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Io sento la vita che scappa, sento il furto del tempo, a cui è difficile sottrarsi, ma ho ancora molte cose da fare. Sono arrivato ai 90, an-che se mi sono sentito sempre provvisorio e credevo di scollinare giovanissimo.

(Intervista rilasciata a Paolo Di Stefano, in “Corriere della Sera”, 19 giugno 2011) Io sono walseriano per la pelle. […] Il pregio fondamentale di Walser è la creazione con niente di un mondo profondo e intimo

(G. orelli, Quasi un abbecedario, a cura di Y. Bernasconi, Casagrande, Bellinzona 2014, p. 61)

Come forse in nessun altro poeta del secondo Novecento, in Orelli le parole della civiltà letteraria si fondono con quelle dell’attualità, senza finta innocenza e senza virtuosismi esposti, in una miscela polifonica che va dalle sfumature re-gionali (e da prove in dialetto) a intarsi con lingue altre d’Europa. Orelli è poeta coltissimo, ma non schiavo della cultura: nelle sue poesie le suggestioni, le cita-zioni e gli omaggi all’alta letteratura si innestano su occasioni spesso apparente-mente feriali.1 Il suo linguaggio ha sul lettore un effetto fresco, diretto, e spesso quasi materico, pur essendo lavorato nei riferimenti ai modelli – ora espliciti ora ammiccanti – e nelle derive ritmico-timbriche intertestuali; fa vedere il mondo come se si offrisse per la prima volta allo sguardo o addirittura balzasse dallo sfondo al primo piano. Italo Calvino, nella conferenza Mondo scritto e mondo non scritto (1983), aveva notato come l’approccio dei poeti del nostro tempo all’esperienza sia dominato – più di quanto non accada alla prosa – dall’osser-vazione del dettaglio trasparente, dall’investire oggetti minimi, piante o animali che fossero, come identificatori di realtà e di significato, dal William Carlos Wil-liams del ciclamino a Marianne Moore del nautilus a Eugenio Montale dell’an-guilla. Ne deduceva questa lezione utile anche alla narrativa:

La vera sfida per uno scrittore è parlare dell’intricato groviglio della nostra situazione usando un linguaggio che sembri tanto trasparente da creare un senso d’allucinazione, come è riuscito a fare Kafka.

Che la poesia di Giorgio colpisca l’emotività, per dire così primaria, di pro-fessionisti di norma addetti a notomie raffinate su fenomeni complessi della

te-Maria antonietta grignani

stura verbale e metrica lo mostra la poesia di uno dei critici più solidali con le idee estetiche di Giorgio, Stefano Agosti; il quale ingloba in una delle sue rare poesie date alla stampa, Il prato di margherite nel volumetto La riconoscenza, un omaggio all’immagine del bimbo Matteo che bruca le margherita nella splendida poesia Che fa Matteo Delbrück (in Spiracoli), tutta piena di colori e di rinvii, già in esergo e poi nel finale, alle meraviglie lucreziane del visibile: «perché tutto / è nuovo per il figlio di mia figlia, / tutto è meraviglia». Agosti inscrive addirittu-ra il nome nel testo: «Tu intanto / stai prepaaddirittu-rando l’insalata / che brucheremo come Matteo Delbrück, / carponi sul prato, le margherite».2

Uno dei motivi che rendono memorabile la poesia di Orelli è quello dello stupore di fronte all’esistenza, una meraviglia che si offre all’adulto e riattiva in lui l’incanto tipico dell’infanzia nella scoperta e nel presentarsi alla percezione di quel che si vede.3 Pier Vincenzo Mengaldo ha parlato di «sorridente capacità di suggerire la natura sfuggente di quanto ci circonda»,4 aggiungerei non tanto attraverso lo sfumato quanto tramite una nitida “pedagogia” dello sguardo, che ci invita a riconoscere due direzioni e due percorsi di va-e-vieni: innanzi tutto la direzione dal soggetto verso l’oggetto e, al contrario, quella dall’oggetto in di-rezione del soggetto ricevente; e poi la dimensione che va dal dettaglio minimo alla presa grandangolare e viceversa.

Si direbbe che in rapporto a questi doppi movimenti delle apparizioni del

“reale” stia un altro tema, anch’esso originario e perdurante: la mutua perme-abilità e permutperme-abilità tra vita e morte. Basta pensare ai titoli delle raccolte Si-nopie e Spiracoli molto indicativi, l’uno della sovrimpressione tra vivi e defunti e l’altro dell’apparire di ciò che non è più, o non è palese, per fessure e spifferi;

oppure a qualche passo anche antico come «I morti sono più vivi dei vivi» (Nel cerchio familiare); «la vita che noi morti qui viviamo»; e ancora: «pensare che la vita / dev’essere viva, cioè vera vita, o la morte la supera / incomparabilmente di pregio» (SI);5 infine al titolo e al testo de La trota argentea di montaliana memo-ria, la quale – simbolo di vita – sfugge alla mano di chi l’ha catturata e in questo modo, non tanto “si salva”, quanto letteralmente «torna al suo fiume, ci salva».

