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Academic year: 2021

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Un solo mondo

«Swissness»

La differenza che fa la forza

Sudafrica: paese dinamico, determinato e pieno di sfide

Ricercatori di Nord e Sud insieme per il futuro

(2)

Sommario

D O S S I E R

D S C

F O R U M

6

«Swissness»

La differenza che fa la forza

La cooperazione svizzera può acquistare maggiore efficacia se usa un approccio tipicamente elvetico e si concentra su un numero limitato di temi

12

«Le bandiere ormai sono fuori moda»

Un’intervista con Eckhard Deutscher, Direttore del Comitato di aiuto allo sviluppo dell’OCSE

14

Un mito e il suo impatto

La democrazia diretta svizzera può servire da base per la riforma costituzionale in Bosnia e Erzegovina?

16

Ponti sospesi per promuovere la pace

I primi esperti svizzeri sono partiti per il Nepal alla fine degli anni 1950. Da allora gli approcci della cooperazione svizzera sono profondamente mutati

17

Cifre e fatti

18

Diamanti neri dalle idee chiare

In Sudafrica è cresciuta una nuova orgogliosa generazione di giovani lavoratori di colore. In essa si riflettono la dinamica e le sfide degli sviluppi più recenti

21

Colloqui a Città del Capo su sfide transfrontaliere

Una giornata tipica di François Droz, responsabile dell’Ufficio di cooperazione svizzero a Pretoria

22

Sogni

Elsie Nantuli Mampa illustra speranze e sogni dei giovani sudafricani

23

Svizzera e UNICEF insieme per ricostruire le scuole In Sri Lanka e nel Pakistan la DSC e l’UNICEF hanno unito le forze

25

Un grande potenziale per i paesi d’origine

Il contributo dei migranti allo sviluppo del proprio paese d’origine riveste un’enorme importanza a livello finanziario, sociale e culturale

27

Ricercatori in dirittura di arrivo

Dal 2001, ricercatori svizzeri collaborano con colleghi del Sud e dell’Est per trovare delle soluzioni ai cambiamenti radicali in atto nei paesi poveri

28

Una valanga di scienza e di materia grigia

Intervista con Hans Hurni, Direttore del Polo di ricerca nazionale (PRN) Nord-Sud

30

Essere liberi e integrarsi

Carta bianca: Ekrem Çitaku, intellettuale kosovaro di Pristina, illustra il percorso della democrazia nel Kosovo

31

Zurigo e Adis Abeba insieme per lo sviluppo

Per i paesi in via di sviluppo come l’Etiopia, il controllo dello sviluppo urbano rappresenta una fra le sfide più importanti

3

Editoriale

4

Periscopio

26

Dietro le quinte della DSC

26

Che cos’è… il dialogo politico?

33

Servizio

35

Impressum

35

Nota d’autore con Bettina Oberli O R I Z Z O N T I

C U L T U R A

La Direzione dello sviluppo e della cooperazione (DSC), l’agenzia dello sviluppo in seno al Dipartimento federale degli affari esteri (DFAE), è l’editrice di «Un solo mondo». La rivista non è una pubblicazione ufficiale in senso stretto; presenta, infatti, anche opinioni diverse. Gli articoli pertanto non esprimono sempre il punto di vista della DSC e delle autorità federali.

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Chi vuole incidere deve concentrarsi sui suoi punti forti. Questo principio vale anche per la cooperazione allo svi-luppo, la cooperazione con l’Est e l’aiuto umanitario. Se in futuro vogliamo incidere e dare un contributo ancora più importante alla riduzione della povertà nel mondo, dob-biamo sfruttare le nostre forze. Ecco cosa si intende con il termine «Swissness».

Si tratta di occupare campi tematici nei quali abbiamo par-ticolari probabilità di successo e di scegliere approcci me-todologici che sappiamo maneggiare con particolare mae-stria.

La Svizzera è ricca di punti forti. Ne è un esempio l’acqua. Il nostro paese è il serbatoio d’acqua dell’Europa. La ge-stione e il trattamento dell’acqua e la generazione di ener-gia idrica si annoverano fra le nostre competenze di base. La Eawag è un istituto di ricerca idrica fra i più rinomati su scala internazionale. La Nestlé – una fra le multinazionali più prestigiose e fra gli investitori più importanti nel settore dell’acqua potabile – ha sede in Svizzera. La DSC, la SECO e molte organizzazioni non governative svizzere vantano ampie esperienze e una nomea internazionale in materia di acqua. È avvalendoci di queste nostre competenze che contribuiamo a risolvere i problemi locali e globali. L’acqua non è però l’unico nostro punto forte: vanno citati altresì la sanità, la formazione professionale, la microfi-nanza e molti altri settori.

La «Swissness» non si riferisce solo a singoli temi. I nostri punti forti possono essere utilizzati con massimo beneficio anche nella scelta delle modalità di intervento per affron-tare i problemi dello sviluppo e le sfide umanitarie. Non siamo tecnocrati, né burocrati. Prendiamo sul serio la po-polazione nei paesi in cui operiamo. Un elemento inte-grante della Swissness è la predilezione delle soluzioni a misura d’uomo e dell’azione basata sui valori.

La «Swissness» non è importante solo nei programmi e nei progetti della cooperazione bilaterale, ma anche per il la-voro svolto nelle e con le organizzazioni internazionali. Le

nostre azioni devono essere visibili – per le persone di-sagiate in tutto il mondo così come per le cittadine e per i cittadini svizzeri. Ma non facciamo quel che facciamo per acquisire visibilità. La «Swissness» non è uno stratagemma inventato da un esperto di relazioni pubbliche. Solo chi con le sue attività crea qualcosa di sostenibile, riuscirà a con-vincere anche a lungo termine. Pubblicità o iniziative su-perficiali di autopromozione non servono a nulla. Alla fine, è proprio la presenza modesta della Svizzera il nostro mar-chio di qualità – anche nella cooperazione internazionale. «Swissness» non significa cammino solitario. Il coordina-mento, un buon allineamento alle realtà locali e alle inten-zioni degli altri Stati donatori e organizzainten-zioni internazionali si iscrivono da sempre fra i punti forti della nostra coope-razione. E saranno fondamentali anche per il nostro futuro. Nei prossimi anni, la capacità di reagire con sensibilità alle condizioni vigenti in altre cerchie culturali e nei paesi in cui operiamo assume un’importanza ancora più grande. Siamo dotati di premesse particolarmente vantaggiose – proprio per via della nostra storia e della nostra esperienza – per cogliere queste sfide. Anche questo punto forte è una caratteristica della «Swissness».

Forse, cara lettrice, caro lettore, lo avete già notato dalla copertina di questo numero: abbiamo leggermente modifi-cato la veste grafica di Un solo mondo. Ma non vogliamo portare una ventata di aria fresca solo attraverso un nuovo layout, ma anche offrendovi una gamma di contenuti più ampia e proponendo approcci ancora più accattivanti. Ci rallegriamo dei riscontri che vorrete farci pervenire e vi au-guriamo una piacevole lettura.

(Tradotto dal tedesco) Martin Dahinden Direttore DSC

Editoriale

«Swissness»: sfruttare i nostri punti

forti per creare valore aggiunto

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Wo rld Agr ofor estry Centr e/Charlie Pye-Smith Paul Hahn /laif

Pe

riscopio

Grande speranza nell’albero della gomma

(jls) Nella regione di Nara, nel nord del Mali, si cerca di soprav-vivere come meglio si riesce in territori completamente degradati. Gli abitanti di quattro villaggi hanno riposto grandi speranze nelle acacie senegal, prefiggendosi di coltivare 6000 ettari entro il 2012 nel quadro di un progetto di sviluppo che riunisce un istituto di ricerca, un’impresa agroindustriale e le comunità locali. Questa pianta si è ben adattata al clima del Sahel ed è molto promettente, poiché arricchisce il suolo e assorbe CO2, gas nocivo per lo strato di

ozono. Il progetto, dunque, spera di vendere crediti di car-bonio alle imprese inquinanti del Nord che non riescono a rispettare le loro quote di emissioni di gas ad effetto serra. Altro vantaggio: una volta cre-sciute le acacie produrranno gomma arabica, che potrà essere esportata. Il progetto ha già cambiato la vita dei villaggi: dato che la manutenzione dei vivai ha creato impieghi, le fa-miglie non sono più obbligate ad emigrare temporaneamente per sopperire ai loro bisogni.

