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«Andavo a Milano, appena finita la guerra, e sempre un po’ Renzo Tramaglino, da contadino che si inurba, visitavo Scheiwiller, Sereni, Erba», così Orelli in un articolo dedicato all’editore Vanni Scheiwiller apparso nel 1999 sul “Giornale del Popolo”.1 E proprio al periodo immediatamente successivo al conflitto mon-diale è da far risalire l’inizio del rapporto fra il poeta ticinese e Vittorio Sereni, un rapporto che nel corso degli anni ha lasciato tracce importanti, specie da parte di Giorgio Orelli (ma chissà che le carte di Sereni, e dello stesso Orelli, non riservino ancora delle sorprese): nel 1983 appare sulla rivista “Verbanus”

(IV, 1983, 4) la poesia A Vittorio Sereni (poi riedita nel 2001, con varianti, ne Il collo dell’anitra); due anni dopo una prosa inedita, intitolata La ballata degli anarchici, in I gentiluomini nottambuli. Una poesia e lettere di Vittorio Sereni, con cinque acqueforti di Franco Rognoni e testi di Carlo Fruttero, Dante Isella, Franco Lucentini, Giorgio Orelli e Alessandro Parronchi, Scheiwiller, Milano 1985; nel 1991, in occasione del convegno tenutosi a Luino il 25-26 maggio di quell’anno, Orelli dedica il suo contributo (uscito l’anno successivo negli Atti) al Sereni traduttore di Char (Un accertamento su Char e Sereni);2 nel 1994 lo sguardo di Orelli è attirato da due poesie contigue (Saba e Di passaggio) de Gli strumenti umani: ne nasce un breve ma intenso accertamento intitolato Due poesie di Sereni, edito nel volumetto Un posto di vacanza e altre poesie, a cura di Zeno Birolli, con due scritti di Laura Barile e Giorgio Orelli, All’Insegna del Pesce d’oro, Milano 1994, pp. 77-85;3 nel 2008 Orelli interviene a una serata, nell’ambito del “Festival racconto Piero Chiara” (Varese, Villa Ponti, 2008), in onore di Vittorio Sereni nel 25° anniversario della morte (con Marta Morazzoni, Silvia Sereni e Andrea Vitali).4 È infine da ricordare la partecipazione dei due poeti ad alcune trasmissioni del programma della Televisione della Svizzera Ita-liana Lavori in corso: il 2 febbraio 1970 a Poesia ’70 (a cura di Cesare Garboli e Marisa Bulgheroni, con Stefano Agosti, Giorgio Orelli, Ippolito Pizzetti e Vitto-rio Sereni); l’8 novembre del 1971 a La magia, la superstizione (a cura di Grytzko Mascioni, con Max Frisch, Giorgio Orelli, Vittorio Sereni, Elémire Zolla); il 27 dicembre dello stesso anno a L’arte, l’amore (a cura di Augusta Forni, con Max Horkheimer, Violette Morin, Max Frisch, John Wain, Charles Percy Snow, Pao-lo Milano, Talcott Parson, Vittorio Sereni, Cesare Segre, Giorgio Orelli, Mario Luzi, Jacqueline Risset, Alfred Andersch, Alain Touraine); e, ancora, il 10 aprile del 1972 a Il tempo libero, la macchina, il gioco (con Vittorio Sereni, Max Frisch, Andrea Zanzotto, Giorgio Orelli, Enzo Melandri, Pierre Naville, Alain Tourai-ne).5 Accanto a tali testimonianze, si conservano nell’Archivio Sereni di Luino

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cinque lettere di Orelli indirizzate all’amico luinese e scritte nel corso di poco più di un trentennio (fra il maggio del 1950 e il febbraio 1982).6