La fluidità tra i vari dominî del mondo, cose, animali, umani vivi o trapassati, si appoggia sovente a elementi coloristici, con maggior frequenza rispetto alla media della poesia contemporanea.

I colori in Orelli sono un supporto essenziale di quell’atteggiamento che ho appena chiamato, in mancanza di una definizione migliore, pedagogia dello sguardo. Ci viene incontro, nel risvolto di copertina dell’ultima raccolta edita Il collo dell’anitra, la nota d’autore:

Dal collo dei colombi di Lucrezio a quello dell’anitra, è continua meraviglia il trasmutare dei colori a seconda della luce: così è della vita, degli spettacoli anche minimi del mondo.

A tale nota, che ne è quasi sintesi, corrisponde il testo posto ad aprire il volume, traduzione da De rerum natura II, 798-805, con il solfeggio di rosso-azzurro-smeraldo tra tenebre e luce:

PeDagogiaDellosguarDoeDeClinazioneDeiColori

Quale colore permettono le cieche tenebre?

Già nella luce stessa trasmuta un colore se rifulge perché lo percuote obliqua o diritta;

così cambiano al sole le piume dei colombi che di torno alla nuca coronano il collo, e infatti talvolta sono rosse di fulgido piropo e paiono talaltra mischiare all’azzurro il colore dei verdi smeraldi.

Gilberto Isella, in un recente suo saggio molto acuto, ha osservato che «le gamme cromatiche ricoprono un ruolo attivo e in larga misura euforizzante, nella produzione del senso». Il che è vero non solo per il ruolo attivo che que-ste gamme ricoprono, ma anche per come lo ricoprono, con quali declinazioni linguistiche.6

La percezione della forma e del volume nell’Orelli poeta è molto spesso subor-dinata alla evidenza cromatica, esattamente il contrario di quanto – poniamo – fa il Manzoni correggendo il Fermo e Lucia e dandoci un romanzo di volumi, ma prevalentemente in bianco e nero e relative sfumature intermedie.7

Ricorro a un esempio tra i molti. In A Giovanna sulle capre (SI) le capre, elemento naturale, per effetto della luce perdono volume e diventano macchie nere, assumendo la pura forma bidimensionale della chiazza in quanto tale, che padre e bambina potrebbero attraversare stagliata contro il cielo. La «fissità un po’ smaterializzata che potremo chiamare araldica», secondo l’efficace formula-zione di Mengaldo (p. 193), è data dalla figuratività cromatica:

e in giorni come questo luminosi,

vedi, non hanno corpo, non sono che macchie nere sul greppo; e quella, immota contro il cielo, potremo attraversarla tenendoci per mano.8

Sicura e costante la dominanza dei colori basici che, a quanto dicono gli esperti, equivalgono ai fenomeni emotivi primari (sono dunque pan-human per-ceptual universals?), anche se la loro semiologizzazione varia nelle varie culture:

bianco, nero, rosso, verde, giallo, azzurro/blu, marrone, viola/porpora, rosa, arancione, grigio. Sono i basici a prestarsi ancora oggi a varie estensioni e neo-formazioni.9

Il campo lessicale del giallo e quello dell’azzurro producono nelle raccol-te mature l’esraccol-tensione dell’aggettivo/sostantivo alle forme derivative verbali e quindi danno alla resa del colore una sfumatura di processo o di evento in du-rata. Per azzurreggiare: «vedi un azzurreggiare / limpido» (Per Agostino, SP);

«da tanto biondeggiare azzurreggiare» (Come quando di là dal Gottardo, CA).