Più ricercatrici

(bf) Nei paesi in via di sviluppo,

tra il 2002 e il 2007 il numero dei ricercatori è aumentato ra-pidamente da 1,8 a 2,7 milioni. Secondo l’Istituto di statistica dell’Unesco (UIS) di Montreal, che raccoglie i dati di riferi-mento della ricerca a livello mondiale, la crescita è avvenuta soprattutto in Cina (un ricerca-tore su cinque nel mondo è cinese). La crescita della ricerca nei paesi in via di sviluppo ed emergenti si ripercuote anche sulla quota mondiale di donne nella ricerca (29 per cento). In Africa le donne rappresentano il 33 per cento dei ricercatori, mentre la quota più alta spetta al Sudamerica (46 per cento) e all’Asia centrale (50 per cento). In Europa sono soltanto cinque i paesi con una parità fra i ge-neri: la Macedonia, la Lettonia, la Lituania, la Moldavia e la Serbia. Unione europea, Stati Uniti e Giappone fruiscono del 70 per cento dei fondi assegnati alla ricerca e allo sviluppo. L’economia privata finanzia, in questi paesi, oltre il 50 per cento della spesa; nei paesi in via di sviluppo la quota soppor-tata dal settore privato è netta-mente inferiore.

www.uis.unesco.org

Presto nuovi frutti africani in tavola

(gn) Il dolce mango africano e la prugna selvatica africana sono da sempre considerati delle vere prelibatezze e preziose fonti vi-taminiche. La popolazione locale li raccoglie e li apprezza molto come complemento alimentare. Rober Leakey, già direttore della ricerca presso il Centro internazionale di ricerca in agroforesta-zione (ICRAF) parla, a tale proposito, di «piante di Cenerentola» in grado di giocare un ruolo chiave per lo sviluppo locale. Unitamente a diverse organizzazioni partner, nel 1998 ha lanciato in Camerun e Nigeria un programma per la coltivazione di varietà locali di frutta che in poco tempo ha ottenuto un incredibile suc-cesso: oggi solo nel Camerun sono diverse centinaia le famiglie di contadini a gestire vivai propri. Le nuove linee di coltivazione e la frutticoltura migliorano non soltanto la sicurezza alimentare della popolazione, ma anche le fonti di reddito. Il potenziale è lungi dall’essere esaurito: nei prossimi anni, infatti, potrebbero essere ben due dozzine le varietà di frutta della macchia africana ad essere nobilitate e lanciate sul mercato – fra di esse vari tipi di susine, le bacche di vitex payos («bacche di cioccolata») o i frutti del piede d’elefante.

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Sven

To

rfinn

/Panos

/Strates

poveri. Dato che l’industria farmaceutica è più interessata alla ricca clientela del Nord, dei 1556 medicamenti autorizzati tra il 1975 e il 2004, soltanto 21 erano destinati alla cura di ma-lattie tropicali. Ora piccole im-prese del Sud hanno iniziato a sviluppare medicamenti propri. Su 62 nuovi composti, 28 sono già sul mercato – anche un vaccino contro il colera. Molti di questi medicamenti sono al momento disponibili solo local-mente, ma potrebbero essere presto esportati. «Si tratta di un nuovo filone d’oro che non viene ancora sfruttato appieno», afferma Peter Singer, coautore di uno studio sulle innovazioni nel settore sanitario. Ma qual è il vantaggio dei medicinali pro-dotti in loco e perché bisogna incentivarne la produzione? Sono adatti alle condizioni

laro a dose – lo stesso prodotto di un’industria farmaceutica occidentale costa 25 dollari. www.mrcglobal.org

Salvare la biodiversità del caffè

(bf) Il governo etiope intende proteggere, in collaborazione con l’Unesco e altri partner, le ultime foreste naturali di caffè selvatico presenti nel sud-ovest del paese. Le selve montane della regione di Kafa sono ritenute un’incommensurabile risorsa genetica, poiché sono l’origine e il centro della diver-sità del caffè arabica (coffea ara-bica), di cui si contano in quei luoghi 5000 differenti varietà. Negli ultimi anni le foreste sono state progressivamente convertite in superfici agricole e piantagioni di caffè; tra il 1988 e il 2008, la superficie

comples-siva si è ridotta così quasi del 43 per cento. Si prevede ora di rimboscare con specie selvatiche e da produzione indigene 700 ettari di superfici di foresta na-turale e coltivabili. Si vuole, inoltre, elaborare e gestire con le popolazioni di questa biosfera protetta lo sfruttamento di 10000 ettari di bosco seguendo metodi di silvicoltura sosteni-bili. Il progetto che nel suo

genere è molto ambizioso non assicurerà soltanto la tutela della biodiversità nella regione, ma aiuterà anche la popolazione locale a migliorare il proprio tenore di vita.

(6)

DOSSIER

«Swissness»

La differenza che

fa la forza

Il rating del marchio «Svizzera» nel mondo va per la maggiore

– nonostante i fondi in giacenza delle vittime dell’Olocausto, la

crisi del sistema bancario e l’iniziativa anti-minareti. Ancora

oggi il termine «Svizzera» è sinonimo di precisione, alta

quali-tà e stabiliquali-tà politica. Ora il Direttore della DSC Martin

Dahin-den esige «più Swissness» nella cooperazione allo sviluppo e

lancia così un dibattito sull’orientamento futuro dell’impegno

svizzero nel mondo. Di Gabriela Neuhaus.

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Paul Hahn /laif Francesco Zizola /NOOR /laif Christoph Bangert /laif Nayan Sthankiya 2005 /Redux /laif

Devastazione, miseria e emergenza dopo il terre-moto che ha colpito Haiti – e i cani da soccorso della Svizzera sono restati a casa.Una decisione che ha fatto scattare una violenta protesta nell’opinio-ne pubblica: per anni la catena di salvataggio è sta-ta il fiore all’occhiello dell’aiuto svizzero, soprat-tutto in caso di terremoto, e rappresenta in sintesi ciò che generalmente si intende per «Swissness»: un team di specialisti che si recano sul posto in caso di emergenza.Professionisti che portano dalla Sviz-zera un aiuto efficace e affidabile.

«Dopo il terremoto che ha colpito Haiti abbiamo dovuto svolgere un assiduo lavoro di convinzione per dimostrare che l’Aiuto umanitario svizzero in questo caso avrebbe avuto un’efficacia maggiore con l’invio di équipe mediche e specialisti dell’ac-qua.Stiamo parlando del più importante intervento di aiuto d’emergenza prestato dal Corpo svizzero di aiuto umanitario e dal Corpo di aiuto in caso di catastrofe che vi sia mai stato». Fedele alla sua

convinzione, il Direttore dell’Aiuto umanitario della ConfederazioneToni Frisch ha scelto un ap-proccio comunicativo molto diretto per informa-re la popolazione: «La Svizzera tende a metteinforma-re la fiaccola sotto il moggio,quando ne va dei suoi me-riti – e sbaglia: dobbiamo avere una presenza più incisiva,anche nella cooperazione allo sviluppo.Sia nei confronti dell’opinione pubblica, che ci finan-zia, sia nei confronti dei paesi partner e delle altre agenzie per lo sviluppo».

Una buona cooperazione basata su contatti diretti

Con questa dottrina,Toni Frisch è in linea con il Direttore della DSC Martin Dahinden,il cui obiet-tivo è di dare in futuro maggior visibilità alla pe-culiarità della cooperazione svizzera. La sua riven-dicazione,che egli colloca sotto il motto «più Swiss-ness», tuttavia desta qualche interrogativo e incute timore: cosa significa il marchio «Swissness» nel

Arrivare, aiutare e marcare presenza – alcuni donatori sono discreti, altri meno: così come la Svizzera e l’ONU in occa-sione del terremoto ad Haiti (sinistra) di inizio anno, anche altri paesi e agenzie amano far vedere chi sono e da dove vengono

Max

Fahr

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Michael Riehle /laif Richar d Gerster

contesto della lotta alla povertà? Quali sono i suoi effetti, e chi ne beneficia?

«Nella cooperazione allo sviluppo la Svizzera in qualità di partner deve imporsi di più a livello di contenuto»,spiega Martin Dahinden,illustrando la sua iniziativa. «Sono estremamente scettico nei confronti di un impegno per lo sviluppo che si li-mita al trasferimento anonimo di mezzi finanzia-ri. Una buona cooperazione si basa sui rapporti già esistenti fra i paesi e le persone, sui contatti di-retti». Negli ultimi anni, la DSC si sarebbe com-portata sempre più come una fondazione,che si li-mita a finanziare progetti, rinunciando però ad un coinvolgimento più attivo nella loro configurazio-ne. «Secondo me questa è la strada sbagliata», dice Dahinden. Rivendicando «più Swissness» vuole innescare un cambiamento di rotta, che andrà ra-dicato anche nel nuovo «Messaggio Sud» del 2013. Sempre secondo Dahinden occorre agire su due piani: consolidando l’«approccio tipicamente sviz-zero» nella collaborazione con i partner e concen-trandosi su tematiche in cui la Svizzera dispone di vantaggi competitivi.

Grande potenziale per le tematiche svizzere

Già in passato la varietà tematica in seno alla DSC, ma anche nelle altre agenzie per lo sviluppo,ha su-bito una notevole riduzione, con l’obiettivo di ca-nalizzare le forze e ottenere così un’efficacia mag-giore.Martin Dahinden ora vuole promuovere ul-teriormente questa concentrazione: in futuro la DSC dovrà focalizzare la sua attenzione su tema-tiche in cui la Svizzera può fornire prestazioni eccellenti. «La Svizzera è la riserva idrica d’Euro-pa – disponiamo di un enorme know-how nella gestione delle risorse idriche e nel loro sfrutta-mento, l’Istituto federale per la ricerca sulle acque EAWAG si annovera fra le istituzioni di ricerca più

prestigiose del settore e con la Nestlé abbiamo in Svizzera la sede di una multinazionale che opera investimenti globali nel settore dell’acqua. E la stessa DSC dispone di esperienze decennali e ha riscontrato successi notevoli». Si tratta di ottime premesse, che ci permetteranno di assumere un ruolo centrale a livello internazionale, anche in qualità di donatore minore. Dahinden vede po-tenzialità analoghe nei settori sanità, formazione professionale e microfinanza.