Ma, com’è noto, Vittorio Sereni e Giorgio Orelli appaiono altresì uniti (insie-me a Roberto Rèbora, Nelo Risi, Renzo Modesti e Luciano Erba) nella raccolta ideata da Luciano Anceschi nel 1952, Linea Lombarda.7 Benché in tempi diver-si, entrambi si dimostrano poco entusiasti dell’iniziativa anceschiana. Il primo rivela la sua reticenza (quasi insofferenza), con toni a tratti duri, in un’impor-tantissima lettera da far risalire all’aprile del 1952:8 esplicita qui le perplessità sull’iniziativa («Io rimasi perplesso non – è bene dirlo una volta per tutte – di fronte alla compagnia, ma di fronte all’idea, allo spunto»), sulla stessa etichetta di “linea lombarda” («Ma non mi sento “movimento”, né mi sembra costituire movimento o filone, piccolo o grosso che sia, quel gruppo di nomi che formano una “linea lombarda”. È vero, tu l’hai detto, “nessuna scuola”…») e, soprattut-to, sull’esclusività del rapporto poesia-realtà che agli occhi di Anceschi costitui-sce una peculiarità dei sei poeti antologizzati:

Vediamo qual è questa qualità [identificata da Anceschi quale matrice comune ai sei poeti]. Si tratta del particolare rapporto tra poesia e realtà. E qui mi pare non ci sia dub-bio: il moto di poesia colto nei sei poeti è quello che tu hai descritto, è la parte davvero concreta e felice del saggio […] e si può dire che vale per tutti quanti i prescelti (salvo sfumature). Ma qui ci risiamo. Questo particolare rapporto è proprio esclusivo, incon-fondibile tanto da rendere reale una “linea lombarda”, una disposizione lombarda della lirica nuova? O questo particolare rapporto, o “sentimento del rapporto” tra poesia e realtà non è per caso un fatto molto più vasto nel quale s’iscrive, del quale partecipano, ognuno nei propri modi, i sei antologizzati? […] In altri termini: lo spunto, occasionale per esplicita ammissione, ha finito col fruttificare in una “linea lombarda”. Il dubbio che a me rimane è questo: non valeva la pena, visto che ci si era avviati, distendere un discor-so molto più generale sul sentimento del rapporto tra poesia e realtà nella poesia italiana contemporanea di cui sarebbe, più o meno evidente, più o meno felice, nient’altro che un espisodio il caso dei sei poeti presentati?

Orelli, a distanza di tempo, pur non nascondendo gratitudine per Anceschi, esprime un certo distacco, che tuttavia non raggiunge il tono polemico di Sereni:

Io continuo a rallegrarmi d’aver avuto in gioventù un amico, un patronus, come Ance-schi, anche se, molto post factum, letto anche il volume einaudiano dell’89 (Gli specchi della poesia), riconoscenza e gratitudine non possono non striarsi di sorridente distacco.

No, l’etichetta di “lombardo della Svizzera” non mi ha mai disturbato, come non mi ha mai disturbato quella, pure divertita ma più fondata (per le mie prime prose), continiana di “toscano della Svizzera”. È che non vedo “linea”, e meno ancora “via” lombarda (si legga, di Giorgio Luzzi, Poesia italiana 1941-1988: la via lombarda). Né mi pare che le dichiarazioni di Anceschi nella citata prefazione diano consistenza alla «disposizione lombarda nella lirica nuova»; con quei moti improvvisi, esclamativi: «Che cosa fu mai Sassu, per noi, in quegli anni!», «E quanto amammo Quasimodo». Ricordo bene queste cose, queste cotte, non condivise da me, nutrito in quegli anni da ben altro pane (e, a Friburgo, Europa non era solo uno scoppio bilabiale).9