Per gialleggiare: «il muro dove gialleggia la buca / delle lettere» (Cardi, II, SP);

«più non gialleggia la buca / delle lettere» (La buca delle lettere, in forma di implicito rinvio interno al precedente, in un testo reso noto dell’imminente ul-tima raccolta L’orlo della vita). Secondo una ricerca di Rita Fresu condotta sulle

cinque edizioni della Crusca, per gialleggiare esistono esempi antichi, tra i quali nel 1384 il Libro di viaggi di Pier Del Nero («La gente, che dimora appreso questa fiumana, verdeggiano e gialleggiano»). Il verbo nel Grande Dizionario della Lingua Italiana è attestato in Leonardo, Frugoni, Pindemonte, Carducci, D’Annunzio, Soffici, Gadda.10

Vasta in italiano la duttilità dei cromonimi, di norma lemmi con funzione nominale o aggettivale. La tipologia delle flessioni riguarda i procedimenti di lessicalizzazione analitica, ossia associazione dei colori con pietre, metalli, flora, fauna, realtà gastronomiche e sostanze che li hanno suggeriti, dato che il rosa, il viola, l’arancio dimenticano – oppure possono riallacciare – il legame origi-nario con il fiore o frutto cui sono associati. Perfino fatti storici e guerreschi sono generatori di colori. Ricordo il montaliano Nubi color magenta, che non colleghiamo d’acchito con il rosso particolare, attestato fin dal 1862 e ispirato purtroppo al luogo del bagno di sangue che nel 1859, con la vittoria dell’esercito franco-sardo su quello austriaco, concluse la seconda guerra di indipendenza:

un rosso cruento, detto appunto color Magenta.

Non stupisce in Cardi II (SP) il «rosso Gaudenzio» delle magnolie, dentro un tripudio di viola, bianco, arancio, azzurro e giallo; associazione caritatevolmente postillata da Orelli come suggestione dei colori del ciclo di Gaudenzio Ferrari a San Cristoforo di Vercelli:

Da bianche magnolie o d’un rosso Gaudenzio, sul viola, due tortore vanno non senza gioconde esitazioni (il bianco ripete il breve

ventaglio della coda) nell’araucaria che uncina con troppi rami morti un balcone.

Le solite onoranze del sambuco.

Un pensionato dà la prima mano

di minio al suo cancello. Un cane vestito di stracci e di vuoto rincorre l’autocarro

della Nettezza Urbana. Mi saluta in arancio un addetto sempre in piedi di dietro con occhi

d’intensissimo azzurro.

[…]il muro dove gialleggia la buca delle lettere.

[…]

Veniamo ora a un’analisi blandamente diacronica, partendo da L’ora del tem-po, perché anche da una specola apparentemente secondaria si coglie l’evoluzio-ne dello stile di Orelli.

In questa prima fase della poesia l’aggettivo di colore è spesso preposto al sostantivo, secondo la disposizione agg + sost tipica della tradizione: «candido braccio» (Paese); «argenteo pulviscolo» (Colgo questo paese); «verde primavera»

Maria antonietta grignani

(Gli occhi che un poco muoiono se guardano); «verde traiettoria» (Lettera da Bel-linzona). Ma è già più frequente la posizione posposta, meno tradizionale: «Ai boschi bruni, alle pietre più grige / ci riconosceremo» (Per Agostino); «splen-dono bacche rosse» (Perché il cielo è più ingenuo); «barbagli azzurri» (Il lago);

«fronde sempreverdi» (Natale 1944); «aria rosata» (Lettera da Bellinzona).

Nella forma sostantiva si trova: «il primo verde / di robinia» (Assenza); «il più giovane verde» (A una bambina tornata al suo mare); «dove incupisce nel suo verde il pino» (Lo stagno); «lungo il verde proteso d’infanzia» (Nel dopo-pioggia); «l’azzurro che viene / dal Nord» (Il lago).

Già compaiono i verbi derivati in -eggiare: «tra i calcestri / biancheggianti del passo» (Campolungo), dove calcestro, frequente nel Ticino, vale “roccia cal-carea”.

Anche l’apposizione sostantivale compare e indirizza verso quell’astrazione dal volume a vantaggio del puro colore, che ho ricordato sopra per le macchie nere delle capre: «ritrovo, grigio appeso, lo spauracchio / che somiglia un fan-ciullo» (Novembre 1944).

Riporto alla fonte del colore, cioè alle entità botaniche che diedero nome a due colori, in questo passo: «le gazze curiose, lasciando a piè degli alberi / il loro sterco come un reciticcio / d’arance e di viole?» (Dicembre a Prato).

Fin dalle prime poesie che vanno a comporre OT, i cromonimi, colori della natura e di certi animali, sono serie definite una sullo sfondo dell’altra per stac-chi netti. La scolopendra «dal roseo ventre / ch’agita folle i piedi nell’azzurro»

introduce un frammento di meraviglia-colore, campito sull’azzurro del cielo;

mentre il Frammento della martora, come ha messo in evidenza De Marchi e ha confessato Orelli stesso, è stato scritto per ridare vita e dinamismo – in virtù della parola poetica che riprende nel colore il legame originario con il frutto – all’unica martora da lui vista, e purtroppo uccisa, in un episodio di cui parla una antica prosa di Un giorno della vita: «A quest’ora la martora chi sa / dove fugge con la sua gola d’arancia».11 Procedimento portato al massimo in «Grida un tacchino i suoi coralli» (Lettera da Bellinzona).