Nonostante i vantaggi incontestabili di una con-centrazione tematica, vi sono anche inconvenien-ti e pericoli: «In presenza di una forte specializza-zione, le agenzie per lo sviluppo tenteranno di at-tirare l’attenzione sui punti di loro interesse e di vendere ai partner quello di cui dispongono»,teme il Direttore della Helvetas Melchior Lengsfeld. Anton Stadler,Direttore della sezione analisi e po-litica della DSC, per principio mette in questione una cooperazione incentrata sulla specializzazione dei paesi donatori: «Lo sviluppo deve essere pla-smato secondo i desideri e la volontà della società di un paese in via di sviluppo in collaborazione con una comunità ben organizzata. Non deve essere il risultato di un raffronto fra i vantaggi offerti dai do-natori presenti per caso in un paese»,scrive nel suo documento di posizione relativo alla «Swissness» e alla visibilità nella cooperazione allo sviluppo. Di opinione simile è Michèle Laubscher, esperta di Alliance Sud, che però identifica anche alcuni lati positivi nella limitazione ad un’offerta temati-ca di alto profilo: «I problemi subentrano invece se l’offerta non è in linea con le esigenze dei paesi prioritari». Ma Laubscher teme anche la perdita della visione d’insieme se ci si concentra su una se-lezione di tematiche orchestrata dalla Svizzera.

Coraggio e affidabilità

Se vogliamo rafforzare l’«approccio tipicamente

L’agricoltura come biglietto da visita Nel ventaglio di biglietti da visita della cooperazione svizzera si inserisce anche quello dell’impegno a fa-vore di una agricoltura a misura dei piccoli coltiva-tori. Gli approcci innovatori sono sviluppati fino a con-cretizzarsi in modelli il cui impatto supera di gran lunga la portata del progetto originario. Ne è esempio l’introdu-zione dei silo di lamiera per la conservazione del raccolto. Il progetto «Postcosecha» è stato lanciato nel 1980 nelle Honduras: gli esperti della DSC hanno cercato, in-sieme ai partner, di elimi-nare le perdite post-rac-colto dei piccoli agripost-rac-coltori. Inizialmente con scarso successo. Solo l’introdu-zione dei silo di metallo, in combinazione con una istruzione precisa per la fabbricazione dei conteni-tori, nonché con la forma-zione dei contadini ha portato al successo. Ben presto il metodo è stato trasferito ad altri paesi lati-noamericani. E in futuro potrebbe conoscere un’ul-teriore diffusione: l’istituto internazionale dei cereali CIMMYT ha lanciato, con sostegno della DSC, pro-getti pilota in svariati paesi dell’Africa.

www.postcosecha.net

Da molti anni, la Svizzera sostiene lo sviluppo rurale in diversi paesi. In segno di riconoscenza la città di Ouahigouya, nel Nord del Burkina Faso, ha donato il suo nome ad una strada d’accesso alla città

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Sven

To

rfinn

/laif

svizzero», occorre chiedersi innanzitutto se poi esso esista,almeno così come viene percepito e sti-mato dai partner. Dai sondaggi si direbbe di sì – anche se tipico non significa unico. Fra le parole chiave citate in rapporto alla cooperazione svizze-ra figusvizze-rano termini quali affidabilità, prossimità al partner, disponibilità all’innovazione e flessibilità. Per il suo libro «Swissness made in India», Richard Gerster esperto svizzero per questioni correlate allo sviluppo, ha approfondito la questione attraverso una serie di interviste condotte in India ed è giun-to alla conclusione che quello che viene percepi-to della cooperazione allo sviluppo sono soprat-tutto le modalità della cooperazione:«Swissness si-gnifica mettere il partner al centro dell’attenzione, promuovere le sue capacità personali e

istituziona-li, dargli la precedenza, mentre noi stessi prendia-mo posto sui sedili posteriori».

Si esprime in termini simili anche Mamadou Goï-ta, Direttore esecutivo dell’istituto per la ricerca e la promozione dello sviluppo alternativo IRPAD: «Nel Mali la Svizzera ha raccolto maggior succes-so rispetto ad altri operatori, perché abbiamo svi-luppato insieme i progetti, muovendo un passo dopo l’altro. Così è stato possibile dare una rispo-sta flessibile alle esigenze sociali». L’unicità della cooperazione elvetica si spiega anche da come la Svizzera ha correlato il suo impegno a livello governativo con programmi regionali e locali. Ma salta all’occhio che Goïta utilizza il passato quan-do parla della peculiarità della partnership con la Svizzera: «Oggi si distingue sempre meno dagli

Approcci innovatori nella decentralizzazione «La decentralizzazione è un catalizzatore gran-dioso», afferma il Direttore della Helvetas Melchior Lengsfeld. «In Mali, con la costituzione di 700 nuovi comuni in quattro anni è stata creata più infrastrut-tura, che non in quarant’an-ni di Stato centralistico». La decentralizzazione costituisce una tematica importante della coopera-zione sin dagli anni 1990. In questo settore, la Svizzera si impegna in sva-riati paesi partner, basan-dosi soprattutto sul rafforza-mento delle strutture locali già radicate. «Che si creda all’importanza di un consi-glio comunale è tipica-mente svizzero», afferma Melchior Lengsfeld, che ha diretto il Programma Helvetas nel Mali per tre anni. Nel Mali, oggi, oltre all’approvvigionamento idrico, anche la formazione di base fa parte dei com-piti dei comuni. Questo permette un miglioramento del sistema educativo «dal basso». Gli approcci inno-vatori per scuole di base adeguati alle realtà locali ora vanno ancorati a livello statale con il sostegno della DSC.

Secondo Mamadou Goïta, la cooperazione Svizzera nel Mali è giudicata eccellente perché è flessibile nei suoi interventi, segnatamente per quanto concerne i progetti di formazione

(10)

altri: la burocrazia ha il sopravvento, e ne soffre la creatività. L’interscambio fra partner non esiste quasi più, non vi è più spazio per esperimenti nel-lo sviluppo di strumenti nuovi».

Combinazione vincente: aiuto budgetario e intervento diretto

«Il vantaggio più importante della Svizzera è che siamo percepiti come liberi da interessi di parte», ipotizza Melchior Lengsfeld. La Svizzera in quan-to piccola nazione senza ambizioni geopolitiche e scarso peso economico ha costruito il suo aiuto sulla base della solidarietà con la popolazione lo-cale.

Un’altra particolarità spesso citata è l’ampia base di sostegno su qui poggiano i programmi e progetti svizzeri: «La consapevolezza del fatto che c’è biso-gno di tutti,per me è qualcosa di tipicamente sviz-zero», dice Michèle Laubscher. «Sia DSC e Seco, sia le ONG svizzere seguono un approccio di

mul-tistakeholder: operano su piani diversi e

collabora-no con i partner svariati, quali movimenti di base, comunità,comuni e regioni,ma anche imprese pri-vate».

Soprattutto nei paesi prioritari,che vedono la Sviz-zera impegnata su un lasso di molti anni, si è svi-luppata una cooperazione pragmatica con una sud-divisione efficiente dei compiti, che potrebbe es-sere potenziata nel senso del marchio «Swissness»: mentre le ONG svizzere si concentrano in prima linea sulle organizzazioni partner locali, DSC e Seco si impegnano a livello istituzionale e sosten-gono amministrazioni e governi, per esempio nel-la formunel-lazione di leggi.Solo l’integrazione di que-sti livelli,insieme alla messa in rete di progetti,par-titi come progetti singoli che poi hanno formato programmi completi, permette uno sviluppo so-stenibile.

«Negli ultimi 40 anni la DSC si è allontanata dai piccoli progetti,quali la costruzione di scuole o

ca-«Quello che conta e cosa riusciamo a smuovere, e non solo quanto paghiamo». Martin Dahinden, Direttore DSC

Sanità (in alto: prevenzione della malaria) e formazione professionale (a destra: Bangladesh) sono due temi su cui si concentra la cooperazione svizzera

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G.M.B. Akash /Panos /Strates Wi lliam Daniels /Panos /Strates

seifici. Oggi sostiene la formazione di personale scolastico o ospedaliero, offre servizi di consulenza ai ministeri e ai comuni in materia di budget e per la creazione di infrastrutture. In futuro si dovranno migliorare le condizioni quadro della società civi-le per assicurare la sostenibilità dal basso», afferma ancora Michèle Laubscher.

Uno strumento importante nell’ambito del lavoro formativo a livello statale (Capacity Building) è l’aiu-to budgetario o di setl’aiu-tore, in cui i donal’aiu-tori iniet-tano direttamente i loro mezzi nel budget pubbli-co. Il governo partner cura il dialogo con i dona-tori, per discutere degli obiettivi prefissi e delle strategie da adottare.Attualmente la Svizzera con-cede un aiuto budgetario aTanzania,Burkina Faso, Mozambico e Ghana. «Così, la DSC può far con-fluire le sue esperienze dal campo direttamente nel dialogo politico al vertice», dice Richard Gerster, che su mandato della Seco ha analizzato l’im-pegno svizzero nell’aiuto budgetario. «È a questa combinazione di aiuto in loco e aiuto budgetario che dobbiamo la nostra reputazione ed è grazie a questa formula che nel dialogo spesso possiamo ottenere molto di più di quanto corrisponderebbe al nostro contributo, modesto nel raffronto inter-nazionale».