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L’etichetta di “linea lombarda”, «proverbiale invenzione di Anceschi, poco resi-stente sul piano formale, ma non del tutto sbagliata a livello tonale»,10 va pertan-to còlta con estrema cautela anche nel caso di Orelli e Sereni e, d’altra parte, uno studio vòlto a individuare riscontri testuali precisi o eventuali contaminazioni della poesia dell’uno nell’altro non risulta, a mio parere, la via più feconda per determinare eventuali affinità fra il poeta luinese e Giorgio Orelli. Più fruttuo-so appare invece – ed è su questo aspetto che intendo fruttuo-soffermarmi – indagare alcuni momenti poetici cruciali cui entrambi sembrano giungere attraverso un percorso attentissimo al motivo dei morti,11 nodo implicito del già menzionato accertamento orelliano del 1994 – Due poesie di Sereni nel volume «Un posto di vacanza» e altre poesie –; e proprio da questo accertamento intende prendere av-vio la presente ricerca. Il libro in cui appare, curato da Zeno Birolli, è suddiviso in tre sezioni: la prima (che dà il titolo al volume) comprende dodici poesie di Vittorio Sereni appartenenti a Gli strumenti umani e a Stella variabile,12 disposte in ordine inverso rispetto all’uscita delle due raccolte (i testi di Stella variabi-le anticipano variabi-le poesie de Gli strumenti umani); la seconda sezione, intitolata tRa FiuMe e MaRe prose su Bocca di Magra di Vittorio Sereni è costituita da quattro prose: tre già pubblicate in altra sede («Il ritorno», Tra fiume e mare e Infatuazioni)13 e una fino ad allora inedita, Bocca di magra (ms. di tre piccoli fogli numerati, s.d.); l’ultima sezione, infine, PeR VittoRio seReni, include tre scritti, nel seguente ordine: Due poesie di Sereni di Giorgio Orelli, I nomi di un quadro di Zeno Birolli e Alcuni materiali per «Un posto di vacanza» di Laura Barile. Il saggio orelliano propone una lettura di due testi poetici, Saba e Di passaggio, situati l’uno di seguito all’altro entro la sezione Appuntamento a ora insolita de Gli strumenti umani. La lettura di Di passaggio (il primo testo cui Orelli si dedi-ca) consente di cogliere alcune peculiarità dei due poeti nel trattare il tema dei morti; tema che, per la sua ampiezza, verrà qui circoscritto solo ad alcuni aspet-ti, che via via espliciterò, e con una maggiore attenzione per le poesie di Orelli.

Di passaggio

Un solo giorno, nemmeno. Poche ore.

Una luce mai vista.

Fiori che in agosto nemmeno te li sogni.

Sangue a chiazze sui prati,

non ancora oleandri dalla parte del mare. 5 Caldo, ma poca voglia di bagnarsi.

Ventilata domenica tirrena.

Sono già morto e qui torno?

O sono il solo vivo nella vivida e ferma

nullità di un ricordo? 10

Suggerendo implicitamente una spiegazione al titolo di una sua poesia conte-nuta in Sinopie – Di passaggio a Villa Bedretto – a Orelli non sfugge l’«apparente levità» del titolo (parla, per l’esattezza, di una «breve e intensa lirica intitolata con

apparente levità “Di passaggio”» [p. 77, corsivo mio]); e di levità solo apparente si tratta, giacché nella poesia il poeta individua due distinti percorsi, uno mortale e l’altro vitale.14 Il primo «è dominato da morto 8 e può dirsi “mortale”. Accoglie giORno 1, provvisto del nesso /OR/ in arsi di morto, con cui dimora TORno che ne torce (come dice Petrarca) il gruppo forte. Come giorno e morto in 4a, così sono isometrici torno e ricordo 10 […] (p. 79). La «seconda portante fonica», o come si preciserà poco dopo, il secondo «triangolo», «investe /i/ di semantismo luminoso» e «può dirsi “vitale”, è una classica figura su /VI/; mossa da VIsta 2, isometrico a VIvo 9 potenziato nel suo stesso verso da VIVIda» (p. 79). La presen-za di un duplice e apparentemente opposto percorso (altresì registrato, attraverso le medesime terne lessicali nella successiva Saba) anziché costituire un contrasto, genera, grazie alla particolare disposizione di alcuni termini («caldo», «sangue»,

«fiori»), «un’aria stranita che finisce col pareggiare vita e morte».15

Le pagine dedicate alle due poesie de Gli strumenti umani sono sintomo di una duplice operazione: da una parte il poeta individua un motivo notoriamente centrale della poesia di Sereni associandolo a un percorso vitale, “pareggiando”

le due realtà dell’esistenza16 e intrecciando alla realtà mortuaria altri due temi fondamentali della poesia di Sereni, il tempo e la memoria;17 d’altra parte, come spesso accade, Orelli parlando d’altri, sembra parlare anche di sé.18 Il tema degli