Altro primo piano dei colori in versione sostantivata e in sintassi nominale è nella Lettera da Bellinzona, che inizia con l’immagine del castello più alto della città, dato attraverso il primo piano di due colori, il grigio e il verde, fuori da qualsiasi allettamento di naturalismo:

Una fascina d’anni, una collina.

E il castello più alto.

Tutto il grigio all’altezza dei colombi, tutto il verde che scorre fino al grigio…

[…]

Ma secondo la poetica di allora, che amava gli infiniti e le analogie esplicite, il colore è talora indicato solo in negativo (Né bianco né viola):

PeDagogiaDellosguarDoeDeClinazioneDeiColori

Nulla più chiedo. Contemplare il cielo che trasfigura la mia terra.

Lontano

dagli incantevoli luoghi di nausea dove l’anima è fredda,

simile a un crisantemo né bianco né viola.

Gli «incantevoli luoghi di nausea», simbolo della vita metropolitana e proba-bilmente di un lutto storico – la guerra in Europa – hanno un’anima mortuaria e indistinta, di contro al cielo che trasfigura la terra d’origine.

Inseguiamo per un attimo la nuance bianco-viola. Sempre in OT in Epigram-ma pisano troviamo il «falciatore in Piazza dei miracoli» e il pescatore fissato da sempre nella sinopia di Pisa, ma il primo è simbolo di morte con la sua falce e il colore del lutto: «viola stinto con falce lungo il muro del Campo». Negli anni ottanta – significativamente – gli stessi due colori (bianco e viola), indicatori del lutto, vengono ripresi e trasferiti in essenze sostitutive: «Oh nigritelle oh lividi nel gelo» si legge in A un ragazzo perito in montagna (SP), dove il viola e il bianco assumono la materialità di sostanze, la nigritella alpestre e il gelo mi-cidiale della montagna. La preferenza per il primo piano della forma nominale della qualità cromatica si legge, nella stessa raccolta, per un’amica di gioventù scomparsa (Ah dopo tanti bianchi il lillà):

Ah dopo tanti bianchi il lillà così viola intravisto contro il muro della tua casa in montagna, Carlotta che m’hai guidato leggera nei primi tanghi su piste ai margini del bosco, leggera

sei passata di là!

SI non offre gran quantità di cromonimi, dato il taglio polemico o “narrati-vo” di molti pezzi. Participio presente nei ginocchi lucenti della ragazza che va in altalena e nella gomma biancicante che a richiesta porge (Ginocchi). Il verbo biancicare e il participio presente relativo, oggi rari, si trovano dal Tesoretto di Brunetto Latini fino al Foscolo e al Pascoli.

Nella scarsità di aggettivi di colore preposti o posposti al nome, spiccano le forme sostantive, tipo «nebbia tinta d’azzurro»; «l’arancio della calendula».

Spesso emerge la “motivazione”, come qui, con la giunta del luogo di riferi-mento: «Il cielo in qualche zona / ha l’azzurro nutrito dal ferro / delle ortensie sul Ceneri» (Quadernetto del bagno Sirena, I). Notevoli le definizioni indirette tramite analogia: «setter color sasso» (La trota). Attribuzione coloristica in me-tonimia ardita in questo esempio, ancora col viola del lutto: «i vecchi padroni senza figli / dormivano violetti, foderati d’abete» (Frammento dell’ideale).

Maria antonietta grignani

Interessante il seguente fenomeno, che possiamo chiamare un non detto cro-matico, l’omissione del colore per ricorso all’enciclopedia dantesca del lettore:

«nell’ombra dove vanno, più che burro, due oche» (In riva al Ticino), con rinvio a Dante, Inf. XVII, 63: «mostrando un’oca bianca più che burro», lì descrizione di una impresa araldica.

Il ventaglio di soluzioni appena ricordato preannuncia l’esito in totale astra-zione della poesia intitolata STOP (SP), dove la rupe e i colombi si imbucano in

«un buio verde immaginario» (quale dei due – buio / verde – il sostantivo? quale l’attributo?), simile a una cruna d’ago per chi osserva; i piccioni si alzano dal basso dell’asfalto, sul cui colore (in perifrasi: «colore d’asfalto») erano schiac-ciati o sovrapposti in riposo, e si appropriano, aprendo le ali, del bianco di uno stop stradale («macchiati di STOP»), in totale straniamento dal “realismo” figu-rativo. È questo un procedimento di attribuzione metonimica, tra l’altro molto produttivo nelle attuali coniazioni della langue:12

D’improvviso una frotta di colombi volò sopra di noi verso la rupe

spogliata del castello e allungandosi in fila sparì nel buio verde immaginario

d’una cruna.