Sfide globali

In tutto il dibattito sulla visibilità e sulla «Swissness» affiora anche la domanda sul ruolo della coopera-zione nell’agenda politica della Svizzera.È un con-tributo di solidarietà per i più poveri o asseconda soprattutto gli interessi della Svizzera? Questa de-cisione è nelle mani dei politici, e non della DSC. «Facciamo parte della politica estera svizzera»,dice Martin Dahinden, «le prestazioni che forniamo vanno palesate e dichiarate. Una cosa però sareb-be inaccettabile: se impostassimo le nostre attività anzitutto in modo tale da dar loro visibilità. O se le utilizzassimo per perseguire altri obiettivi e non quelli della lotta alla povertà. E qui che io tirerei il freno d’emergenza». La cooperazione allo svilup-po tuttavia svilup-potrebbe fornire un contributo per ri-solvere i problemi globali, ecco perché dovrebbe collaborare maggiormente con altri settori politi-ci.A titolo d’esempio Martin Dahinden cita la mi-grazione: «Esiste un nesso fra sviluppo e migrazio-ne. Ecco perché dobbiamo occuparcene, anche se nella DSC molti non sono d’accordo con la poli-tica d’asilo svizzera».Vi sarebbe infatti il pericolo che i soldi per lo sviluppo possano essere usati in modo improprio per attuare misure restrittive con-tro i profughi.

Che le cose non devono svolgersi necessariamen-te in questi necessariamen-termini viene illustrato da Michèle Laubscher: «La DSC potrebbe permettere ad

arti-giani o infermiere provenienti da paesi prioritari di lavorare in Svizzera per un cero periodo di tem-po.In questo periodo si perfezionano nel loro me-stiere e al loro rientro possono sfruttare le loro espe-rienze.Una parte del guadagno viene reinserito nei flussi monetari del loro paese, e si vengono a crea-re rapporti interpersonali crea-reciproci». Un’idea di progetto con potenziale di «Swissness»: innovatri-ce, improntata alla partnership ed efficiente.■

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Andr

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Herzau

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Un solo mondo:Come viene accolta dalla

co-munità internazionale la cooperazione allo sviluppo sotto il marchio «Swissness»? Eckhard Deutscher: La Svizzera deve vendere la

sua cooperazione agli occhi dell’opinione pubbli-ca e del parlamento. A mio avviso si tratta di una questione interna di comunicazione, il cui obietti-vo è scoprire come distinguersi e come divulgare la politica dello sviluppo.Anche altri paesi donato-ri si stanno adoperando in tal senso.

Che senso hanno questo tipo di marchi pa-triottardi in un mondo sempre più globaliz-zato?

Non si tratta di trovare o di difendere un marchio. La domanda che si pone è: cosa possono apportare di straordinario i singoli paesi, quale è il loro parti-colare contributo? Gli Stati dell’UE, per esempio, si specializzano per settore,per evitare che tutti fac-ciano tutto. La cooperazione degli Stati Uniti si li-mita invece alle tematiche sanità, sicurezza alimen-tare, agricoltura, commercio e buongoverno. Per-sonalmente sono un sostenitore di questa tendenza che punta a definire priorità e sviluppare speciali-tà.Non possiamo fare tutti tutto,dobbiamo arriva-re ad una ripartizione dei compiti. E qui ogni do-natore è chiamato ad esaminare lui stesso con qua-li esperienze e quaqua-li apporti particolari può contribuire.

In questo contesto, qual è secondo Lei il ruo-lo della Svizzera?

I vantaggi della cooperazione svizzera risiedono so-prattutto nel suo modo di lavorare.Abbiamo defi-nito i punti forti in occasione dell’ultimo Peer

Re-view:prossimità ai partner,flessibilità in

loco,preve-dibilità degli investimenti. La Svizzera, inoltre, con i suoi numerosi progetti pilota dà prova di capaci-tà innovativa, dispone di un vasto know-how nel-la prevenzione dei rischi, che riesce a far confluire nei vari programmi,e il suo aiuto umanitario è ben radicato nella cooperazione sul lungo periodo. Se sente il bisogno di vendere queste qualità sotto l’e-tichetta di «Swissness», va bene.

La richiesta di maggior «visibilità» delle

pro-prie attività sorge dal desiderio di distinguersi nel raffronto internazionale. Quali vantaggi ne potrebbero risultare per la cooperazione allo sviluppo?

Il problema è che a livello internazionale la coope-razione è diventata un business.Tutti sono in com-petizione e sono interessati a mettere in atto un comportamento concorrenziale. Una situazione molto ambigua: da un lato posso capire che si trat-ta anche di occuparsi del proprio paese e che si vo-gliano contraddistinguere l’aiuto e i progetti con eti-chette o label corrispondenti. L’ex ministro degli esteri tedesco,ad esempio,voleva sempre che i pro-getti tedeschi portassero la bandiera tedesca. Penso che quest’approccio ormai sia obsoleto.Abbiamo a che fare con investimenti di politica allo sviluppo, destinati ad innescare un processo di cambiamento

Se la specializzazione dei donatori può essere auspicabile, non

lo sono certo le bandiere nazionali issate per marcare

presen-za. Lo afferma Eckhard Deutscher, Direttore del Comitato di

aiu-to allo sviluppo dell’OCSE. L’esperaiu-to dà alla cooperazione

sviz-zera un buon voto, segnalando tuttavia un potenziale di

mi-glioramento. Gabriela Neuhaus.

«Le bandiere ormai sono fuori moda»

Eckhard Deutscher è Presidente del Comitato di aiuto allo sviluppo (DAC) dell’OCSE dal 2008. In questa funzione ha diretto l’ultima valutazione (Peer Review) relativa alla coope-razione svizzera allo svi-luppo. Deutscher, nato nel 1949 in Assia, ha conse-guito un dottorato in scienze sociali, filosofia e cooperazione allo sviluppo a Francoforte sul Meno ed è stato docente universita-rio in Germania, Messico e Perù. Per cinque anni ha operato in Costa Rica per la Fondazione Friedrich-Ebert, dal 1991 al 2000 è stato Direttore della Fondazione tedesca per lo sviluppo internazionale (oggi Invent) a Bonn e dal 2002 al 2006 Direttore esecutivo presso la Banca mondiale a Washington.

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Mark

Henley

/Panos

/Strates

nei paesi partner. Che questi investimenti proven-gano dalla Svizzera, dall’Italia o dai paesi scandina-vi per i partner nel Sud non è poi di grande rilievo.

Lei auspica una specializzazione delle agen-zie per lo sviluppo sul piano dei contenuti. Come potrebbe ulteriormente distinguersi la cooperazione svizzera?

Importante è che la Svizzera cerchi delle nicchie. Riscontriamo un grosso fabbisogno nel settore del «Capacity Building»:non possiamo sempre solo far appello al buongoverno degli Stati, ma dobbiamo dare anche la dimostrazione pratica di come si co-struiscono sistemi trasparenti e istituzioni politiche. Si tratta di un settore abbastanza intelligibile e cir-coscritto,in cui urge un impegno addizionale e dove la Svizzera potrebbe basarsi su esperienze già ma-turate.

Quali reputa siano i punti deboli della poli-tica svizzera allo sviluppo?

«La Svizzera diventa ricca all’estero».Ho letto que-sta frase di recente al Museo Nazionale Svizzero. E mi sono chiesto se non si possa fare di più, in que-sto senso. La Svizzera dovrebbe essere interessata a

realizzare una prospezione del mercato globale – fa-cendo leva indirettamente sulla cooperazione allo sviluppo.Varrebbe la pena di riflettere anche su que-stioni come questa:in quale misura l’economia pri-vata – per esempio l’industria farmacologica – po-trebbe istaurare una cooperazione concettuale con gli operatori svizzeri per lo sviluppo? Penso che la politica non sfrutti abbastanza lo strumento «co-operazione allo sviluppo» per rispondere alle esi-genze globali dell’economia svizzera.

Ma è lecito strumentalizzare così la coope-razione allo sviluppo? Alla fine si tratta di mi-gliorare le condizioni di vita dei più poveri e non di ottimizzare l’economia di uno fra i paesi più ricchi del mondo.

La cooperazione allo sviluppo non è carità. Già da un pezzo non si tratta più di aiuto, ma di un’inter-pretazione corretta degli interessi propri che in-tendiamo soddisfare investendo in progetti di svi-luppo.Si tratta di investimenti per il futuro,che ope-riamo per plasmare la globalizzazione. In questo processo la politica dello sviluppo assume un ruo-lo centrale e può presentarsi consapevole del pro-prio valore. Contrariamente ad altre politiche, ad esempio la politica commerciale che si limita a re-golare,la politica dello sviluppo svolge un lavoro di prevenzione: con i suoi investimenti in paesi pove-ri pove-riduce la povertà contrastando così, ad esempio, la migrazione o il cambiamento climatico.■

(Tradotto dal tedesco)

«La cooperazione

allo sviluppo

non è carità».