«andati di là» è tratto dominante anche della sua poesia,19 e non è un caso che la terna lessicale giorno-morto-ricordo («tre parole», scrive Orelli, «così legate nel senso e nel suono», p. 81), individuata in Di passaggio quale matrice del percorso mortale, trovi riscontro nel suo “sistema”: «ogni giorno», confidava Orelli a De Marchi in un’intervista, «in qualche modo contiene tutta la vita»

e «di qui», proseguiva il poeta, «lo sforzo di non lasciarsi scappare troppo di noi e del mondo che ci circonda, di fronte al furto irrimediabile del tempo»;20 a sua volta il ricordo, nell’attacco del secondo movimento della poesia L’estate a Prato Leventina, 1-4 (si), sembra allontanare la morte: «Ancora, nel ricordo, / è come se potessimo, strappando / fin le ultime radici delle erbacce, / allontanare la morte» (e non si escluda, in quest’ultimo verso, l’eco del Sereni di Strada di Zenna, F, 2-4: «[…] Ma ora / nell’estate impaziente / s’allontana la morte»).

Ma il binomio vita-morte, e il saggio dedicato a Sereni non ne è che un’ulterio-re conferma, percorun’ulterio-re anche le prose critiche di Oun’ulterio-relli: basti pensaun’ulterio-re, a titolo d’esempio, al saggio «Stil canuto» di Saba (apparso in “Strumenti critici”, XI [1977], 32-33, giugno) o, ancora, a parte dell’accertamento verbale dedicato a Mario Luzi (Sul «mentre» nella poesia di Mario Luzi).21

In Sereni la radice del rapporto vita-morte e del suo successivo mutare nel tempo è da cogliere nella sezione eponima della raccolta d’esordio, Frontiera;

in Orelli in parte della IV (e ultima) sezione de L’ora del tempo, sezione in cui convergono quasi tutte le poesie di nCf seguite da quattro testi inediti. In effetti, benché alcuni indizi importanti di tale binomio vengano espressi già in poesie di precedenti sezioni (nel caso di Sereni) o raccolte (nel caso di Orelli), è lì che si annida con una certa costanza quella compresenza di estremi, che da subito suggerisce delle implicazioni fortissime con un altro binomio fondamentale, il

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silenzio e la parola. Un’operazione preliminare – utile a cogliere la frequenza esplicita del motivo funebre nonché il suo rapporto con la «vita» – consiste in un rapido esame delle occorrenze dei termini «morte» e «vita» (e l’operazione, d’altra parte, sembrerebbe non essere estranea né a Orelli né tantomeno a Sere-ni):22 sia in Frontiera sia in L’ora del tempo il lemma «morte» (o derivati) prevale sul termine «vita», e il rapporto fra occorrenze e numero di versi è più o meno simile;23 inoltre, entrambe le raccolte registrano un’unica poesia contenente – entro il medesimo verso – i due lessemi: Strada di Creva 15 («Questo trepido vivere nei morti») e Nel cerchio familiare 9 («i morti sono più vivi dei vivi»). Al di là dell’affinità lessicale, Strada di Creva e Nel cerchio familiare costituiscono, entro l’itinerario poetico di Sereni e Orelli, una tappa fondamentale e simile nonché un nuovo punto d’avvio, percepibili anzitutto tratteggiando, almeno per sommi capi, il percorso che conduce ai due componimenti.