Ma non diceva nulla alla signora che avevo salutato e ormai piccioni ce n’era a bizzeffe, colore d’asfalto e nell’alzarsi macchiati di STOP.

Per indugiare ancora su SI, i colori resi materia sono passaggi primari attra-verso la percezione di oggetti che mutano o si muovono in una loro specificità difficile da individuare. In Dopo Lucca appare innanzi tutto un cromonimo-sostanza, l’argento, che poi si rivela qualità coloristica di un branco d’acciughe:

Tu credevi che fosse uno scherzo del vento controcorrente: fitti argenti, scompigli d’un attimo, là, presso gli scogli del molo.

Ma erano le acciughe: […]

La distanza del tempo può riallacciarsi al presente attraverso un colore dota-to di una apposizione metaforica; ed è il rosa vecchio regaladota-to al centro di Urbi-no, col palazzo individuato in cima a una valle, chiazzata come le mucche di Pied Beauty di Hopkins, una valle «stupendamente pezzata, sparsa di / lingotti d’oro bianco»: «scorgemmo, rosa vecchio, Urbino» (Quadernetto del bagno Sirena:

inc. «C’era davvero il duca?»).13

Nel mondo dei bambini, così congeniale a Orelli, si accampano colori smalta-ti, che precedono o vicariano i soggetti cui sono attribuismalta-ti, quasi ne portassero la quiddità in quanto soterici. Sono il palloncino rosso e le gialle forsizie, portati in

PeDagogiaDellosguarDoeDeClinazioneDeiColori

dono da una nonna, a ridare vita e salute a un interno di penombra, tono su tono per metonimia rispetto alla bambina malata di morbillo («tutto quel giallo […]

l’altro giallo») in Sera di San Giuseppe, con una suggestione botanico-coloristica derivata da un passo di Benn che tornerà poi in CA ne Le forsizie di Bruderholz:

[…]

Col palloncino rosso e un fascio di fiori gialli che altro non erano che le forsizie di cui lessi in Benn, per fortuna è venuta tua madre:

sùbito così nonna, così sagra

nella nostra penombra al primo piano

che non potevo darle un bacio. Del resto, qualcuno doveva pur liberarla da tutto quel giallo

perché potesse abbracciare

l’altro giallo: balzata al trambusto dal letto col pigiamino giallo, veramente Giovanna.14

Colori di cose e animali si scambiano le parti in SPI, dove prevale l’aggettivo posposto al sostantivo, secondo l’uscita definitiva della poesia italiana dai modi del lirismo di tradizione. In Alter Klang, intitolato come un quadro di Klee, tro-viamo corvi turchini, mirtilli rossi, formiche ora rosse ora nere, farfalle brunicce, oltre alla sostantivazione in «cavallette d’un grigio deprimente»; oppure in «roc-ce / chiazzate di giallo lichene e nerastro». La sostantivazione cromatica crea un animale-colore, la ghiandaia, definita citazionalmente, da Il riverbero di Govoni:

«quel celeste impossibile di fianco, striato di nero».15

Stefano Agosti a suo tempo ha notato che talvolta il colore guarda e parla al soggetto, come appunto in Alter Klang dove una delle ghiandaie, dal suo

«celeste impossibile», a un certo punto – si legge – «mandò breve un saluto».16 Questa bestiola a sua volta sollecita uno sguardo di rimando in chi la ricono-sce felicemente. Subito dopo un altro animale guarda sorpreso e domanda al soggetto «chi sei?»; è la faina, con sua livrea coloristica in accusativo alla greca:

«balzò sul mio sguardo / inclinato agli steli paglierini tremanti sull’orlo / del precipizio, bianca la gola, la faìna».

Metafora con la sola provenienza del valore cromatico per un ragazzo defini-to dantescamente «fresco smeraldo in l’ora che si fiacca» (Ascoltando una rela-zione in tedesco).17 Si deve far ricorso all’induzione del lettore pure in quest’altro caso: «Col silenzio di cento ramarri» (Cardi, VI), sinestesia virtuale per un colore implicito nel suo portatore eponimo (è espressione comune “verde ramarro”).

Tra un enunciato come «senza giallo di mimosa» (Blu di metilene) e un altro

Tra un enunciato come «senza giallo di mimosa» (Blu di metilene) e un altro