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[Recensione di :] Dante, il profeta e il libro : la leggenda del toro dalla "Commedia" a Filippino Lippi, tra sussurri di colomba ed echi di Bisanzio / Roberta Morosini. - Roma : L’Erma di Bretschneider, 2018

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[Recensione di :] Dante, il profeta e il libro : la leggenda del toro dalla

"Commedia" a Filippino Lippi, tra sussurri di colomba ed echi di Bisanzio / Roberta Morosini. - Roma : L'Erma di Bretschneider, 2018

SALVATORE, Tommaso

SALVATORE, Tommaso. [Recensione di :] Dante, il profeta e il libro : la leggenda del toro dalla

"Commedia" a Filippino Lippi, tra sussurri di colomba ed echi di Bisanzio / Roberta Morosini. -

Roma : L'Erma di Bretschneider, 2018.

Studi e problemi di critica testuale

, 2020, vol. 101,

p. 306-311

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© Copyright by Fabrizio Serra editore, Pisa · Roma.

Inutile sottolineare come una simile prospettiva stravolga del tutto la semantica del poema dantesco, strappandolo dal proprio contesto storico- culturale; ma sarebbe un errore risolvere la presentazione dell’opera in una denuncia di questi e altri consimili travisamenti. Non è, infatti, la resa storicamente e filologicamente corretta del contesto medievale della Com- media che al Gray interessa, quanto piuttosto il riproporre in una veste anglosassone alcuni snodi concettuali e alcune atmosfere peculiari dell’In- ferno dantesco. Non siamo, insomma, di fronte a una traduzione della pri- ma cantica della Commedia, ma all’ultimo libro di Alasdair Gray, intitolato Dante’s Divine Trilogy e liberamente ispirato al poema di Dante. Forse il modo migliore e più corretto di leggere il singolare volume è proprio que- sto: riguardare il Gray non come un semplice traduttore, bensì come un autore, che con questa sua libera versione inglese del poema di Dante ci offre, in realtà, un’altra delle sue opere creative; e profittare del raffronto (spesso straniante) con l’ipotesto dantesco per meglio comprendere quali tratti della poetica dello scrittore scozzese trovino origine, al pari di altri suoi testi precedenti, nell’opera del poeta fiorentino. Tutto ciò a riprova del sicuro interesse che il presente volume ha anche per il dantista, al quale si offre come uno dei più recenti e significativi episodi della ricezione inter- nazionale della Commedia.

Nicolò Maldina (University of Edinburgh) Roberta Morosini, Dante, il Profeta e il Libro. La leggenda del toro

dalla «Commedia» a Filippino Lippi, tra sussurri di colomba ed echi di Bisanzio, Roma, L’Erma di Bretschneider, 2018 («Circolarità medi- terranee», 1), pp. 376.

I

l volume intende chiarire una tradizionale aporia della critica dantesca, la collocazione del dannato Maometto fra gli scismatici, anziché fra gli ere- tici, attraverso una leggenda circolante nella cultura cristiana medievale, quella del toro dolosamente addestrato dal Profeta dell’Islam per simula- re la sua investitura divina. Questo stesso racconto, inoltre, permette di avanzare una nuova interpretazione per il dipinto di Filippino Lippi L’ado- razione del vitello d’oro come Apis. La studiosa ritiene, anzitutto, necessario considerare la conoscenza che dell’Islam avevano i dotti del Medioevo, e procede così a ricostruire la storia dell’‘invenzione’ del nemico, a partire dagli eruditi bizantini del ix secolo, presso i quali la leggenda anti-mao- mettana prende vita e si sviluppa prima di diffondersi in Occidente. I primi attacchi all’Islam risultano inconsapevoli e sommari, fondati su un’aned- dotica favolosa e pittoresca, per secoli ampiamente sfruttata: le genealogie