Nel cerchio familiare viene pubblicata per la prima volta nella rivista “Botteghe oscure” (con il titolo Nel cerchio famigliare), quindi nella plaquette del 1960 (cui dà il nome); ne L’ora del tempo si situa nella parte conclusiva del libro,24 ma si noti che in entrambe le edizioni si colloca, ed entro il medesimo ordine, in un nucleo compatto di testi, che da L’estate giunge a Prima dell’anno nuovo. Più nel dettaglio, si osserva che nCf è costituita da undici componimenti (Epigramma veneziano [1]-Il fanciullo del paradiso [2]-L’estate [3]-Passo della Novena [4]-Di-cembre a Prato [5]-Nel cerchio familiare [6]-Prima dell’anno nuovo [7]-L’uomo che va nel bosco [8]-Nel dopopioggia [9]-A un amico che si sposa [10]-Frammento della montagna [11]), tutti riproposti in ot: ad eccezione delle due poesie inizia-li – collocate rispettivamente nella terza e nella prima sezione della raccolta del 1962 – le liriche di nCf andranno a situarsi, con lieve ma significativa variazione dell’ordine, nella IV sezione di ot, che propone altresì, in chiusura, quattro poesie inedite. Ne deriva una sezione così composta: 25 L’uomo che va nel bosco [8 →1]-Nel dopopioggia [9→2]-L’estate [3→3]-Passo della Novena [4/4]-Dicem-bre a Prato [5→5]-Nel cerchio familiare [6→6]-Prima dell’anno nuovo [7→7]-A un amico che si sposa [10→8]-Frammento della montagna [11/9]-*Brindisi del primo fieno-*A un giovane poeta cacciatore-*A mia moglie, in montagna-*[Se fai come il vecchio sartore…]. La disposizione definitiva anticipa, ad apertura di se-zione, la coppia (mantenuta sin da nCf) L’uomo che va nel bosco – Nel dopopiog-gia, inizialmente situata in ottava e nona posizione (fra Prima dell’anno nuovo e A un amico che si sposa); propone poi il mantenimento e l’ordine di un consi-stente nucleo di testi (L’estate, Passo della Novena, Dicembre a Prato, Nel cerchio familiare, Prima dell’anno nuovo);26 infine A un amico che si sposa e Frammento della montagna, anziché seguire (come in nCf) Nel dopopioggia, sono poste di seguito a Prima dell’anno nuovo e prima della serie delle quattro poesie inedite.

I testi situati alle estremità della sezione appaiono il frutto di una riflessione assai calibrata, giacché le due poesie illustrano due motivi chiave dell’ultima parte del libro, al cui centro – quale punto di svolta – sembra situarsi Nel cerchio familiare. In effetti L’uomo che va nel bosco e [Se fai come il vecchio sartore],

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correlati peraltro dal significativo «oscillando» (L’uomo che va nel bosco 13-14:

«con sulle spalle falci, che, divaricate, / oscillando, scintillano»; [Se fai come il vecchio sartore] 2: «le vacche nere di pioggia che oscillando indietreggiano»),27 colgono due aspetti fondamentali dell’ultima parte del libro (e degli sviluppi della poesia di Orelli), assumendo così il ruolo di “cornice”. La poesia posta ad apertura della sezione illustra, in termini accentuati, la duplicità vita-morte, mediante alcuni lemmi che agli occhi di Orelli (parecchi anni dopo) avrebbero costituito il «percorso mortale e vitale» dei due testi di Sereni già menziona-ti, Saba e Di passaggio, oggetto dell’accertamento del 1994. In effetti L’uomo che va nel bosco registra in clausola «morto», accompagnato da «giorno» 8, cui idealmente si potrebbe aggiungere «ritorno» 14 (nel suono e nel senso affine a

«ricordo»), entrambi con arsi di 4a; né forse sarebbe da dimenticare «sorge» 9.

Accanto – in linea con il percorso “vitale” – si registra il lemma «vita» 7, forse accentuato da «viso» 12:

L’uomo che va nel bosco (lo rallegra un suono di campana da non sa

bene quale paese: certezza di bel tempo?)

pensa a un tratto i compagni ch’è inutile chiamare,

i compagni spariti con le bocche 5

sporche di mirtilli in intrichi d’ombra e sole.

La briga della vita lo stesso giorno, o un altro, lo dimentica al margine d’un nulla in cui sorge

come una riva un poggio e donne girano 10

il viso alla parete dei monti

con sulle spalle falci, che, divaricate, oscillando, scintillano.

Al suo ritorno l’aria

è quella giusta, sottile, che punge 15

se anche nessuno, nel frattempo, è morto.