Rapporto DAC Nell’ultimo rapporto di va-lutazione del DAC, pubbli-cato nel novembre del 2009, oltre alle lodi per la buona qualità della coope-razione svizzera figurano anche alcune critiche: con appena 2,2 miliardi di fran-chi svizzeri all’anno, l’ali-quota dell’aiuto pubblico allo sviluppo fornito dalla Svizzera attualmente corrisponde appena allo 0,42 per cento del pro-dotto nazionale lordo ed è dunque inferiore alla media dello 0,47 per cento raggi-unta dagli Stati membri dell’OCSE. Il DAC racco-manda urgentemente un aumento a breve termine allo 0,5 per cento e un in-cremento articolato su un arco di tempo più lungo fino al raggiungimento dell’obiettivo prefisso dall’ONU dello 0,7 per cento. Fra gli altri punti di critica espressi nel rap-porto DAC nei confronti della politica svizzera allo sviluppo figurano: man-canza di coerenza e comu-nicazione lacunosa. www.deza.admin.ch (ri-cerca: DAC Peer Review 2009)

La cooperazione allo svi-luppo è divenuta un affare e segue oramai logiche concorrenziali (in basso a sinistra: Congo). Secondo Eckhard Deutscher, la Svizzera potrebbe acqui-stare maggiore profilo col-laborando maggiormente con le imprese multinazio-nali

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Paul

Hahn

/laif

(gn) In febbraio Elisabeth von Capeller ha percor-so in lungo e largo il Nepal centrale. Insieme alla sua équipe e ai partner locali, la Direttrice dell’uf-ficio svizzero di cooperazione in Nepal ha verifi-cato se gli obiettivi prefissi sono stati raggiunti, se si delineano sviluppi imprevisti e come perfezio-nare il lavoro. «Mi reco spesso nei distretti e discu-to con la gente del posdiscu-to.Analizziamo la situazio-ne e adeguiamo i progetti al contesto specifico, es-sendo il Nepal tuttora stretto in una situazione di conflitto», afferma Elisabeth von Capeller. «Que-sta presenza sul campo è importante, perché solo se conosciamo il contesto possiamo ottenere buo-ni risultati e far confluire le esperienze anche nel dialogo politico».

Meglio la competenza dell’onnipresenza

La consapevolezza delle interazioni fra progetti di sviluppo, politica e società, si è accresciuta duran-te la fase più sensibile della guerra civile. Ne è sca-turito un approccio nuovo per i progetti DSC in Nepal.Avendo riconosciuto che le origini del con-flitto sono di carattere sia sociale che economico e che per garantire la pace occorre considerare tut-te e due le dimensioni, i responsabili hanno deciso di focalizzare l’attenzione sui gruppi di popolazio-ne socialmente ed economicamente discriminati.

Ponti sospesi per promuovere

la pace

«La Svizzera ha mantenuto i suoi impegni in Ne-pal anche nei momenti più difficili», risponde l’e-sperto in conflitti Bishnu Raj Upreti alla doman-da se l’impegno della Svizzera si distingue doman-da quel-lo di altri donatori. «Anziché, come hanno fatto molti altri, ritirarsi dai territori interessati dal con-flitto, la Svizzera ha ampliato il suo strumentario e oggi nella sua gestione dei progetti ha integrato an-che una pianificazione sensibile ai conflitti». In termini di budget, la Svizzera non può stare al passo con i grandi donatori neanche in Nepal. I suoi punti forti, secondo Bishnu Raj Upreti, risie-dono piuttosto nella sua capacità di concentrarsi su determinate tematiche: «La Svizzera non cerca di immischiarsi dappertutto, ma canalizza i suoi sfor-zi nei settori in cui è competente. Inoltre è l’uni-ca donatrice che opera fedele al principio dell’ap-proccio governativo globale: le istituzioni svizzere seguono una linea univoca e globale.Si tratta,è ov-vio, di un approccio eccellente per il raggiungi-mento degli obiettivi più ampi».

Oggi costruiscono i ponti da soli

La presenza della cooperazione svizzera in Nepal risale al 1958, anno in cui arrivano i primi casari, allevatori di bestiame e architetti. Nasce da lì una moltitudine di progetti di sviluppo incentrati

so-I primi esperti di agricoltura incaricati di costruire dei caseifici

in Nepal sono partiti dalla Svizzera alla fine degli anni 1950. Da

allora i metodi e gli approcci applicati dalla cooperazione

sviz-zera sono profondamente cambiati: oggi la Svizsviz-zera è

im-pegnata nella lotta contro la discriminazione economica e

so-ciale, nel dialogo politico e sul piano diplomatico.

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Shehab

Uddin

/Still

Pictur

es

la pace. Quando nella primavera del 2005 la situa-zione esplode, su iniziativa della Svizzera l’ONU decide di inviare in Nepal una commissione per i diritti umani.

La Svizzera fornisce inoltre un contributo per l’elaborazione e l’attuazione dell’accordo di pace, dopo il crollo della monarchia. «Il nostro impegno pluriennale e la conseguente conoscenza del pae-se e della gente, hanno spianato la strada alla col-laborazione con i rappresentanti politici e reso possibile il nostro impegno nel processo di pace», dice Elisabeth von Capeller.

La conseguenza logica di questa maggiore presen-za diplomatica è l’inaugurazione dell’Ambasciata svizzera nell’estate del 2009. Anche in futuro la Svizzera vuole impegnarsi in Nepal sia a livello po-litico che direttamente sul campo, affinché mi-gliorino le condizioni di vita dei più poveri e sia istaurata la pace. Alla domanda, quale sia la sua visione di una partnership futura fra Svizzera e Nepal, Bishnu Raj Upreti risponde: «Il Nepal si trova dinanzi a nuove sfide, i problemi legati alla politica commerciale,alla sicurezza alimentare o alla migrazione non possono più essere considerati solo a livello nazionale, in futuro essi richiedono un approccio regionale – anche da parte della DSC. Inoltre auspicherei maggiori investimenti nei settori ricerca e scienza».■

(Tradotto dal tedesco)

prattutto su agricoltura, selvicoltura, formazione professionale, nonché costruzione di strade e pon-ti. Grazie alla collaborazione tradizionalmente po-sitiva fra le ONG svizzere attive in Nepal e la DSC, i partner nepalesi percepiscono l’impegno svizze-ro come una presenza coordinata ed unitaria. Ben presto viene fornito sostegno per la costru-zione di ponti sospesi, che assicurano il collega-mento fra le comunità e le vie commerciali. Negli anni ’60 prende avvio la pianificazione dei progetti edili, che culmina nel 1972 nel Programma ponti sospesi. Inizialmente il programma era focalizzato sull’aiuto tecnico edile, poi sono prevalsi gli aspet-ti legaaspet-ti allo sviluppo urbano dei villaggi, il com-mercio locale nonché la formazione di artigiani, ingegneri e di specialisti amministrativi.

Oggi, il Nepal è in grado di costruire da solo ogni anno oltre 200 nuovi ponti per pedoni. Il governo ha delegato la responsabilità alle autorità locali. La Svizzera, in futuro, parteciperà all’ampliamento di questo programma insieme ad altri donatori, ma solo nell’ambito di un fondo e attraverso attività di consulenza tecnica a livello governativo.«Negli ul-timi 30 anni abbiamo costantemente perfezionato il Programma ponti sospesi, e oggi possiamo affi-darlo allo Stato nepalese.Anche questo fa parte del-la Swissness», si rallegra Elisabeth von Capeller.

Più attività diplomatiche

Con l’inasprimento del conflitto tra ribelli maosti e governo, a partire dal 1998 l’impegno svizzero si sposta sempre più sulle misure di promozione

del-Visibilità in Nepal Dall’inasprimento della violenza nella guerra ci-vile, sulle autovetture che trasportano i colla-boratori e le collabora-trici dei progetti svizzeri sventola la bandiera ros-socrociata. «Sfruttiamo questa visibilità per pro-teggere i nostri collabo-ratori», dice Elisabeth von Capeller. «Durante la guerra era essenziale farci riconoscere imme-diatamente sia dai maoi-sti che dalle unità militari – viste le tensioni persi-stenti abbiamo man-tenuto questa distin-zione. Per il resto, informiamo i beneficiari con tabelloni e hearing pubblici sui nostri pro-getti e le nostre attività, comunicando quanti soldi sono devoluti a quale scopo e chi ne è il beneficiario. Questa è una forma di traspa-renza, di rendiconto verso il basso».

La costruzione di ponti sospesi illustra in modo esemplare il buon funzionamento della cooperazione svizzera nel Nepal. La fiducia conquistata nel corso degli anni permette oggi alla Svizzera di collaborare all’attuazione del trattato di pace

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Hollandse

Hoogte

/laif

(gn) «La Svizzera vanta una forte immagine posi-tiva.Perché all’estero è percepita come la prova real-mente esistente del fatto che le culture più disparate possano convivere pacificamente sotto lo stesso tet-to, grazie al federalismo e alla democrazia». È in questi termini che Nenad Stojanovic riassume le sue esperienze con il mito Svizzera. Su manda-to della DSC, il polimanda-tologo svizzero di origine bosniaca, accompagna un progetto di riforma costituzionale attuato dal centro per i diritti uma-ni dell’Uuma-niversità di Sarajewo in collaborazione con il Zentrum für Demokratie di Aarau.