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leggendarie di Maometto, la sua natura di profeta ispirato dal diavolo, la presunta complicità ebraica sull’origine dell’Islam. Molto presto, però, al- la condanna pretestuosa si oppone una seria consapevolezza fondata sui documenti, la quale, giovandosi delle nuove traduzioni degli scritti di cul- tura islamica e del Corano, fornisce agli studiosi d’Oriente argomenti per sistematiche confutazioni. Morosini maneggia una ponderosa rassegna di fonti latine e romanze, dalla Vita Mahumeti di Emrico di Mainz al Libro del- la Scala al Dittamondo di Fazio degli Uberti, approfondendo specialmente il peculiare Roman de Mahomet di Alexandre Du Pont. Se la polemistica è concorde nel considerare Maometto un impostore e un falso profeta, e l’Islam un’eresia, alcuni altri motivi salienti risultano ricorrenti in queste biografie leggendarie: diffusa è la tradizione per cui un religioso cristiano (un monaco o un prelato, a volte un eremita), contrariato da una non man- tenuta promessa di sua elezione a cardinale, si vendicò della Chiesa istigan- do Maometto allo scisma, alla creazione di una setta che spaccasse l’unità cristiana; un’altra affine è quella secondo la quale Maometto stesso, abile predicatore cristiano dapprima inviato in Arabia a evangelizzare gli infede- li, si ribellò alla Chiesa per una sua mancata elezione ripercorrendo in un secondo momento gli stessi luoghi e predicandovi, al contrario, l’eresia.

Ma sono soprattutto gli elementi che insistono sulla frode, nella storia della fondazione della nuova Legge, a permetterci di avvicinarci al Mao- metto personaggio dantesco. Il Corano racconta infatti che il Profeta, alle visioni divine, manifestava reazioni fisiche quali tremori e sudori: è questo lo spunto che suggerisce ai biografi cristiani che egli soffrisse di crisi epilet- tiche. Esperto di arti liberali, astuto e eccellente oratore, il fondatore dell’I- slam avrebbe così fatto passare le sue crisi per visioni celesti, per convul- sioni indotte dalle visite dell’arcangelo Gabriele, così da convincere i fedeli della sua investitura divina. Parimenti fortunata è la leggenda che il mona- co istigatore di Maometto – Sergio o Niccolao a seconda delle fonti, Alì in arabo – avrebbe addestrato una colomba a beccare dall’orecchio di Mao- metto, dove veniva messo del cibo, affinché il popolo lo credesse predicare sotto ispirazione della colomba dello Spirito Santo. Più importante ancora, per quanto meno diffusa, taciuta da Dante e dai suoi commentatori, è a giudizio di Morosini la leggenda del toro: secondo tale racconto, Sergio/

Niccolao avrebbe preparato per Maometto un finto Libro sacro; il Profeta e il suo maestro avevano dunque allevato un toro, cibandolo e addestran- dolo a riconoscere loro soltanto; avrebbero infine legato fra le sue corna la finta Scrittura e convocato i fedeli in folla. All’udire la voce del padrone che predicava, l’animale sarebbe uscito dal suo rifugio e andato incontro a Maometto recando le false Leggi, credute così dal popolo dono del cielo per il Profeta divinamente investito. Se la leggenda della colomba richiama

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la discesa dello Spirito Santo, l’aneddoto del toro falsifica l’episodio della consegna delle Tavole della Legge nell’Esodo: il bovino corrisponde al vi- tello d’oro adorato dagli Israeliti mentre Mosè si trova sul Sinai, e l’animale lì illecitamente idolatrato diventa qui messo celeste del Verbo dell’Islam.