Ma, al di là di tali occorrenze, L’uomo che va nel bosco irradia una serie di le-gami attinenti alla fragilità della vita, specie con poesie della medesima sezione:

anzitutto la «falce», che – come già osservato dalla critica – si registra ne L’estate 4-5, con «l’erba» che «s’arrende al taglio netto della falce»; ma, prima ancora (III sezione), nel «falciatore» de L’epigramma pisano 1-4 («Il falciatore in Piazza dei Miracoli / falcia un’erba cui più di quel tanto / non concede di crescere / in nessuna stagione, da sempre»), significativamente affine al «pescatore» del medesimo testo («simile al pescatore che ritira / la rete colma di pesci invisibili / nella sinopia del Maestro ignoto, / ma quanto più in disparte, / viola stinto con falce lungo il muro del Campo», 4-5), che, a sua volta, avrà il compito di aprire la raccolta Sinopie decidendo della vita e della morte (nella poesia La trota). A

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tale fragilità è strettamente correlato il motivo di un labile confine, altro fil rouge dell’ultima parte del libro. Il «margine d’un nulla», al verso 9,28 è immagine va-riamente declinata entro la sezione: basti pensare al «lembo / della vita» nell’ex-plicit della successiva Nel dopopioggia; o ai «limiti del nostro giorno», 25 e a «la fine / d’un’estate, d’un anno» de L’estate 27-28; ma anche – sempre ne L’estate e in termini più impliciti – al «filo a sbalzo» («ma solo una speranza, tesa, com’è del filo / a sbalzo, quando un tronco scende», 9-10), sintagma altresì registrato in A Giovanni, per San Silvestro, P («La morte non è più / nel filo a sbalzo teso nell’albe / dei boscaioli […]», 2-4) e Il fanciullo del paradiso, nCf-ot («“Torci torci il tuo cappio, ora, fanciullo / del paradiso! Il filo a sbalzo è un serpe / trop-po inquieto!”», 8-10), indizio sottile e inquietante della precarietà dell’esistenza, come suggerisce un passo del racconto La morte del gatto:

Non mi par vero di non vedere un filo a sbalzo qui intorno, ma risento le telefonate dei boscaioli della Valtellina venuti a lavorare pel Patriziato: colpi di randello sul portante;

e i gridi che riempivano questa conca come i guaiti delle volpi, e Bortolo che mostra la camicia strappata su una spalla, dicendo: – La vita la va a strappi, come il filo, – quel filo che, quando gli saltava il ruzzo, levava tali stridori che i contadini cessavano di lavorare, e, appoggiandosi a una forca o ad un rastrello, guardavano in su: chi non sapeva che la cordina, se salta, con uno schiaffo dei suoi ti può mandare all’altro mondo!29

Tale frontiera verrà annullata – lo preciserò oltre – in Nel cerchio familiare e ne deriverà, a partire da Prima dell’anno nuovo, un altro fondamentale binomio, quello fra silenzio e parola, quasi a suggerire che è «dal vuoto del silenzio che si origina il pieno della parola; è dall’incombere della morte che viene la necessità di dire».30 E la strettissima correlazione fra parola e vita appare condensata, e magistralmente illustrata, proprio nel testo posto a sigillo della sezione [Se fai come il vecchio sartore], specie nell’immagine del «vecchio»: «[…] vedi il vecchio, / ma non poi tanto vecchio, dal morbo irrimediabile, / che ancora vive, ancora racconta storielle e saluta / con un sorriso che gli occhi straniti non

Tale frontiera verrà annullata – lo preciserò oltre – in Nel cerchio familiare e ne deriverà, a partire da Prima dell’anno nuovo, un altro fondamentale binomio, quello fra silenzio e parola, quasi a suggerire che è «dal vuoto del silenzio che si origina il pieno della parola; è dall’incombere della morte che viene la necessità di dire».30 E la strettissima correlazione fra parola e vita appare condensata, e magistralmente illustrata, proprio nel testo posto a sigillo della sezione [Se fai come il vecchio sartore], specie nell’immagine del «vecchio»: «[…] vedi il vecchio, / ma non poi tanto vecchio, dal morbo irrimediabile, / che ancora vive, ancora racconta storielle e saluta / con un sorriso che gli occhi straniti non