L’obiettivo dei vari atelier di lavoro, ai quali parte-cipano politici, consulenti politici nonché giorna-listi e studenti,è assistere i decisori nell’elaborazione di una nuova costituzione in sintonia con i prin-cipi della Convenzione dei diritti umani.

Già i primi risultati

«L’esempio svizzero fornisce materiale esplicativo sulle modalità di funzionamento delle istituzioni e sul loro impatto»,afferma Stojanovic.E non si trat-ta di idealizzare la Svizzera o di copiare il sistema – non sarebbe né possibile, né auspicato. Ma un confronto approfondito con le istituzioni svizzere potrebbe aiutare a lanciare le riforme necessarie. L’elemento centrale dei workshop è l’articolazione degli incontri. I partecipanti infatti non dedicano solo un’attenzione teorica al sistema svizzero, ma

Un mito e il suo impatto

hanno anche l’opportunità di conoscere in loco politici, autorità e istituzioni svizzeri. In occasione di una visita alla commissione costituzionale di Gi-nevra nel luglio del 2009,hanno visto dal vivo che anche in Svizzera si lotta arduamente per raggiun-gere un consenso e che anche i conflitti fanno par-te del processo politico.

È vero che la situazione in Bosnia e Erzegovina non può essere paragonata alla realtà svizzera. Ciono-nostante, e di questo Nenad Stojanovic ne è pro-fondamente convinto, la democrazia diretta anche lì può contribuire alla pace e alla stabilità: «Visto che nella democrazia diretta, a seconda dei conte-nuti di un referendum, si formano sempre nuove coalizioni, essa può dissolvere limiti etnici e lin-guistici e promuovere così la coerenza interna di un paese».

Questo interscambio tra i due paesi ha già dato i primi frutti: una coalizione di comuni bosniaci di ogni parte del paese ha presentato alla fine del 2009 una proposta di revisione della costituzione per l’introduzione della democrazia diretta, racco-gliendo in brevissimo tempo oltre 30000 firme.■

(Tradotto dal tedesco)

Il sistema politico della Svizzera - per alcuni la vera essenza

della «Swissness» - non può essere trasferito tale e quale ad

un altro paese. Ma il confronto su pregi e difetti della

de-mocrazia diretta può lanciare nuovi stimoli – per esempio per

la riforma costituzionale in Bosnia e Erzegovina.

La Bosnia e Erzego-vina e la Svizzera Durante la guerra, migliaia e migliaia di persone hanno lasciato la Bosnia e Erzegovina per rifugiarsi in Svizzera. I rapporti istauratisi allora perdurano ancora oggi: attualmente, i cantoni Ginevra, Giura, Friburgo e Berna stanno costituendo un pool di esperti che dovrebbe fornire consulenza ai ministeri della sanità della Federazione Bosnia e Erzegovina e della Repubblica Srpska incari-cati della creazione di un piano programmatico con l’obiettivo di miglio-rare formazione, messa in rete e prevenzione nel-l’ambito della salute psi-chica. E la Procura del cantone di Zurigo su ri-chiesta della Bosnia e Erzegovina, e attraverso la mediazione della DSC, vuole fornire sostegno nell’attuazione di strutture giuridiche nei pubblici ministeri locali. «Questi progetti comportano un onere di lavoro immenso, ma ne vale assolutamente la pena», afferma Katrin Stocker, responsabile DSC del programma per la Bosnia e Erzegovina.

La democrazia diretta può contribuire a raggiungere la pace e la stabilità miti-gando tensioni etniche e linguistiche – un’opzione molto interessante per la Bosnia e Erzegovina

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Richar d Gerster To mas Munita /laif «Swissness» e coopera-zione allo sviluppo

Il network www.interportal.ch per la cooperazione internazio-nale e la politica di sviluppo è gestito da oltre 40 organizza-zioni svizzere. Il sito web con-tiene rapporti di attualità e dossier di approfondimento, segnalazioni di campagne e manifestazioni, nonché nume-rosi link aggiornati.

Interportal è la piattaforma del

10 settori tematici

Nel 2008/2009 la DSC ha concentrato le sue attività di sviluppo bilaterale sui seguenti settori tematici (in milioni di CHF)

Letteratura

«La coopération entre la Suisse et l’Inde», di Richard Gerster, Editions Favre Losanna, 2008.

Non è ottenibile in italiano «Swissness Worldwide. Internationale Studie zur Wahrnehmung der Marke Schweiz», di Stephan Feige, Benita Brockdorff, Karsten Sausen, Peter Fischer, Urs Jaermann e Sven Reinecke. Edizioni Thexis, luglio 2008. Non è ottenibile in italiano «Peace Process and Federalism in Nepal. Experiences, reflections and learning,» di Bishnu Raj Upreti, Nicole Töpperwien e Markus Heiniger. South Asia Regional Coordination Office, Swiss National Centre of Competence in Research (NCCR) North-South 2009. Non è ottenibile in italiano

Cifre e fatti

Le dichiarazioni degli esperti

«Da circa dieci anni la Swiss-ness raccoglie successi strabi-lianti. Con il marchio Svizzera si può fare pubblicità, perché l’immagine della Svizzera conti-nua ad avere, ancora oggi, una

connotazione fortemente posi-tiva», afferma Sven Reinecke, professore-assistente alla facol-tà di marketing dell’Universifacol-tà di San Gallo e coautore dello studio Swissness Worldwide. Thomas Harder, Direttore di Swiss Brand Experts, individua nel marchio Svizzera 19 fattori di successo quali «credibilità e affidabilità», «riservatezza e modestia» o anche «consape-volezza dell’alta qualità e della perfezione».

Link

www.swissworld.org

Il sito di Presenza Svizzera (DFAE) www.ige.ch (ricerca: Svizzera)

Il sito dell’Istituto Federale della Proprietà Intellettuale fornisce chiarimenti su questioni giuridiche legate al tema «Swissness» www.swissbrandexperts.ch

Sito web di Swiss Brand Experts AG con lo «Swissness-tester» per aziende e prestatori di servizi svizzeri

0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100 110 Sanità Istruzione Acqua Agricoltura e sviluppo rurale Ambiente Economia ed occupazione Stato di diritto, democrazia Prevenzione e trasformazione di conflitti Altro (migrazione/integrazione economica)

mondo delle ONG in Svizzera attive nel settore della coope-razione allo sviluppo, con link alle singole organizzazioni.

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Johannes Dieterich (3) Vi sser/Hollandse Hoogte/laif

ORIZZONTI

Venerdì pomeriggio, da Mimmo. La settimana sta finendo, il cielo si colora di rosso, il tempo si fer-ma.Mpho siede con gli amiciThando e Ismael sul-la terrazza del ristorante alsul-la moda nel centro com-merciale di Rosebank, lo shopping mile più all’a-vanguardia di Johannesburg. I tre amici hanno ordinato una pregiata birra Peroni e parlano come qualsiasi altro young urban professional ventiquat-trenne del mondo: di ragazze, di carriera, di va-canze.

Soltanto la lingua è un amalgama particolare al qua-le perfino qui si aggregano soltanto gli iniziati: il tsotsitaal, un cocktail linguistico inintelligibile de-rivante dall’incrocio di undici lingue ufficiali del Sudafrica.«Ye khuqina»,dice Mpho,«beviamone an-cora una!»

«Oggi la location è chic»

In nessun luogo il trio riesce a dedicarsi meglio che a Rosebank al suo sport preferito – una sorta di gioco delle catalogazioni. «Mi basta osservare l’ab-bigliamento di una persona», dice Mpho, «per ca-pire da dove viene».A riprova, il suo sguardo vaga su una donna vistosamente ingioiellata, che quali-fica di «larney», che in tsotsitaal signiquali-fica «uomo

bianco» o, in senso lato, «ricco». La signora appar-tiene ai Black Diamonds, il ceto superiore di nuovi ricchi di colore che salta all’occhio più per l’aspetto, che per il numero.

I bianchi con una buona posizione che passeggia-no con indosso le classiche marche sopasseggia-no ancora la maggioranza – al pari della legione variamente co-lorata di studenti in jeans e maglietta.Infine,c’è an-che un manipolo – piuttosto smagrito a Rosebank – di lavoratori in capi d’abbigliamento cinesi con-fezionati da manodopera a basso costo o in cami-ce blu.