Queste leggende che pongono l’accento sulle responsabilità dirette di Maometto, sulla natura fraudolenta del suo agire, guidano a un nuovo esa- me dell’episodio dantesco. In Inf. xxviii incontriamo infatti Maometto fra i fraudolenti, e precisamente fra gli scismatici, coloro che scommettendo ac- quistan carco: un’erronea e duratura convinzione, che Dante doveva condi- videre, riteneva infatti che il Profeta avesse convertito alla nuova religione dei fedeli cristiani, e dunque che l’Islam fosse una setta eretica sorta entro la cristianità, uno scisma interno alla Chiesa che ne aveva diviso l’unità. Il dannato impressiona la vista e la fantasia del pellegrino con la sua imma- gine di uomo dilaniato come una botte dissestata: il contrappasso della mutilazione, che chiaramente fa riferimento alle divisioni provocate dagli scismi, viene inferto da un diavolo ogni volta che i peccatori, muovendosi lungo il cerchio, gli passano davanti, riaprendo la ferita che nel frattempo si è rimarginata. Ma nell’incontro con Dante è Maometto stesso a squar- ciarsi il petto con le proprie mani e a chiedere che il pellegrino lo guardi: fra le fonti sicure del gesto si annovera il passo evangelico in cui Gesù invi- ta all’automutilazione degli arti ragione di scandalo (Mc 9, 43-47), ma anche la leggenda islamica sull’abluzione del cuore del Profeta per purificarlo da ogni impurità. In quest’autopunizione, Maometto replica la mutilazione che ha operato ai danni del Libro sacro: egli si dilania proprio come, me- scolando la dottrina giudaico-cristiana con le eresie, ha dilaniato e scerpato la Bibbia per contraffarla nel suo Corano.

Se le leggende che abbiamo menzionato prima, infatti, autorizzavano a non ascrivere la colpa dello scisma direttamente a Maometto, ma a un istigatore variamente denominato (così Guido da Pisa, e così pure, sulla base di lui, gli affreschi di Buffalmacco nel Camposanto di Pisa), per Dan- te invece l’impostore Maometto, sleale verso il suo popolo e verso Dio, doveva essere unico responsabile dell’inganno da lui ordito. Ciò spieghe- rebbe, secondo Morosini, perché il dannato non si trovi fra gli eretici del sesto cerchio ma tra i fraudolenti: Maometto non sarebbe punito per il suo credo religioso (e infedeli come Averroè, Avicenna o Saladino possono d’altronde essere risparmiati della ‘pena del senso’, alloggiati nel Limbo), ma per la frode cui era ricorso nel fondare la nuova Legge, la finzione di ricevere da un falso messo celeste – colomba o toro – il Libro che in realtà la mano dell’uomo aveva confezionato. E fra i due, prosegue Morosini, per quanto né Dante né i suoi commentatori lo nominino mai, doveva certamente essere il racconto del toro quello più influente. Nell’episodio

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della colomba, infatti, viene soltanto suggerita oralmente la predicazio- ne, mentre è nell’inganno del toro che viene falsificata la parola scritta: è con il Libro che la Chiesa impone l’ortodossia e domina l’idolatria, e solo con la frode della Scrittura Maometto ha potuto persuadere alla conversio- ne coloro che altrimenti non si sarebbero fidati di lui. Il Libro scritto, più della colomba, era segno tangibile dell’investitura a Profeta, ed è ciò che permette di fare di Maometto un nuovo Mosè, destinatario della Legge di Dio. Morosini è consapevole e non manca di osservare che il Corano, in Inf. xxviii, non viene in realtà mai nominato; ma si tratterebbe, a suo giudizio, di una deliberata rimozione, di una stupefacente e potente prete- rizione del simbolo della colpa, che avrebbe l’effetto di rendere le Scritture dell’Islam ancora più presenti. Diverse tracce nell’episodio suggerirebbero il motivo del Libro, a cominciare dall’epiteto risma riferito ai dannati della bolgia a v. 39. Ma più sistematicamente, i versi incipitari del canto – «Chi poria mai pur con parole sciolte / dicer del sangue? [...] / Ogni lingue per certo verria meno» – rimanderebbero a una funzione metaletteraria dell’e- pisodio, agendo come una vera dichiarazione di poetica: alla luce di que- sta, la poesia di Dante avrebbe la funzione di dare ordine al caos, forma e unità al sapere, mentre Maometto, dannato della risma, mescolando favole a false dottrine avrebbe usato la poesia per scomporre, per creare scismi.

