I «Battistiani socialisti» chiedono alle popolazioni di lin- gua tedesca di integrarsi nella realtà italiana. Auspicano che le decisioni riguardanti la nuova provincia acquisita siano prese dal governo italiano e che essa non goda di uno status privilegiato, ma sia trattata come le altre province: «entri a far parte integrante dello Stato italiano con tutti gli oneri ed i diritti che l’unità comporta»54.

Si oppongono inoltre alle richieste dei socialisti altoate- sini, che non si riconciliano né con l’integrità dello Stato

54. Borgese (1921), p. 88.

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147 italiano né con la sua sicurezza strategica: «né coi concetti so- vrani della integrità dello Stato né con quelli della sicurezza strategico-geografica ora raggiunta come uno degli obbiettivi della guerra nazionale»55. Sottolineano che i tedeschi sono solo cittadini che parlano un’altra lingua, ma con gli stessi di- ritti di tutti i loro nuovi compatrioti: «che parlano una lingua diversa, ma non per questo aventi diritto a speciali privilegi o a particolari situazioni giuridiche»56.

Nel 1921, il fervore patriottico di Borgese era ancora vivo.

La sua forza dialettica e la sua fermezza ideologica ci fanno capire che, sebbene avesse gradualmente abbandonato il suo ruolo politico nel panorama culturale italiano, il suo interes- se per la politica non è ancora definitivamente svanito. Nulla, nel suo percorso, lascia supporre un ripensamento delle cau- se dell’interventismo. Rubè ci sembra quindi più un’accusa al modo in cui è stata fatta la guerra e a ciò che ha comportato, ma non rinnega per questo le scelte del biennio 1914-1915.

Golia. La marcia del fascismo: analisi storica del conflitto?

Le posizioni espresse a ridosso del conflitto sono riprese negli anni 1930 durante l’esilio americano. Possiamo soffermarci in particolare sull’anomalia della sua grande opera antifascista:

Golia. La marcia del fascismo57 (1937). In effetti, se compariamo Golia alle altre opere degli espatriati politici italiani, possiamo facilmente constatare che il libro di Borgese comporta un’am- pia sezione introduttiva assente in altri testi. Golia inizia con un lungo excursus sulla cultura italiana dal tempo di Dante al Risorgimento. Dopo questa lunga prefazione, Borgese dedica un’ampia sezione alla Prima guerra mondiale.

Questa lunga digressione ha molti meriti. In primo luogo, spiega che la nascita del movimento fascista è stata la con- seguenza della Grande Guerra. In secondo luogo, serve a giustificare la condotta diplomatica dell’autore e a ricercare la coerenza tra il nazionalismo prebellico e l’antifascismo. In Golia, infine, Borgese non rinnega i valori risorgimentali che lo ispirarono nel 1914-1915:

Se l’Italia del Risorgimento, tutta ispirata alla moralità, fosse stata ancora viva, che strada avrebbe scelto? È assurdo

55. Ivi, p. 89.

56. Ivi, pp. 89-90.

57. Borgese (1937-1946).

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pensare che Mazzini e Garibaldi avrebbero parteggiato per l’Austria contro la Serbia, per la Germania contro la Fran- cia e il Belgio. Essi certamente avrebbero voluto la guerra, l’ultima guerra, la guerra santa, Trento e Trieste, i confini d’Italia designati da Dio, una federazione d’Europa, il mon- do libero.58

In Golia, nello spazio riservato alla Grande Guerra, Borgese dedica alcune pagine anche agli sviluppi diplomatico-terri- toriali cui si è arrivati alla fine del conflitto. Egli difende i risultati diplomatici del 1919 contro la retorica della vittoria mutilata, senza rinnegare mai le sue scelte. Inoltre, grazie a queste pagine, Borgese può inviare un messaggio in cui ac- cusa implicitamente il fascismo delle violenze che ha subìto.

Il suo astio contro Mussolini che, più che in altre opere anti- fasciste, prende di mira il personaggio più che i fatti politici, sembra essere il risultato di una scrittura catartica che tende a sublimare la sofferenza subìta per le sue scelte politiche sulla Dalmazia del 1916-1918.

Ancora nel 1937 Borgese si esprime sulle conseguenze della guerra. Lo fa senza rinnegare le proprie posizioni. Anzi, in questo libro cerca più che altrove di mostrare la continuità e la coerenza di tutte le sue scelte, alle volte compiendo l’o- perazione contraria, ovvero dissimulando le contraddizioni del suo percorso che riguardano, a dire il vero, più la fase prebellica (1900-1915) che quella postbellica (1915-1937).

Le tematiche che emergono sono le stesse e mirano a le- gittimare le ragioni del suo interventismo e le sue posizioni sull’occupazione della Dalmazia, difendendo il suo patriot- tismo e le sue scelte antifasciste. Nella sua accesa militanza o nella sua ricostruzione dei fatti, pare che la scrittura sia sem- pre influenzata dalla necessità di convincere il pubblico, non solo della bontà delle sue teorie, ma anche della giustezza di tutte le sue scelte passate.

Possiamo infatti considerare che per Borgese scrivere sulla guerra è sempre anche un’espressione del trauma vissuto.

Nei suoi discorsi non c’è un’analisi pacata poiché il rapporto tra l’analisi e il vissuto è troppo doloroso. A causa del suo impegno di quegli anni, Borgese è emigrato, è stato minac-

58. Ivi, pp. 126-27.

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149 ciato, ha perso la sua posizione di politologo influente, e ha rinunciato ad una carriera universitaria cui sicuramente te- neva. Quindi la sua scrittura storica sulla guerra non è serena e distaccata, ma è sempre legata all’esperienza del passato.

In fondo, si tratta ancora di una scrittura militante poiché non riesce a prendere le distanze da quell’esperienza di vita cui abbiamo dedicato spazio all’inizio del nostro intervento.

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