Il trio, dal canto suo, si attribuisce ad una classe del tutto diversa, la Loxion Culture. «Loxion deriva da

location», spiega Mpho, «un vecchio modo per

de-signare le township in cui i signori dell’apartheid solevano stipare la popolazione di colore». Mpho è cresciuto nella townshipVosloorus,situata a ven-ti chilometri da Johannesburg,dove ancora oggi vi-vono esclusivamente sudafricani di pelle nera. Per Mpho il fatto di aver trascorso la gioventù in una location e non in uno dei quartieri urbani ri-servati in passato ai bianchi,come un numero sem-pre crescente di giovani di colore, fa una bella dif-ferenza: «Siamo più duri», dice il bel giovanotto,

Diamanti neri

dalle idee chiare

Il Sudafrica non è soltanto la più grande potenza economica del

continente nero, ma anche il paese delle mille minoranze. Nelle

metropoli della «nazione arcobaleno», nell’ultimo decennio è

cre-sciuta un’orgogliosa generazione di giovani lavoratori di colore

che affonda le radici nelle township nere. In essa si riflettono sia

la dinamica, sia le sfide degli sviluppi più recenti del paese. Di

Jonannes Dietrich*.

Botswana Pretoria

Sudafrica

Namibia

Città del Capo

Zimbabwe

Lesotho Swaziland

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«non così rammolliti come i town babies.» Quale segno di riconoscimento, i giovani della Loxion

Culture indossano volentieri pantaloni da gangster

americano, occhiali da sole di marca e stravaganti cappelli.

«Votare ANC è ovvio quanto lavare il bucato con Omo»

Mpho è in affitto in un appartamento di un quar-tiere rispettabile di Johannesburg.Ma appena ne ha l’occasione fa ritorno a casa di sua madre, dove ha ancora a disposizione una piccola stanza. «Puoi togliere un abitante della township da una location, ma non puoi togliere la location da un abitante del-la township», dice ridendo Mpho. Anche se Vo-sloorus è molto più povera di Johannesburg e le sue casette parecchio più piccole delle grandi ville urbane – è il luogo natale. È vita.

Mpho trascorre il sabato dal padre, dove lo acco-glie una cerimonia di benvenuto: dovrà ritrovare la famiglia paterna con la quale non ha più avuto a che fare dalla separazione dei genitori.Si beve bir-ra di frumento africana e si pronunciano preghie-re cristiane, esppreghie-ressione della variegata mescolanza di costumi – e del disperato tentativo di contrasta-re la disgcontrasta-regazione delle struttucontrasta-re famigliari che colpisce particolarmente i sudafricani di colore. La tradizione politica vuole che ci si senta legati

Titoli di studio: un enorme disequilibrio Recentemente l’opposi-zione sudafricana ha esortato il governo a proclamare lo «stato di emergenza nazionale dell’istruzione». L’occasione è stata for-nita dalla notizia che l’anno scorso solo il 60 per cento dei liceali ha superato gli esami di maturità. La responsabi-lità risiederebbe nelle condizioni catastrofiche in cui si trovano le scuole «dei neri». In que-ste classi, invece delle 6,5 ore d’insegnamento giornaliere prescritte, ne verrebbero impartite in media solo 3,5 – per colpa, soprattutto, di in-segnanti scioperanti o indisciplinati. Soltanto il 26 per cento dei ragazzi di colore si presenta agli esami di maturità. Fra i ragazzi bianchi la quota supera il 73 per cento. All’università la disparità è ancora più eclatante: solo l’1,8 per cento dei giovani di colore pos-siede una laurea – con-tro il 16,8 per cento dei ragazzi bianchi.

all’African National Congress (ANC). «È ovvio quanto lavare il bucato con Omo», dice Mpho. Quando Nelson Mandela fu scarcerato,Mpho ave-va appena cinque anni.Della lotta per la libertà che scorre nelle vene dei sudafricani di colore di una certa età non ricorda nulla. Per lui i simboli na-zionali, come la rivolta degli studenti di Soweto, sono semplici immagini: «Non mi dicono molto» Questa politica che per decenni ha appassionato ogni sudafricano intelligente, lui la trova «noiosa», se non «sporca»:considera i suoi rappresentanti,che in primo luogo hanno di mira i suoi contributi fi-scali, «per lo più corrotti».

Il problema più scottante: il fallimento del sistema educativo

Domenica sera, ore otto – tempo di Hurricane. La discoteca all’aperto, organizzata in una comune strada di quartiere della township, è aperta solo oggi: fin nel cuore della notte, centinaia di giova-ni balleranno in strada al ritmo di musica house e kwaito sudafricana. In passato, racconta Thando, si lasciavano trasportare dall’«uragano» domenica dopo domenica.Mpho era un vero paladino delle ragazze – ma con un occhio sempre attento al benessere degli amici.A cosa deve il suo fascino questo ap-passionato ballerino? «All’autostima cementatagli addosso dalla madre», risponde convinto Thando.

La vita del 24enne Mpho (pagina accanto) va per la maggiore, forse anche perché è ben conscio delle sue radici. Mpho è cresciuto nella township Vosloorus (in alto)

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Christian

Heeb

/laif

Effettivamente, la madre di Mpho ha fatto per suo figlio quanto di meglio si potesse sperare per un giovane di colore, mandandolo a metà degli anni Novanta in una «scuola di bianchi» della vicina Germiston. A detta degli esperti, il sistema scola-stico completamente rovinato delle township è at-tualmente il problema più grave in Sudafrica:la ca-tastrofe del sistema educativo è resa responsabile della criminalità da capogiro, dell’elevato tasso di disoccupazione e della mancanza di manodopera qualificata che blocca lo sviluppo. Racimolando i soldi necessari per pagargli un’istruzione «da bian-chi», la madre di Mpho gli ha aperto le porte per uscire dal ghetto: «È stata certamente la mossa più importante della mia vita», dice Mpho.

Per lui e per l’amicoThando,l’Hurricane chiude alle undici. Un lavoro fisso e una ragazza fissa hanno messo un drastico freno alla loro vita mondana. Senza contare la pandemia di aids,sufficiente a cal-mare i bollori di Mpho. Nella sua cerchia di ami-ci, l’uso del preservativo è ormai scontato. Nessu-no dei suoi amici si è fiNessu-nora ammalato di aids – nonostante gli oltre mille decessi al giorno in Sud-africa causati dalle conseguenze dell’immunodefi-cienza.Evidentemente,queste persone non hanno preso sul serio i moniti degli esperti tanto quanto lo ha fatto Mpho.

«Se non mi piace, me ne vado»

Lunedì mattina alle otto Mpho parcheggia la sua Toyota davanti ai lussuosi uffici dell’agenzia Blue Moon, nella Oxford Street di Rosebank, dove da un anno lavora come designer. Studente né più né meno mediocre, Mpho ha seguito una formazio-ne come esperto di branding, ma ha già lavorato anche in un’emittente televisiva e in uno studio di

grafici di moda. Mpho non si lascia sopraffare dal timore di rimanere un giorno senza un lavoro, le sue idee in merito sono chiare: «Se un posto non mi piace, me ne vado».

In Sudafrica i giovani uomini di colore con una buona formazione sono ambiti quanto l’acqua nel deserto: dato che il governo impone alle aziende dei contingenti minimi di personale di colore,i capi del personale si contendono i pochi candidati. Mpho sta valutando la possibilità di fondare una propria impresa: ma quello che gli piacerebbe ve-ramente è diventare disc jockey.

Lunedì, ore diciassette. Lungo la strada per la sta-zione radio internet «Rhythm 100»,dove due vol-te a settimana si cimenta come moderatore, Mpho si lascia trasportare: «Amo il Sudafrica già solo per la varietà dei suoi abitanti», gozzoviglia di buonu-more. «Non riesco ad immaginare un posto più bello per vivere!»

È vero: nello Stato di Zuma non tutto è perfetto; ma ancora qualche anno burrascoso e poi il Capo di Buona Speranza brillerà nuovamente della luce più fulgida. Al microfono il fiero Mpho si inner-vosisce e prega il suo ospite di lasciarlo in pace con il suo cicalio. Chiudiamo piano, piano la por-ta: cosi come il nuovo Sudafrica e la carriera di Mpho,nemmeno Roma è stata costruita in un solo giorno…■

(Tradotto dal tedesco)

*Johannes Dieterich è corrispondente in Africa per

diver-si quotidiani di lingua tedesca, fra cui il «Tages Anzei-ger» e la «Frankfurter Rundschau».

Diamanti neri sempre più numerosi La creazione di un ceto medio di colore è conside-rato uno dei più importanti successi dell’African National Congress, al go-verno da 16 anni. Con quasi tre milioni di persone, il numero dei Black Dia-monds dovrebbe, nel frat-tempo, aver superato il ceto medio bianco: nondi-meno, sui 45 milioni di sudafricani, gli abitanti di Citta del Capo bianchi rappresentano meno del 10 per cento – contro l’ol-tre 80 per cento di colore. Un uomo bianco del ceto medio guadagna ancora dieci volte più del suo equi-valente di colore. Sono considerati appartenenti al ceto medio i sudafricani con un reddito mensile su-periore a 7000 rand (all’in-circa 700 euro). A questa crescita ha contribuito no-tevolmente il programma governativo di «empower-ment economico dei neri», che prescrive alle imprese che vogliono concorrere agli appalti pubblici quote minime di lavoratori, mana-ger e azionisti di colore.