Lo smembramento di Maometto non rievoca, dunque, solo la divisione causata nel corpo della comunità della Chiesa, ma anche la sua appropria- zione indebita dell’ufficio di poeta: al termine dell’incontro, quando la va- na profezia che pronuncia su Dolcino è definita parola (v. 62), come le pa- role della letteratura nominate all’inizio del canto, la natura di Maometto anti-poeta e pseudo-profeta è distintamente rivelata. Maometto resta così nella risma, nella folla disorganizzata e caotica, nelle pagine non rilegate che non saranno mai un libro, anti-poeta che ha manomesso il volume di Dio e che ispirato da Malizia scinde ciò che è unito; Dante, di contro, è co- lui che attraverso la poesia ricompone i corpi sparpagliati, che ispirato da Sapienza dà unità a ciò che è scisso. Lo squadernarsi inflitto a Maometto dalla giustizia divina, nella risma degli scismatici, diventa chiaro alla luce della leggenda del toro, e offre, ex contrario, una spiegazione della natura del poema e della funzione provvidenziale del suo autore.

La stessa leggenda del bovino che reca le nuove Leggi suggerisce a Mo- rosini una nuova interpretazione dell’Adorazione del vitello d’oro come Apis, tavola di Filippino Lippi alla National Gallery di Londra, parte di un ciclo di Storie di Mosè di cui ci resta, oltre a questa, anche Mosè fa scaturire l’acqua.

Nel dipinto, un toro figura sospeso in aria fra due monti, l’Horeb e il Sinai; al di sotto, il popolo, in preda al delirio scaturito dalla visione, lo celebra in un ballo sfrenato e caotico. Si tratta dell’episodio biblico in cui, mentre

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Mosè era sul Sinai a ricevere le Tavole della Legge, gli Israeliti idolatraro- no un vitello d’oro. L’esecuzione indubbiamente non canonica del tema nel dipinto, dove il bovino è un toro più che un vitello, non è d’oro, non è venerato su un piedistallo ma si libra nell’aria, e non c’è traccia di Mosè e della consegna delle Leggi, si spiegherebbe per gli storici dell’arte come una lettura dell’episodio dell’Esodo, da parte di Filippino Lippi, alla luce del culto egizio del dio Apis: il toro adorato come incarnazione di Apis, infatti, veniva di volta in volta scelto dai sacerdoti egizi in base a alcuni segni par- ticolari, fra cui una macchia a forma di mezzaluna sulla pelle, e proprio tale contrassegno è bene in vista sul fianco del bovino nella tavola del Lippi.

Roberta Morosini ritiene possibile superare questa interpretazione te- nendo conto nell’analisi di due elementi. Il primo è il ruolo affidato al Li- bro e alla conoscenza in alcune altre opere di Filippino Lippi: si esamina la cappella Carafa in Santa Maria sopra Minerva (ma anche la Cappella Stroz- zi in Santa Maria Novella), e in particolare l’affresco de La disputa di San Tommaso, celebrazione della vittoria della fede cristiana tramite il trionfo di Tommaso. Il Santo, unendo fede e ragione, porta vittoriosamente a ter- mine la sua battaglia contro le eresie grazie alla Sapienza posta al servi- zio della Verità, strumento per riconoscere e sconfiggere il vizio e le false dottrine. Il Libro è l’assoluto protagonista del ciclo di affreschi, presente ovunque a incarnare il custode del sapere antico e cristiano. Proprio come le mutilazioni degli scismatici nell’Inferno, anche nell’affresco di Filippino, ai piedi degli eretici, si trovano i loro libri sparpagliati e fogli strappati, condannati nella disputa: Tommaso, come Dante, rappresenta così l’unità del sapere del Libro contro le lacerazioni e deformazioni della conoscenza degli scritti ereticali. Il secondo elemento di cui tener conto è la minaccia della diffusione dell’Islam nell’Occidente cristiano in seguito all’invasione ottomana di Bisanzio: già quattordici anni prima della presa di Costantino- poli da parte dei Turchi, infatti, nel 1439 Firenze aveva accolto l’imperato- re bizantino Giovanni VIII Paleologo, il Patriarca di Costantinopoli e altri settecento eruditi e ecclesiastici del mondo greco-bizantino per il Concilio in cui la Chiesa d’Oriente cercava la pacificazione e l’aiuto dell’Occidente in vista dell’imminente pericolo, evento che aveva suscitato stupore inde- lebile nell’immaginario di artisti e letterati fiorentini del tempo.