Cambio generazionale: mentre un tempo la politica era il tema principale per tutta una generazione di sudafricani, oggi molti giovani la ritengono noiosa e sporca

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Ricca, moderna e popolata per lo più da bianchi, Pretoria non ha bisogno di aiuto allo sviluppo. Se la DSC ha insediato un suo ufficio nella capitale amministrativa del Sudafrica, è per ragioni stori-che e logististori-che.Da qui serviamo tutta l’Africa au-strale. Il nostro programma regionale copre, infat-ti, quattordici paesi. Li aiuta a fare fronte insieme alle grandi sfide attuali, come l’aids, i mutamenti climatici o la sicurezza alimentare – che delle fron-tiere si fanno beffe.

La mia casa si trova in un sobborgo residenziale di Pretoria.Fin dall’alba,verso le 5,una nugolo di uc-celli si sgola attorno a un piccolo stagno.Il loro can-to è la mia sveglia. Oggi trangugio un caffè in tut-ta frettut-ta prima di partire per l’aeroporto. Destina-zione:Città del Capo,seconda metropoli del paese e sede del Parlamento.

Alle otto ho appuntamento con Kevin Fruin, rap-presentante dell’Associazione sudafricana dei pro-duttori di laterizi.Il nostro colloquio riguarda l’im-portazione di una nuova tecnologia che permet-terà a questi imprenditori di dimezzare il consumo di carbone e le emissioni di CO2. Attualmente i

mattonifici utilizzano un metodo di cottura anti-quato ed estremamente inquinante: fanno cuoce-re i mattoni a cielo aperto durante due settimane. La DSC ha deciso di sostenere la fabbricazione di forni forniti di camini verticali, una tecnologia ci-nese migliorata da esperti svizzeri.Fonderemo una piccola società che garantirà il trasferimento di que-sto know-how dapprima agli impianti di produ-zione in Sudafrica, poi a tutta l’Africa australe. Verso mezzogiorno un tassì mi porta all’ufficio di Pro Helvetia, dove sono atteso dal direttore Jasper Walgrave. La DSC, che cofinanzia il programma della fondazione nella regione,non è del tutto sod-disfatta dei risultati. Mentre mangiamo un bocco-ne in piedi discutiamo dell’ibocco-nevitabile riorienta-mento delle attività. Finora Pro Helvetia ha

as-Link utili

Il programma regionale della DSC nell’Africa au-strale si articola attorno a tre settori di cooperazione: il buongoverno, la lotta al-l’aids e la gestione delle ri-sorse naturali. È possibile trovare una descrizione di questi principali assi d’in-tervento sul sito web della DSC, che fornisce anche indicazioni sulle priorità dell’aiuto umanitario e dati precisi sui paesi della re-gione. L’Ufficio di coopera-zione della DSC a Pretoria presenta il programma re-gionale in modo più detta-gliato sul suo sito (in in-glese).

www.dsc.admin.ch, «paesi», «Africa australe» www.swiss-cooperation. admin.ch/southernafrica

François Droz, Responsabile dell’Ufficio di cooperazione

svizzero a Pretoria

«La DSC sostiene la

fabbricazione di

forna-ci, una tecnologia

cinese migliorata da

esperti svizzeri».

DSC

segnato aiuti specifici a numerosi artisti, ma ora si impone un approccio più mirato. Il programma dovrà rafforzare le capacità di cinque o sei istitu-zioni culturali, affinché possano trasmettere a lun-go termine messaggi importanti, ad esempio sulla prevenzione dell’aids o sulla lotta alla corruzione. Poi mi reco al Parlamento sudafricano, per rag-giungere i 22 colleghi della DSC provenienti dai nostri uffici di cooperazione in Africa che parte-cipano a un seminario di una settimana sul buon-governo.È previsto un incontro con Cobus Botes, membro dell’Associazione delle commissioni dei conti pubblici (Apac). Non disponendo delle do-vute competenze, i deputati non hanno gli stru-menti necessari al controllo della gestione finan-ziaria del governo. L’Apac, pertanto, impartisce loro dei corsi sull’analisi dei rapporti di revisione. Con il sostegno della DSC, anche i parlamentari di altri paesi della regione potrebbero seguire que-sta formazione.

La sera ceniamo insieme in un ristorante in riva al mare. Robben Island è soltanto a dieci chilometri dalla costa. Domani ci recheremo lì, prima di ri-prendere i lavori del seminario.Questo vecchio pe-nitenziario testimonia di un’epoca non poi così lontana,dove i neri erano sistematicamente discri-minati, anche nell’istruzione. L’eredità della segre-gazione razziale grava ancora pesantemente sul Sudafrica.■

(Trascrizione: Jane-Lise Schneeberger) (Tradotto dal francese)

(22)

li che scrivono le gare d’appalto.Sono giovani,sono sudafricani appassionati, come me, e sperano in un’opportunità.

Di ritorno in macchina, ad un tratto mi accorgo che la motivazione per cui voglio an-dare a trovare la mia amica Kwenadi ora è cambiata. Lei si è trasferita in questo insediamento informale e un amico mi ha pregata di aiutarla a tro-vare lavoro. Finora però ho sempre cercato dei pretesti, e l’ho schivata, perché mi sentivo infastidita dalla sua richiesta. Insomma, finora ho sempre pensato che bastasse che si iscrivesse ad un corso, per migliorare le sue com-petenze e dunque anche le possibilità di trovare lavoro.Ma dopo la mia con-versazione con questi ragazzi mi ren-do conto di essermi sbagliata. La mia amica non è così pigra come pensavo. Si rivolge a me perché vede in me una donna che è riuscita ad ottenere qual-cosa dalla vita.Mi ha lanciato una pro-vocazione, spingendomi a diventare una persona migliore, a servirmi di quello che ho raggiunto per aiutare persone come lei, persone che si fan-no in quattro per avere un’occasione e far vedere di cosa sono capaci. Chiamo Kwenadi e lei mi viene in-contro. Spera che l’aiuti, e stavolta sono disposta a farlo, e non solo per lei, ma anche per le altre persone che vivono la sua stessa esperienza.A casa sua poi ci mettiamo a parlare, questa volta però è una conversazione fra pari.Da questo incontro traggo umil-tà e un nuovo apprezzamento di quel-le cose che nella vita prima mi sem-bravano scontate, per esempio la sua amicizia.

Oggi sogno di aiutare le persone come Kwenadi e i giovani che ho incontrato all’angolo della stra-da, e lavoro duro per riuscirci. Affinché possano vivere i loro sogni. Se non dovessi farcela, spero almeno di essere riuscita ad aiutarli a sognare alla grande!■

(Tradotto dall’inglese)

Sono in macchina, in viaggio per andare a trovare un’amica, in un altro quartiere di Mamelodi, la township di Pretoria dove vivo. È una tarda mat-tinata di un normale giorno feriale, ma le strada brulicano di attività.Venditori

ambu-lanti offrono le loro merci:giornali,si-garette, frutta, dolciumi e altro. Que-sta parte della città mi è estranea, le persone hanno un altro aspetto, e mentre guido per la mia strada, mi chiedo perché ho quest’impressione. Come mai ad appena due chilometri di distanza da casa mi sento così insi-cura?

Poi,tutt’ad un tratto,capisco! Mi sono già fermata in questo posto, ma presa dalla mia vita, sono sempre rimasta cieca dinanzi alla povertà che regna in questa zona. Ci riferiamo a questo quartiere con un nome che è un pro-gramma: lo chiamiamo RDP (pro-gramma di sviluppo per la ricostru-zione). È un ammasso di baracche, al-cune pulite, altre un po’ meno; alal-cune hanno una sola camera, altre sono un po’più spaziose.Nella mia mente si in-sinua una domanda: ma tutta questa gente che popola la strada in que-st’ora del giorno, è tutta disoccupata? Sorpasso un gruppo di giovani,mi fer-mo e torno a piedi fino all’angolo del-la strada,dove ora si stringono attorno ad un venditore ambulante. Compro un’arancia e qualche dolce. Uno dei ragazzi inizia a prendermi in giro. Un altro mi chiede se mi sono persa. Gli rispondo che semplicemente avevo voglia di dare un’occhiata. Ne nasce una lunga discussione sull’inutilità del governo, sul fatto che non si

preoccu-pa minimamente delle persone e della povertà ma solo delle gare d’appalto.Alcuni dei loro commenti mi fanno ridere, infine torno alla macchina. «Devi tornare, uno di questi giorni», mi grida dietro uno degli uomini.

Quando mi giro ho un’altra immagine della società in cui vivo. Questi giovani non sono degli attac-chabrighe,ma giovani come me,con speranze e so-gni.Sognano una vita migliore,di riuscire un gior-no a lasciare la township e andare a vivere in ugior-no dei sobborghi,come i funzionari di

governo,quel-Sogni

Una voce dal

Sudafrica

Elsie Nantuli Mampa, 31, vive a Pretoria, in Sudafri-ca. Collabora con una ONG internazionale come

«area office accountant» per la regione dell’Africa e

del Medio Oriente. È ma-dre di due figli e dedica gran parte del suo tempo al lavoro di volontariato in qualità di responsabile dei progetti comunali. Alla domanda sulla motivazio-ne che la spinge a scrive-re dice: «Ogni volta che sono confrontata con una situazione che mi invita a cogliere una sfida, o ogni volta che tento di vederci chiaro in una determinata tematica, scrivo delle

lettere a me stessa. E così che è nato anche

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