Alla luce di questi due aspetti, allora – la funzione del Libro, custode del- la fede e della ragione contro l’eresia, nella poetica di Filippino che tiene conto della teologia di Tommaso, e la paura occidentale di un ritorno al paganesimo e a una nuova barbarie – è possibile avanzare una nuova let- tura dell’Adorazione del vitello d’oro come Apis. Secondo la studiosa, ci trove- remmo in presenza di una vera e propria riscrittura dell’episodio dell’An- tico Testamento, alla luce dei pregiudizi anti-musulmani, ora rinfocolati

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dalla nuova paura dell’arrivo dell’Islam: nel dipinto che rappresenta l’in- frazione delle Leggi che Mosè stava ricevendo, il toro, come il toro della leggenda, è il messo celeste del Libro sacro dell’Islam, l’idolo che aveva provocato la rottura della Legge mosaica. Alla luce di questa chiave di let- tura, il crescente sul corpo del bovino sarebbe la mezzaluna simbolo del regno ottomano; l’uomo con il braccio sollevato che ne sta uccidendo un altro con un pugnale e la donna con il seno scoperto in estasi nella danza rappresenterebbero, secondo gli stereotipi cristiani anti-islamici, la discor- dia della nuova Legge e la lussuria sfrenata da essa autorizzata; l’irrazio- nalità e il delirio in preda ai quali è il popolo testimonierebbero l’assenza di sicurezza della comunità, contro la misurata compostezza di costumi promossa dal sapere cristiano. Il fatto stesso che il toro si libri in aria, inve- ce di erigersi immobile su un piedistallo, visualizzerebbe la suggestione di una nuova dinamicità dell’eresia musulmana, del passaggio da una solida posizione secolare alle pericolose ‘fluttuazioni’ della sua recente espansio- ne verso l’Europa. Nel poema di Dante, la poesia nutrita dalla Sapienza e illuminata dalla Grazia è indicata come l’unico percorso che può portare alla salvezza. La stessa convinzione informerebbe quindi, quasi due secoli dopo, la poetica del Libro di Filippino Lippi, la poetica dell’unità della co- noscenza contro il sapere contraffatto degli eretici.

Tommaso Salvatore (Università di Ginevra) Dante e Ravenna, a cura di Alfredo Cottignoli e Sebastiana Nobili,

Atti del Convegno internazionale di studi (Ravenna, 27-29 settem- bre 2018), Ravenna, Longo, 2019 («Memoria del tempo», 66), pp.

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ono qui raccolti, a cura di due italianisti dell’Ateneo bolognese, a poco più di un anno dall’evento, gli Atti di un importante convegno ravennate del settembre 2018, al quale la Presidenza della Repubblica ha conferito una medaglia, quale «premio di rappresentanza». Il convegno, i cui esiti scientifici travalicano l’occasione commemorativa, era inteso a celebrare, nella restaurata Sala Dantesca della Biblioteca Classense (a quasi un secolo dalla sua inaugurazione ad opera del Croce), il settimo centenario dell’esi- lio, nella città adriatica, del sommo poeta, «secondo l’opinione più accredi- tata databile alla seconda metà del 1318 o, al più tardi, al 1319», a quanto si afferma nell’esaustiva Introduzione (pp. 11-20), firmata da entrambi i curato- ri. Preceduto da una Presentazione dell’Assessore alla Cultura del Comune di Ravenna (p. 9), nonché da una Premessa del Direttore del Dipartimento ravennate di Beni Culturali (p. 10), il volume, corredato di un eloquente

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